lunedì, febbraio 29, 2016

domenica, febbraio 28, 2016

All surrogacy is exploitation – the world should follow Sweden’s ban


Pregnant woman

 ‘Surrogacy may have been surrounded by an aura of Elton John-ish happiness, but behind that is an industry that buys and sells human life.’ Photograph: Katie Collins/PA
That something is not quite right about surrogacy has been evident for some time. Ever since the commercial surrogacy industry kicked off in the late 1970s, it has been awash with scandals, exploitation and abuse. From the infamous “Baby M” case – in which the mother changed her mind and was forced, in tears, to hand over her baby – to the Japanese billionaire who ordered 16 children from different Thai clinics. There has been a total commodification of human life: click; choose race and eye colour; pay, then have your child delivered.
Then there’s the recent case of the American surrogate mother who died; or the intended parents who refused to accept a disabled child and tried to get their surrogate to abort; not to mention the baby factories in Asia.
This week, Sweden took a firm stand against surrogacy. The governmental inquiry on surrogacy published its conclusions, which the parliament is expected to approve later this year. These include banning all surrogacy, commercial as well as altruistic, and taking steps to prevent citizens from going to clinics abroad.
This is a ground-breaking decision, a true step forward for the women’s movement. Initially divided on the issue women came together and placed the issue higher up on the agenda. Earlier in February, feminist and human-rights activists from all over the world met in Paris to sign the charter against surrogacy, and the European Parliament has also called on states to ban it.
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sabato, febbraio 27, 2016

venerdì, febbraio 26, 2016

Una scuola distributista: un’esperienza paradigmatica?

Una scuola distributista: un’esperienza paradigmatica?:

Allora, il distributismo, la faccio molto corta e molto semplice, non spaventatevi… Che cosa sostenevano Belloc, Chesterton e tutti questi altri pazzoidi che parlavano della società in modo che potesse essere un po’ più bella e un po’ più vivibile? Diciamo che alla sostanza, alla base del vivere civile, ci devono essere (…) tre cose. Alla base della vita sociale ci deve essere il lavoro, ci deve essere il terreno, il territorio (perché si parlava soprattutto di quelli che venivano dal mondo contadino) e ci deve essere il capitale, che non deve essere il capitale che intendiamo noi adesso, il capitale è ciò che qualcuno tiene da parte e che deve servire per continuare a vivere. Quando in una società questi tre elementi non appartengono alla maggioranza delle persone che ci vivono, si vive in uno stato che sostanzialmente porta alla servitù. Tanto è vero che Belloc ha scritto un libro importante, interessante, intelligente, straordinario, che si chiama Lo stato servile e che spiega proprio in che cosa consiste la servitù e la schiavitù. E che cosa hanno fatto questi tizi di San Benedetto del Tronto che forse voi non conoscete e che hanno un pazzo al loro capo? Hanno fatto una cosa straordinaria. E cioè hanno messo su una scuola—non so se la conoscete, si chiama “Chesterton”—che applica alla lettera questo concetto di distributismo, perché loro hanno un terreno che sono i ragazzi che ci vanno dentro, quindi un terreno da coltivare, un terreno da far fruttare, hanno il lavoro, il lavoro che ci mettono dentro, la forza lavoro e hanno soprattutto il capitale. Il capitale in cosa consiste? Consiste nella loro cultura, nel loro sapere della loro vita e della loro fede. Allora tenendo insieme tutte queste cose qui, si crea qualche cosa di bello e di straordinario che è destinato a vivere e a sopravvivere e quindi noi siamo qui anche per sostenerli in questa cosa.1
Nel Giugno 2010 il mio amico Alessandro Gnocchi pronunciò queste parole nel contesto dell’VIII Chesterton Day. Le trovai geniali perché sintetizzavano concetti molto importanti in poche righe e riconoscevano qualcosa di nuovo, collegandolo con la tradizione e la “scuola” distributista.

