venerdì, febbraio 24, 2017

L'aborto e la schiavitù di coscienza

L’idea di assumere medici per l’aborto, e di rescindere il loro contratto nel caso poi rifiutino di eseguire aborti, supera l’immaginazione e sfida il senso comune e la morale comune. Peggio, è l’affermazione oggi facile di un buonsenso omicida appeso a una interpretazione politicamente corretta dei diritti cosiddetti riproduttivi della donna. L’interruzione volontaria di una gravidanza non è più una decisione sociale attivata in serie e limitate circostanze di fatto, non ricade più sotto la casistica almeno formalmente ispirata alla tutela sociale della maternità, come dice la vecchia legge 194 nella sua fatale ambiguità, diventa un diritto della persona che chiede soddisfazione allo spazio pubblico nella forma suprema della violazione della libertà di coscienza del medico, comprata dai servizi di stato a norma di contratto. Altro che moratoria e altre bellurie umanitarie e onusiane, è la sanzione della condanna a morte di esseri non ancora nati, piccolissime persone che si possono fotografare, che sentono dolore, che hanno una struttura cromosomica già formata e unica al mondo, che non hanno alcuno strumento di difesa contro il loro destino extragiuridico. E il medico viene trasformato in boia, esecutore di una volontà personale che nasce dalla volontà generale interpretata dal legislatore e perfezionata dalla decisione amministrativa di un bando regionale che rende obbligatorio per i tecnici della salute far scattare la ghigliottina abortiva. La parola barbarie viene spesso usata per sciocchezze, per quisquilie, ed è inflazionata: qui è la esatta definizione della cosa.

L’unica domanda che ci si può rivolgere di fronte al fatto che la grandissima maggioranza dei medici non vuole fare aborti è: perché? E l’unica risposta è che alla coscienza umana e professionale di un medico ripugna dare la morte. Per superare questa barriera, che in quanto libertà della coscienza, comunque la si intenda, è il sale delle libertà moderne e dei diritti moderni, si inventa invece la risposta molieresca del Misantropo. L’uomo è invariabilmente vizioso, non credetegli se impugna le sue convinzioni, è nell’interesse degli obiettori, per la carriera e per le condizioni di lavoro, dichiarare la loro ripugnanza e abbandonare al suo destino tragico, compresa la prospettiva dell’aborto clandestino, chi decide di abortire. Insomma, nella sua quasi interezza la classe medica fa schifo. Il mondo morale viene rovesciato: la deontologia medica, il dover essere di chi si occupa di tutelare per quanto possibile e sempre la vita umana, impone, con lo strumento della contrattazione e la minaccia di licenziamento come clausola bronzea, di dare soddisfazione a un diritto sancito dalla legge in favore del diritto alla privacy e alla felicità presunta dell’uno contro la libertà di esistere dell’altro.