La prima questione che Alessandro evidenziava era questa: l’opera che all’epoca avevamo intrapreso da circa due anni, la Scuola Libera “Gilbert Keith Chesterton”, era effettivamente una realizzazione distributista. Essa infatti incarnava gli ideali di Chesterton, Belloc e McNabb perché—se parafrasiamo i caratteri che sintetizzano il distributismo classico -:

  1. avevamo una terra da lavorare e far fruttare, e cioè i figli che le famiglie ci avevano affidato ed i nostri stessi figli;
  2. avevamo il nostro lavoro, le nostre capacità, conoscenze, ideali, desideri e strade già percorse da indicare ai nostri ragazzi, un labor e cioè il frutto dell’inventiva, del sacrificio, dei tentativi ed anche della sofferenza (prendere la strada giusta e trasmetterne la conoscenza a qualcun altro integra perfettamente il senso della parola latina labor);
  3. avevamo il capitale, e cioè la nostra cultura intesa nel senso più cattolico del termine e cioè la fede che diventa vita vissuta.
Dice bene Chesterton, allora, quando—in uno dei suoi affilatissimi aforismi—afferma che il problema del capitalismo non è che ci sono troppi capitalisti ma che ce ne sono troppo pochi. È ovvio che Chesterton in questo caso intendeva per “capitalisti” i possessori degli strumenti atti a produrre valore, cultura e vita.

Questa esemplificazione estemporanea eppure efficacissima di Alessandro Gnocchi ci permette di fissare come punti di riferimento delle scoperte e sfatare alcuni luoghi comuni. La prima e più importante è che abbiamo potuto riconoscere nella realtà i semi di una novità proveniente dalla Tradizione che è buona per tutti. A questo proposito vale la pena di ricordare un altro sagace intervento sulla questione, quello di un altro amico, stavolta inglese, il compianto Stratford Caldecott, che ha approfondito dal suo punto di vista di studioso umanista la novità del distributismo. Caldecott nel Giugno 2012 intervenne al X Chesterton Day e tra le altre cose ci disse:

Sono d’accordo sul fatto che la società oggi sia fortemente sviluppata e fortemente complessa, per cui il meccanismo stesso è difficile da cambiare. (…) Per esempio, ho un amico in Sierra Leone,2 in Africa, che è venuto ad Oxford e ha studiato Chesterton e ha capito che queste idee potevano essere utilizzate nel suo paese, uno dei più poveri del mondo. Lui disse che il problema del suo paese è che hanno molte risorse naturali, ma sono stati danneggiati da una lunga guerra civile e sono stati influenzati da un’ideologia che dice che lavorare la terra vuol dire appartenere ad uno stato sociale basso. L’unico modo è spostarsi in città e diventare per esempio insegnante. Per cui ci sono città sovrappopolate dove tutti vogliono diventare insegnanti e le terre sono abbandonate. Così ha fondato questa “Società di Chesterton” per insegnare alle persone l’importanza dell’agricoltura e dell’allevamento. Questo è un modo per soddisfare la propria umanità, per portare beneficio alla società. Così si associano, comprano la terra e la usano e si accordano con i capi locali, poi comprano l’attrezzatura e formano le persone per utilizzare queste attrezzature. Quindi è come se fosse una “scuola di comunità”, e hanno un club di calcio per coinvolgere i giovani e per dare un senso di collaborazione. (…) Il nostro sistema economico non sta funzionando più bene e penso che la crisi non sia ancora finita. Molte persone adesso tornano al Distributismo per sviluppare nuove forme di pensiero economiche.3

Distributismo da riconoscere nelle pieghe della realtà

Questo, lungi dal significare che dovremo morire figli di questo sistema capitalistico, vuol dire invece che le esperienze vive hanno molto da insegnare, e che l’approccio “empirico”, cioè nascente dalla realtà dei fatti, supera decisamente ogni calcolo, sistema ed equazione di carattere economico, e soprattutto ogni obiezione sull’impossibilità di cambiare rotta alla società attuale. Nell’opinione media si ritiene che solo se un’idea che pretende di scalfire l’aspetto economico della vita sia riducibile ad equazioni o sistemi o modelli può essere ritenuta spendibile, imitabile e ripetibile. In altre parole, senza i crismi dell’economia ufficiale un’idea non avrebbe speranze di sviluppo. Quello che voglio affermare è esattamente il contrario, ossia che la realtà ci dimostrerà, anzi ci sta dimostrando che il distributismo può essere realizzato perché è parte del cuore dell’uomo e che se esistono delle formule o dei modelli per sintetizzarlo queste devono venire alla luce solo dopo le esperienze concrete, fatte di nomi, cognomi, facce e storie. D’altra parte ci sono esperienze del passato che costituiscono un valido esempio di come la vita prevalga sulla teoria: il fenomeno tipicamente italiano dei Monti di Pietà e quello sudamericano delle reducciones gesuitiche (saranno oggetto di prossimi miei interventi).