Considero Camillo Ruini un maestro di razionalità religiosa, pur avendo sempre segnato con rigore il perimetro laico della mia battaglia contro la sordità morale sull’aborto, nella quale furono e sono impegnati grandi maestri di laicità e di cultura umanistica e scientifica, ma è debole e rassegnato l’argomento da lui esposto secondo cui in linea di fatto non è vero che non ci siano abbastanza medici per praticare gli aborti richiesti. Parlare in questo modo è un passare sopra la sostanza della questione aperta dal contratto per terapeuti che si impegnano, contro una penalità di licenziamento che è peggio dei contratti capestro della Casaleggio Associati ai povericristi mandati a amministrare le città e in Parlamento, a scavare nel seno di una donna e a mettere il risultato del suo amore in un sacchettino che ha l’etichetta di “rifiuti ospedalieri”. La risposta a un atto tanto inconsapevolmente feroce, a un crimine contro l’umanità peggiore di qualunque guerra e di qualunque colonialismo, deve essere alla sua altezza, deve essere civilmente feroce, uno scontro di assoluti. Il padre della chiesa di oggi, il Santo Padre, non crede ai princìpi o criteri di vita e di ragione naturale non negoziabili. Pensa che la difesa della vita umana sia una priorità pastorale da mettere di lato in favore di altre priorità, la predicazione della misericordia, la carità contro la povertà e l’egoismo, il recupero della fede personale. Questa scelta in sé sarebbe insindacabile se non fosse disperatamente autocontraddittoria, perché con un miliardo e non so quante centinaia di milioni di aborti nel mondo in trenta-quarant’anni parole come misericordia e carità si sciolgono come neve al sole. Le motivazioni della casuistica morale dei gesuiti sono misteriose oggi come nel XVII secolo, e non è obbligatorio essere giansenisti per dubitarne. Ma nella modernità laica chi ha fede in un Dio trascendente e chi afferma l’inconoscibilità della cosa in sé è unito, al di là del dogma e della speculazione filosofica, nella difesa di quel che Rémy Brague, grande filosofo e storico ratzingeriano, definisce “le propre de l’homme”, ciò che è tipico dell’uomo, ciò che appartiene all’essere umano in quanto tale. O dovrebbe esserlo. Nella schiavitù di coscienza di un medico a contratto si specchia la sordità morale di un mondo dannato in cui la regola individuale è “fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”.
Giuliano Ferrara
http://www.ilfoglio.it/cronache/2017/02/23/news/roma-assunti-medici-abortisti-barbarie-ferocia-122160/?paywall_canRead=true

giovedì, febbraio 23, 2017

Removing the prolife amendment will lead to widespread eugenics


The 8th amendment has saved thousands of lives, particularly of those who are disabled. Let’s consider the specific case of babies with Down Syndrome, also known as trisomy 21.
In England and Wales ninety percent of those who are diagnosed before birth with Down Syndrome are aborted and there is a growing concern that these appalling figures might even go higher, as it has happened in other countries. Recently, the Don’t Screen Us Out campaign was launched in the UK to oppose the implementation of earlier forms of prenatal genetic screening, which would inevitably lead to more Down Syndrome babies being killed before birth.
Rapid advancements in genetics research and in screening technologies are tools that can be used for good or bad purposes. Genetic screening can be useful. For instance, knowing in advance that someone will be born with disabilities or limiting conditions might help their family in getting prepared to welcome and take care of them after birth. But at the same time, there is always the very high risk that this kind of screening will be used for eugenics, i.e. the selection of the fittest and the termination of the life of those who are not deemed healthy enough. In order to avoid this risk we need proper legislation that guarantees the protection of the weakest. This kind of protection is precisely one of the many positive effects of the 8th amendment, without which we would see more and more Down Syndrome babies being aborted.
The issue of disabled unborn children has been raised at the Citizens’ Assembly by Dr Peter McParland, who is the Director of Fetal Maternal Medicine at the National Maternity Hospital, Dublin and Associate Clinical Professor at UCD.  Talking about a new technology for genetic screening he claimed that: “The impact of this type of testing in other countries has been huge. In Iceland, no babies have been born with Down Syndrome in the last four or five years. There is a State sponsored funded system where all mothers are offered this test and all mothers are availing of the test and all mothers when they are diagnosed with this problem are availing of a termination of pregnancy. And in Denmark in the past four or five years there have been only a handful of babies with Down Syndrome born. … So this is the way the rest of the world is going.”
At the end of his presentation he makes some very important remarks about women travelling abroad for an abortion: “why are they going over to have a termination of pregnancy? Well, again, they gave a comprehensive breakdown of Irish figures. 69 go over because of chromosome problems. And the biggest group by far is Down Syndrome. 40 with Down Syndrome. I don’t think anyone here would say that this is a fatal, lethal, life-limiting condition. Though Down Syndrome babies now live till their 50s or 60s, they might not live as long as the normal life spam, maybe into their 80s now, but 40 of these are for Down Syndrome. If you think of the figures I said to you earlier on about Iceland and Denmark, we would expect to have about 100 babies born with Down Syndrome in Ireland. Now, not all babies with Down Syndrome in the womb would survive the pregnancy. It is reasonable to assume that a third would probably die in the womb, but you are left perhaps with 30 babies with Down Syndrome and who could have been born in Ireland and are not been born in Ireland. We are not Iceland and we are not Denmark but there is a trend there.”
He repeats the same arguments during the Questions and Answers session.
We are already losing 30 Down Syndrome babies per year in Ireland. Changing the Constitution will only make things worse. Those who want a referendum on the 8th amendment sometime claim that more services for families is the answer to selective abortion that targets the disabled.  However, while it is obviously true that more services would be beneficial to families who struggle with disabilities, killing unborn children with disabilities would reduce demands for disability services which would then be further starved of resources.
Also, Nordic countries like Denmark and Iceland were renowned for their generous welfare states, but this hasn’t prevented the almost total extermination of Down Syndrome people from those countries. According to a survey mentioned by the Copenhagen Postthe majority of Danes see the steep drop in Down Syndrome births as a positive development. Sixty percent believe it was good there were considerably fewer children with trisomy 21 being born.
Dr Hans Galjaard, a famous professor of human genetics who is considered the Dutch father of prenatal diagnostics, in a 2014 radio interview affirmed that Down Syndrome has to disappear from society. Only recently the Dutch Minister of Health, Mrs. Schippers, was asked if she planned to take any measures to prevent the Danish and Icelandic scenario from happening in the Netherlands. Mrs. Schippers answered: “If freedom of choice results in a situation that nearly no children with Down syndrome are being born, society should accept that”.
This is the logical and inevitable consequence of the pro-choice attitude and there is no way to prevent this happening if the constitutional protection of the unborn is removed through a referendum.
Where the unborn is not protected, genetic screening leads to the progressive eradication of disabled children. Eugenics, in other words.