Ancora Caldecott ci ricorda che Gilbert Keith Chesterton:

era diventato scontento, non più illuso dalla politica, in parte perché i politici erano corrotti, qualcosa su cui tutti possiamo riflettere, e realizzò che i problemi sia in Inghilterra che in Europa erano più profondi da poter essere risolti solamente attraverso un movimento politico. Per cui aveva capito che c’era bisogno di un movimento cristiano e spirituale di base, e questo movimento avrebbe portato frutti (…).4
Quest’ultima precisazione ci dà l’idea del senso di ciò che sta succedendo ad alcune persone nel mondo, meglio ancora: della direzione che molti di noi stanno prendendo oggi. Le esperienze partono per loro natura dal basso, non senza aver ricevuto quell’ispirazione dall’alto che non proviene da intellettuali o esperti ma dalla vita cattolica, dai Sacramenti, dalla fede antica. A questo proposito è significativo che molti che seguirono Chesterton a partire dalle sue idee sociopolitiche abbiano finito poi per convertirsi al cattolicesimo,5 e che chi ha questa visione spesso prende proprio le mosse dalle esperienze come quella del monachesimo occidentale di San Benedetto da Norcia.6

Un luogo comune che viene sfatato dalle affermazioni di Alessandro Gnocchi è quello costituito dall’idea che certi movimenti debbano necessariamente partire da un luogo «politico» od «economico» in senso stretto e convenzionale, mentre la nostra scuola, col suo potenziale di novità e cambiamento, parte dall’esperienza educativa portata alla sua massima e comprensiva estensione.

La vicenda a questo punto merita qualche approfondimento in più, anche perché oggi è ancor più vero quello che disse Gnocchi e quello che confermava dall’Inghilterra Caldecott, solo che nel frattempo la storia si è ampliata ed articolata e ci siamo accorti che il distributismo non è un sogno ma è già realtà, anzi: constatiamo ogni giorno che più percorriamo questa strada, più questa strada si rende necessaria per salvarci dallo stato servile.7

La Scuola nasce a San Benedetto del Tronto (AP), nelle Marche, terra che ha dato i natali a San Giacomo della Marca (dovremmo forse considerarlo una sorta di precursore o profeta del distributismo, lo vedremo più avanti – anche se in realtà è il distributismo che trae la sua ispirazione dalla vita e dalle realizzazioni di uomini come questi e dal contesto in cui vissero). Alcuni padri e madri decidono di dare continuità all’esperienza educativa cattolica nata prima in casa e poi proseguita positivamente in una scuola paritaria retta da un ordine di brave suore, una scuola che però terminava con l’ultimo anno delle elementari. Ci imbarcammo nell’avventura della scuola sfruttando un principio sancito dalla Costituzione italiana che consente ai genitori di educare ed istruire i figli a casa secondo le proprie convinzioni (arte. 30 e 33.8). All’estero si chiama homeschooling ed è cosa quotidiana, soprattutto negli Stati Uniti d’America, da noi si è guardati come marziani. La differenza è che decidemmo di fare l’homeschooling tutti insieme e di dare questa possibilità anche ad altre famiglie. La decisione definitiva fu presa nel mese di Luglio del 2008, la scuola aprì i battenti nel Settembre dello stesso anno. Il suo motto: “Una cosa morta può andare con la corrente, ma solo una cosa viva può andarvi contro”. La frase di chi era? Ma di Chesterton, ovviamente. Fu questa, assieme ad altre due affermazioni dello scrittore inglese (“La gente è inondata, accecata, resa sorda e mentalmente paralizzata da un’alluvione di volgare e insipida esteriorità, che non lascia tempo per lo svago, il pensiero o la creazione dall’interno di sé”; e “per farla breve, il male da cui sto cercando di mettervi in guardia non è l’eccesso di democrazia, né l’eccesso di bruttezza, né l’eccesso di anarchia. Potrebbe essere definito così: è la standardizzazione verso un basso standard”),9 a darci la spinta finale ed incoercibile per salpare l’ancora e partire. Nasce così la Scuola Media Libera “Gilbert Keith Chesterton”, cui segue poco dopo anche il Liceo delle Scienze Umane “Gilbert Keith Chesterton” e l’Istituto Professionale “Gilbert Keith Chesterton”. Oggi la scuola conta circa settanta ragazzi. È per così dire un’istituzione familiare perché:

  1. si regge sul lavoro di insegnanti che spesso sono essi stessi genitori dei ragazzi che la frequentano;
  2. si muove dal presupposto che le famiglie che vi portano i propri figli debbano essere coinvolte nel lavoro educativo della scuola. La famiglia è uno dei capisaldi del distributismo prima ancora dell’idea di proprietà dei mezzi di produzione e di tutto il resto, che pure ne sono alla base.
A questo punto torno a citare Stratford Caldecott che afferma:

Il Distributismo è la visione per cui la proprietà privata dovrebbe essere distribuita ampiamente nella società piuttosto che essere concentrata in alcune mani. E questo ha lo scopo di rendere possibile che sempre più persone siano capaci di essere responsabili per le loro famiglie attraverso un lavoro produttivo e degno. (…) La base del movimento era l’importanza delle famiglie contro quest’idea del capitalismo che concentra la ricchezza in poche mani.10

La scuola distributista nasce da un popolo

La scuola non è un’istituzione “terza”, ma fa affidamento e forza su chi la fa (professori, genitori ed alunni, ciascuno per quel che è chiamato a fare), sul sostegno di chi la stima e ritiene che essa sia un tassello fondamentale per un mondo diverso da quello cui siamo ormai totalmente mitridatizzati. Fondamentalmente fa affidamento su un popolo di cui è espressione. Quando riceviamo visite sempre più frequenti di persone che vorrebbero percorrere la nostra stessa strada, spinti dall’invadenza di politiche favorevoli all’ideologia di genere nelle scuole o dall’inconsistenza delle idee sull’educazione presenti nella scuola pubblica, ci accorgiamo che questo è un aspetto spesso sottovalutato da chi viene a conoscenza di quest’esperienza; eppure la nascita da un popolo è conditio sine qua non per qualunque realizzazione distributista. Questo sostegno è ovvio che sia anche materiale, perché la scuola è libera e come tale neppure paritaria, cioè non percepisce alcun aiuto dallo Stato (in Italia il sistema è formalmente basato sulle scuole statali e sulle scuole paritarie,11 cioè su scuole private che a determinate condizioni vengono ammesse nel sistema scolastico pubblico, condizioni che in ogni caso impongono controlli e una copiosa soffocante burocrazia su di esse). Le bassissime e pressoché simboliche rette vengono affiancate da un sistema di raccolta dei fondi che ha la sua bandiera in ciò che abbiamo voluto battezzare con il nome di un’antica e gloriosa istituzione, quella dei Monti di Pietà,12 i cui principali artefici furono i Francescani Osservanti e nella fattispecie uomini del calibro di San Bernardino da Siena e di quel San Giacomo della Marca mio conterraneo ricordato qualche riga fa. Per noi il Monte assume una connotazione particolare: un gruppo di persone si tassa liberamente, con costanza e con cadenza settimanale dando ciò che può per sostenere economicamente quest’opera in maniera stabile. In realtà sostiene la terra su cui egli stesso poggia i piedi, i rapporti cordiali e concreti su cui fonda la sua vita, le facce amiche che costituiscono le cellule di questo organismo, il futuro di un buon modo di vivere perché senza l’educazione non c’è futuro alcuno per qualunque civiltà.