Online resources:
Downpride
Stop discriminating Down

domenica, febbraio 19, 2017

Big majority of submissions to Citizens’ Assembly support the right to life

In October, the Citizens’ Assembly invited the general public to submit written opinions and contribute to the discussion on the 8th amendment to the Constitution, which is the pro-life amendment. The response from concerned citizens has surprised the organisers for two reasons: for the huge number of submissions and for the fact that a clear majority of them (70pc) express support for the 8th amendment. More than 13,000 submissions have been presented both by post and electronically. Many more than the organisers expected. Unfortunately, rather than taking extra time to consider and discuss them, those running the Citizens’ Assembly have decided to concentrate on a sample of 300 submissions randomly chosen. The rest will be ignored. Is this fair?
Of course it would have been impossible for the members of the Assembly to read all the 13,000 and more submissions. It would have required weeks. The organisers instead should have divided them so to give to every member of the Assembly an equal amount of submissions to be considered. Accordingly, every single person who has submitted would have been certain that their opinions were listened to and appreciated.
It is not too late to do that but I doubt if it will happen. If it did happen, the Assembly members could not fail to be struck by that fact that  the majority of submissions are in support of the 8thamendment. Looking at the random sample of 300 that has been selected and offered for discussion to the members of the Assembly, 70% of the citizens were in favour of the 8th amendment while only 28% wanted a referendum.
During the Questions and Answers session some members of the Citizens’ Assembly asked Justice Laffoy that a breakdown be given for the number of submissions on both sides of the debate. Will this be provided? Probably not, as Justice Laffoy immediately replied that such a breakdown may not be possible. Why not? The request is more than legitimate. Otherwise what was the point of soliciting submissions?
If the random sample was truly representative of the 13,000 submissions received, then we already know the answer to the question; 70pc of those who made submissions don’t want a referendum.

giovedì, febbraio 16, 2017

Why Universities Must Choose One Telos: Truth or Social Justice 



Aristotle often evaluated a thing with respect to its “telos” – its purpose, end, or goal. The telos of a knife is to cut. The telos of a physician is health or healing. What is the telos of university?
The most obvious answer is “truth” –- the word appears on so many university crests. But increasingly, many of America’s top universities are embracing social justice as their telos, or as a second and equal telos. But can any institution or profession have two teloses (or teloi)? What happens if they conflict?
As a social psychologist who studies morality, I have watched these two teloses come into conflict increasingly often during my 30 years in the academy. The conflicts seemed manageable in the 1990s. But the intensity of conflict has grown since then, at the same time as the political diversity of the professoriate was plummeting, and at the same time as American cross-partisan hostility was rising. I believe the conflict reached its boiling point in the fall of 2015 when student protesters at 80 universities demanded that their universities make much greater and more explicit commitments to social justice, often including mandatory courses and training for everyone in social justice perspectives and content.
Now that many university presidents have agreed to implement many of the demands, I believe that the conflict between truth and social justice is likely to become unmanageable.  Universities will have to choose, and be explicit about their choice, so that potential students and faculty recruits can make an informed choice. Universities that try to honor both will face increasing incoherence and internal conflict.

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mercoledì, febbraio 15, 2017

lunedì, febbraio 13, 2017

Teggi: quattro chiacchiere con una letterante

Teggi: quattro chiacchiere con una letterante


Jeux de mots e poker per definire il proprio mestiere, paradossi e arguzie sparse sul contatto coi bambini. È Annalisa Teggi, traduttrice italiana di Chesterton e apprezzata firma su più testate di “varia umanità”. Con Berica ha pubblicato una rassegna chestertoniana divulgativa dal titolo “Siamo tutti fuori”, e con lei abbiamo parlato di quest’ultimo lavoro, della passione per la lettura e di quella per la scrittura. E di come ci si imbatte nel suo amico Gilbert
“Alla tenera età di 32 anni ho cominciato la scuola elementare. Sono trascorsi otto anni da allora e la sto ancora frequentando, se Dio vuole spero di rimanerci fino all’ultimo istante di vita”.
Non si tratta di una eterna ripetente senza voglia di studiare. Annalisa Teggi, una bacheca piena di diplomi e lauree, si racconta fin dall’introduzione nella maniera tanto amata da Gilbert Keit Chesterton: il paradosso. Annalisa ha appena sfornato – non a caso – un libro dal titolo “Siamo tutti fuori”. Sottotitolo: Viaggio nel paese delle meraviglie di G. K. Chesterton. Ultima uscita della collana di Berica Editrice “UOMOVIVO – umorismo, vita di coppia, Dio”. La stesa collana – per intenderci – che ha pubblicato tra gli altri sia “Osservazioni di una mamma qualunque” di Paola Belletti che “Le nuove lettere di Berlicche” di Emiliano Fumaneri.
Nel suo blog Capriole Cosmiche (nato dopo la pubblicazione dell’omonimo libro), la Teggi ci accompagna passo passo fra i libri a cui ha lavorato. Di se se stessa scrive: “Non c’è un nome per il mestiere che faccio, e quindi gliel’ho dato io: letterante. Ante è una parola che dice molto di me. Innanzitutto è formata dalle sillabe iniziali del mio nome e cognome. In latino ante significa ‘prima’ e anche ‘davanti’. Non sono una che ama stare davanti o in prima fila, ma mi muovo sempre in anticipo. Questo è sia un pregio sia un difetto. Sono solerte, ma talvolta fin troppo apprensiva. Nel poker l’ante è un puntata che tutti i giocatori fanno prima di sapere che carte hanno in mano, per creare un piccolo ammontare per cui ‘valga la pena giocare’. Scommetto molto sul fatto che vale la pena giocare con le carte che mi trovo in mano di giorno in giorno.
Poi, ante è quel suffisso un po’ dispregiativo, che si usa in parole come ‘teatrante’ per indicare uno che bazzica nell’ambiente del teatro, ma fuori da qualsiasi categoria ufficiale. A me ricorda il dilettante, qualcuno che – tendenzialmente – si diletta di ciò che fa. Lo stesso vale per me, vivo di letteratura in modo vario ed eterogeneo: sono traduttrice letteraria, docente a contratto, blogger, sceneggiatrice teatrale”.