Distributismo, prima di tutto una visione ed un metodo

Questo metodo è assolutamente rivoluzionario perché mette da parte:

  1. l’idea, patrimonio dell’Italia postunitaria e anticattolica, che la scuola sia un’istituzione che viene dall’alto; è un’idea che non corrisponde al modo in cui la scuola è nata e si è imposta nell’Europa occidentale, e cioè a partire dalle istituzioni cardine che hanno formato il nostro modo di vivere, cioè dai monasteri, dalle cattedrali, dalle confraternite, dalle gilde e così via.
  2. il sistema bancario capitalistico, visto attualmente come unica fonte del credito; per secoli la nostra civiltà ha utilizzato ed elaborato metodi diversi per il credito, ed oggi ce ne siamo dimenticati. Il capitalismo è fondato sull’accumulo del denaro, il distributismo sulla diffusione e sulla leva “popolare” e familiare nella raccolta del risparmio e nel suo uso, e questo spiega molto l’attitudine al risparmio diffuso tra le nostre famiglie italiane, soprattutto nel Centro Italia.
  3. l’idea che si debba organizzare la propria vita e quella della propria famiglia secondo schemi non nostri, non rispondenti ai propri ideali. Questo del conformismo è il vero reale problema per l’affermazione dello stato distributista. Iniziare a pensare la vita in modo differente da come un soffocante potere sembra imporci è la prima sfida che dobbiamo rivolgere a noi stessi e alle nostre famiglie. In questo senso l’educazione è l’unico strumento che può darci speranza.
La fondazione della scuola ci ha poi permesso di comprendere come alcune scelte rimettano in discussione altre: se ho deciso di fare una scuola, se ho pensato di sostenerla, e se per sostenere la scuola ho deciso di destinare una parte più o meno consistente dei miei risparmi ad essa, allora ciò vuol dire che:

  1. i miei risparmi possono avere una destinazione non convenzionale (ossia possono non finire nelle banche o in istituzioni simili, che sostengono un sistema diverso da quello che auspichiamo, anzi un sistema opposto);
  2. lo scopo del risparmio può essere non solo quello della sicurezza futura o nel consumo futuro ma anche quello dell’edificazione di un mondo differente che risponda ai propri ideali; l’uomo non si esprime consumando ma costruendo;
  3. posso scegliere anche di lavorare per edificare questo mondo, alla stessa maniera dei monaci benedettini di millecinquecento anni fa e del popolo che li seguì (la vera rivoluzione del monachesimo benedettino non fu né economica né tecnologica ma fu il “nihil amori Christi praeponere”).

Propositi di Fede e Rivoluzione

Per i nostri progetti titanici di fede e rivoluzione, ciò di cui abbiamo bisogno non è una fredda accettazione del mondo con un compromesso, ma qualcosa che ci permetta di odiarlo fervidamente e di amarlo fervidamente. Non vogliamo che la gioia ed il rancore si neutralizzino a vicenda e producano una triste soddisfazione, vogliamo una gratificazione più intensa, un malcontento più intenso. Dobbiamo percepire l’universo come il castello dell’orco, da prendere d’assalto, e al tempo stesso come la nostra villetta, dove possiamo tornare ogni sera.13
Come accennavo nel mio precedente articolo, ampliando e perfezionando questo sistema abbiamo acquistato un terreno ed una casa in un posto bellissimo della nostra città per trasferirvi con il tempo anche la scuola. La cooperativa Capitani Coraggiosi, oltre la scuola, gestisce molte attività della nostra Opera G.K. Chesterton (comprende anche una società sportiva, un servizio di doposcuola, un’impresa che reinserisce nel lavoro i soggetti svantaggiati e si occupa di lavori edili, agricoli, gestione di strutture pubbliche come palazzi dello sport, cimiteri ed altro). Dicevo nel precedente articolo che tutte le imprese al momento di una compravendita di una certa rilevanza chiedono un mutuo in banca e pagano servendosi del ricorso al credito bancario. Noi abbiamo invece deciso di acquistare il bene mediante la sottoscrizione di un aumento del capitale sociale della cooperativa acquirente e la raccolta dei risparmi dei soci della cooperativa con lo strumento dei libretti di risparmio cooperativo (ipotesi disciplinata in Italia dalla normativa sulle società cooperative). Il bene è oggi di ciascuno e di tutti i soci, cioè del popolo che ha voluto la scuola, che conta sulla scuola, che ha anche altre attività per le quali si aiuta reciprocamente in modo concreto e fattivo, e non dipende dalla benevolenza di una banca che fa esclusivamente i suoi affari e non ha nessun interesse verso il nostro “business” se non la preoccupazione della restituzione del capitale mutuato e il guadagno massimo possibile. Per l’acquisto ciascuno ha messo a disposizione le proprie risorse (non solo quelle schiettamente finanziarie ma anche quelle professionali nel corso della costosa e laboriosa ristrutturazione della casa: alcuni hanno lavorato gratuitamente come soci volontari della nostra cooperativa, altri hanno offerto la loro opera professionale gratuitamente o si sono fatti promotori di accordi per prezzi più bassi e molto altro ancora) perché – dicevamo -contribuirà a far crescere anche un’idea molto diversa di “benessere”, fondato sull’educazione che è il motore di qualunque società sana, la cultura, la bellezza,14 i rapporti amichevoli e affettuosi, la “gestione” della propria famiglia, il futuro della propria società, di questo piccolo regno fatto da tanti piccoli regni del senso comune (per usare un’espressione di Chesterton). Il benessere che promuoviamo, come si vede, è molto diverso da quello che ci prospetta il capitalismo, fondato solo sull’individualismo, sull’accumulazione del denaro e sul consumo (non così diverso da quel “produci, consuma e crepa” che ho trovato scritto sui muri di un palazzo della mia città, vergato da qualche anarchico che non conosce né il distributismo né noi, purtroppo). Ora si capisce meglio perché non è molto differente ciò che accade in Sierra Leone da ciò che accade sul Colle di Santa Lucia a San Benedetto del Tronto. Mettere in atto il ricorso al credito reciproco è funzionale all’edificazione di un modello differente e valido di società, non più soggetto alle crisi (più che ricorrenti ormai continue) del capitalismo. Chesterton e Belloc lo chiamano “stato distributista”, Chesterton usa anche l’espressione “piccoli regni del senso comune”.