Il libro di Annalisa Teggi è uno di quei doni da prendere in mano, riprendere, rileggere, meditare. Non solo perché Chesterton è uno dei pochissimi autori capace di sorprendere e meravigliare ad ogni parola scritta, ma perché qui c’è di più. Leggendolo, si respira anzitutto una compagnia, una frequentazione intima che Annalisa fa trasudare navigando tra le parole dell’autore inglese.

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sabato, febbraio 11, 2017

Lettera sull'Abruzzo a Pasquale Scarpitti di Ennio Flaiano

ennio_flaiano

Caro Scarpitti,
adesso che mi ci fai pensare, mi domando anch’io che cosa ho conservato di abruzzese e debbo dire, ahimè, tutto; cioè l’orgoglio di esserlo, che mi riviene in gola quando meno me l’aspetto, per esempio quest’estate in Canada, parlando con alcuni abruzzesi della comunità di Montreal, gente straordinaria e fedele al ricordo della loro terra. Un orgoglio che ha le sue relative lacerazioni e ambivalenze di sentimenti verso tutto ciò che è Abruzzo.
Ennio Flaiano


Questo dovrebbe spiegarti il mio ritardo nel risponderti; e questo ti dice che non sono nato a Pescara per caso: c’era nato anche mio padre e mia madre veniva da Cappelle sul Tavo. I nonni paterni e materni anche essi del teramano, mia madre era fiera del paese di sua madre, Montepagano, che io ho visto una sola volta di sfuggita, in automobile, come facciamo noi, poveri viaggiatori d’oggi. Io ricordo una Pescara diversa, con cinquemila abitanti, al mare ci si andava con un tram a cavalli e le sere si passeggiava, incredibile!, per quella strada dove sono nato, il corso Manthonè, ora diventato un vicolo e allora persino elegante. Una Pescara piena di persone di famiglia, ci si conosceva tutti; una vera miniera di caratteri e di novelle che, se non ci fossero già quelle “della Pescara”, si potrebbe scavare. Ma l’ipoteca dannunziana è troppo forte, bisogna aspettare un altro poeta, e forse è già nato. Ciò che mi ha sempre colpito nella Pescara di allora era il buonumore delle persone, la loro gaiezza, il loro spirito. Tra i dati positivi della mia eredità abruzzese metto anche la tolleranza, la pietà cristiana (nelle campagne un uomo è ancora “nu cristiane”), – la benevolenza dell’umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie; e cioè quel sempre fermarmi alla prima impressione e non cambiare poi il giudizio sulle persone, accettandole come sono, riconoscendo i loro difetti come miei, anzi nei loro difetti i miei. Quel senso ospitale che è in noi, un po’ dovuto alla conformazione di una terra isolata, diciamo addirittura un’isola (nel Decamerone, Boccaccio cita una sola volta l’Abruzzo, come regione remota: “Gli è più lontano che Abruzzi”); un’isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, monumentali e libere: se ci pensi bene, il Gran Sasso e la Majella sono le nostre basiliche, che si fronteggiano in un dialogo molto riuscito e complementare. Tra i dati negativi della stessa eredità: il sentimento che tutto è vanità, ed è quindi inutile portare a termine le cose, inutile far valere i propri diritti; e tutto ciò misto ad una disapprovazione muta, antica, a una sensualità disarmante, a un senso profondo della giustizia e della grazia, a un’accettazione della vita come preludio alla sola cosa certa, la morte: e da qui il disordine quotidiano, l’indecisione, la disattenzione a quello che ci succede attorno. Bisogna prenderci come siamo, gente rimasta di confine (a quale stato o nazione? O, forse, a quale tempo?) – con una sola morale: il Lavoro. E con le nostre Madonne vestite a lutto e le sette spade dei sette dolori ben confitte nel seno. Amico, dell’Abruzzo conosco poco, quel poco che ho nel sangue. Me ne andai all’età di cinque anni, vi tornai a sedici, a diciotto ero già trasferito a Roma, emigrante intellettuale, senza nemmeno la speranza di ritornarci. Ma le mie “estati” sono abruzzesi, e quindi conosco bene dell’Abruzzo il colore e il senso dell’estate, quando dai treni che riportavano a casa da lontani paesi, passavo il Tronto e rivedevo le prime case coloniche coi mazzi di granturco sui tetti, le spiagge libere ancora, i paesi affacciati su quei loro balconi naturali di colline, le più belle che io conosco. Poco so dell’Abruzzo interno e montano, appena le strade che portano a Roma. Dico sempre a me stesso che devo tornarci a “vederlo”. Non certo per scriverne, scrittori abruzzesi che possono dirci qualcosa dell’Abruzzo d’oggi non mancano, io indulgerei un po’ troppo nella memoria, non so più giudicare, capisci quello che voglio dire? O forse, chissà… questa lettera che mi hai cavato con la tua dolce pazienza non volevo scriverla, per un altro difetto abruzzese, il più grave, quello del pudore dei propri sentimenti. Non farmi aggiungere altro, statti bene e tanti saluti dal tuo,
tratto da “Discanto” di Pasquale Scarpitti, edito da Sarus



giovedì, febbraio 09, 2017

Time to call maternity hospitals ‘pregnant people’ hospitals?

Time to call maternity hospitals ‘pregnant people’ hospitals?



If you give birth you are a mother and if you are pregnant you are an expectant mother?  Well, not anymore, according to the British Medical Association. Now you are a ‘pregnant person’.
new booklet issued by the BMA and aimed at promoting ‘inclusive’ and non-offensive language in the workplace claims that “A large majority of people that have been pregnant or have given birth identify as women. We can include intersex men and transmen who may get pregnant by saying ‘pregnant people’ instead of ‘expectant mothers’.”
This astonishing advice has obviously no scientific base, unless we change completely the meaning of basic words such as ‘man’ or ‘woman’. It is simply expression of an ideology, of a particular interpretation of the world that is not shared by the whole medical community, never mind the wider community.
The new guidelines, which are inspired by noble intentions, cover other areas such as age, disability, race, religion but the most controversial and confusing parts regard pregnancy and maternity.
What is not clear is how “pregnant people” should be described after birth. Should the word “mother” always be avoided? Let us try for a moment to think from point of view of the child.  Are the “expecting persons” who identify themselves as trans men (meaning someone who is biologically female but identifies as a male), the mothers or the fathers of their children? How should they be described by their kids? Will the child, in those exceptional cases, have two natural fathers and no natural mother? But then what is the meaning of the words ‘mother’, ‘father’ and ‘natural’ in these cases?
In an attempt to impose new meaning on old words the British Medical Association are creating not just more problems and confusion but even more offence, ironically. How many pregnant women will find it acceptable not to be called mothers? If the purpose of the guidelines is “to promote good practice through the use of language that shows respect for, and sensitivity towards everyone”, what about the sensitivity of those who want to be called by British doctors, like everywhere else in the world, mothers?
According to the guidelines, “Discriminatory language includes words and phrases that reinforce stereotypes, reinforce derogatory labels, exclude certain groups of people through assumptions, patronise or trivialise certain people or groups, or their experiences, cause discomfort or offence.” This is certainly true in some cases and genuinely discriminatory language should always be avoided but how is “expectant mother” a derogatory label or a stereotype? How many who have given birth have ever been offended by having been called mothers?
Moreover, if mother is a term to be avoided, then maternity hospitals should now be called pregnant people hospitals, and so on. (‘Maternity’, after all, is a gendered term just as much as ‘mother’ is).