Abbiamo così verificato che è vero quello che dicevano Chesterton e amici, e cioè che la famiglia è il vero volano di tutto, e che è quella piccola repubblica da cui tutto dipende (lo stato distributista è questo tessuto delle piccole repubbliche familiari). Mettere sotto scacco la famiglia in tante maniere (rifiuto del matrimonio tradizionale, ideazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, aborto, eugenetica, contraccezione, leggi indifferenti o contrarie alla famiglia secondo una prospettiva economica, e così via) ha come risultato quello di accendere una bomba ad orologeria che travolgerà pure chi l’ha accesa e ne riattizza la miccia quotidianamente.

Voglio andare oltre

Un sistema simile è basato sull’idea della necessità ed insostituibilità dell’aiuto reciproco,15 della carità cristiana in altre parole, e non ha quindi dei limiti prefissati per essere attuato. Per cui esistono esperienze simili seppure diverse in cui è possibile vedere lo stesso marchio. Abbiamo degli amici a Norcia, i Monaci del locale monastero benedettino; essi vivono in un modo molto simile, fabbricando la loro birra in monastero e vivendo come un gruppo di uomini che costruiscono un mondo in cui nulla è preposto all’amore di Cristo.16 Alcuni chestertoniani americani spinti da Dale Ahlquist hanno fondato quella che noi chiamiamo “la nostra scuola gemella”, la Chesterton Academy di Minneapolis (non ci crederete ma siamo nati nello stesso anno gli uni all’insaputa degli altri, partendo dalle stesse parole di Chesterton…)17 ed è evidente che il distributismo sia alla sua base. Il Sierra Leone Chesterton Center fondato da John Kanu è un altro bell’esempio, tra l’altro molto concreto ed agricolo.

Una società formata di cellule come quelle che ho solo citato, saldate tra di loro da legami di aiuto reciproco fondati in Nostro Signore Gesù Cristo, può stabilire una rete di buone ed umane relazioni per una vita più vera, può creare un tessuto valido ed utile ad affrontare qualunque tempesta.

Non credo di essere azzardato se paragono queste pur umili esperienze con l’anelito di Verità che mosse secoli fa San Benedetto da Norcia.

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giovedì, febbraio 25, 2016

Benedetto Croce e la lingua italiana

50 anni fa, il 25 febbraio 1866 nasceva Benedetto Croce, filosofo, storico, politico, critico letterario e scrittore abruzzese, napoletano d'adozione.