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mercoledì, febbraio 08, 2017

Two rivals concepts of autonomy on display at Citizens’ Assembly



The principle of bodily autonomy was addressed by two speakers during last weekend’s session of the Citizens’ Assembly, which is still discussing the abortion issue. The two speakers took very different views on the issue. One speaker looked at the person as a pure individual, the other as a person in relationship with others.
Dr Joan McCarthy, from the School of Nursing and Midwifery at University College Cork, took the first view. She defended the principles of ‘autonomy’ and ‘justice’, claiming that ”respect for autonomy requires that we should not unreasonably restrict or constrain the life choices that individuals make.”
Her presentation (available here) was badly skewed by her own decision to do not discuss the moral status of the unborn, which is the central issue in all debates about abortion. Choosing not to address the value of human life before birth, without even providing a reason for this approach, compromised her whole presentation which otherwise contained some valid points.
Dr Joan McCarthy maintained that, “if we disregard a person’s autonomy, we are in some sense treating him or her, not as an individual with their own values and goals, but merely as a means, as an instrument, to achieving the goals of others. The individual becomes a means to an end rather than a person worthy of respect in their own right.”
The obvious question is if these words apply to the unborn as well. The same principles of autonomy and justice can be evoked to support or to oppose abortion, depending ultimately on what is the moral status of the unborn, which is precisely what Dr Joan McCarthy purposely ignores.
Dr McCarthy maintained that “the operationalisation of the eighth amendment in legislation and critical practice poses serious risks to the mental and physical health of pregnant women, tramples on their autonomy rights and requires of them a self-sacrifice that is unreasonable and unjust”. Would the sacrifice of their children be more reasonable and just?
She claimed that the principle of autonomy has been viewed as the foundation of other rights such as bodily integrity. This is correct but how many bodies are involved in an abortion? Obviously both the body of the woman and the body of her child. The two are intimately connected and any discussion about abortion that focuses only on one of the two bodies involved is necessarily limited and narrowminded.
Notably, Dr McCarthy did not set out what limits, if any, she would apply to abortion.
Dr Dónal O’Mathúna, a lecturer in Ethics from Dublin City University, defended instead what he called ‘the principle of relational autonomy’, meaning important decisions that happen within relationships and which bring ethical responsibilities. Self-rule autonomy focuses only on the good life of the individual while relational autonomy recognises that we live in relationships, our choices impact others and are impacted by others. (His paper is available here)
Even bodily autonomy is not an absolute principle, he argued. This is why, for example, we can’t sell our organs or inject illegal substances into our bodies. In a medical context, we can’t have an organ removed unless there are health reasons, even if it is our choice. Autonomy implies responsibility and limitations. Choices have consequences.
“Autonomy is a means to an end; it does not tell us what ends are ethical. Relational autonomy goes beyond the right to choose; it includes the responsibility to choose the right thing.” We don’t have the right to do whatever we want, Dr Dónal O’Mathúna told the audience.
He also invoked the ‘harm principle’: you make choices, so long as they do not harm others. This is precisely where the freedom of choice argument breaks down in abortion. “There is always an other where abortion is concerned. And by definition, that other ends up dead. Whatever opportunities or potential opportunities, the unborn might have, they are terminated totally.”
Dr Dónal O’Mathúna emphasised the concern for the weakest and the most vulnerable. When we protect them we also tell society that someone will take care of us if in need.
During question time, it was noticeable that Dr O’Mathúna was asked far more questions, some of them critical, than Dr McCarthy. None of the delegates thought to ask Dr McCarthy why she didn’t address the moral status of the foetus, or what limits, if any, she would place on the ‘right to choose’, or when she would think it appropriate for someone to have a make a personal sacrifice for someone else.