Qui ne parlano alcuni studiosi importanti, tra i quali il mio caro Domenico Jervolino.



Benedetto Croce e la lingua italiana - La Lingua Batte del 21/02/2016

mercoledì, febbraio 24, 2016

Il Ddl Cirinnà, gli artisti e il luogo comune
di Pietrangelo Buttafuoco
da Il Mattino del 23 febbraio 2016
Gli artisti che schifano il torto e vanno incontro al diritto sono un’immane calata di guallera. 
Quattrocento ottimati in forma di registi, canzonettisti e sartine che fanno comitiva in difesa del disegno di legge Cirinnà, quella che disciplina i vincoli omosessuali, cadono nel luogo comune.
Con conseguente danno alla stessa Cirinnà.
Il ciapiciapi di chi piace alla gente che piace è una sorta di vintage dell’ideologismo.
Certo, non c’è da togliere di mezzo un commissario di PS (come accadde negli anni ’70 con l’appello contro Luigi Calabresi) è solo il birignao elevato a Costituzione.
Non c’è scampagnata più ordinaria, ormai, di un flash mob arcobaleno ma è il gran ritorno dell’impegno degli impegnati.
Uommini scicche e femmine pittate al seguito di Daria Bignardi e Jovanotti confermano, infatti, lo scollamento tra la vita vera degli Zappatori (tagliati fuori da ogni storytelling) e la rappresentazione della collettività che, al contrario, hanno loro, padroni di ogni sceneggiatura. Fosse pure in continuità mistica con i nastrini arcobaleno del Festival di Sanremo.
Le unioni civili si portano molto in società, fanno molto cancelletto-hashstag e generano like in rete.
Non c’è casalinga, oggi, che non si strugga di patema per i diritti della comunità Lgbt.
La prima preoccupazione di ogni mamma, oggi – ancora prima di insegnare l’Ave Maria ai proprio bimbi – è di far sillabare ga-y affinché le creature non incorrano in lapsus omofobici.
Ma gli altolocati che spargono l’adamantina virtù, quella propria dell’umanità emancipata, altro risultato non ottengono che un sovrabbondare di retorica nell’Italia da troppo tempo prona allo stucchevole sentimentalismo dei diritti sui torti.
Con gravi torti agli stessi diritti.
Siamo pieni di diritti civili ma certezza di futuro nel lavoro, niente.
L’artista che monta la guardia al bidone della giusta causa fa pietosa mostra di sé. Da che mondo è mondo – infatti – la poesia è stata eversiva, giammai consolatoria o, peggio, pedagogica e fiancheggiatrice del governo in carica.
Il fatto è che i comunisti sono diventati radical e si adoperano nel bovarismo se un premier da Bacio Perugina qual è il radical Matteo Renzi – narrativo per eccellenza – se ne esce con una frase come “Non ci devono spaventare quelli che si amano”.
Ecco, dovere d’artista sarebbe di smutandarne l’ipocrita messa in scena o, per dirla con il magnifico libro di Diego Davide, fuggirsene da chi fa sobbalzare la guallera (ve lo consiglio: De Guallera, edizioni A Est dell’Equatore).

martedì, febbraio 23, 2016

UMBERTO ECO
C’est vers le Moyen Age énorme et délicat
Qu’il faudrait que mon coeur en panne naviguât,
Loin de nos jours d’esprit charnel et de chair triste.
P. Verlaine
Sabato 12 marzo prossimo, a Dio piacendo, andrò a messa alle 18 a Firenze, nella “mia” Santa Maria Novella, nella biblioteca del convento adiacente alla quale, presso i cari Padri Domenicani, ho depositato a titolo di lascito una parte cospicua dei miei libri. Ho chiesto che vi sia celebrata una messa in suffragio a Umberto Eco. Chi può, ci venga.
Poco per volta, in punta di piedi, la generazione degli Anni Trenta ci sta lasciando. Non facciamone una tragedia: in fondo, è nell’ordine delle cose. Per me e per tutti quelli della successiva, la generazione degli Anni Quaranta, è un segnale da accogliersi con serenità: un po’ mesta, magari. Uno per uno – parlo della categoria dei miei colleghi, ch’erano tutti anche amici – se ne sono andati l’uno dietro gli altri, fra i più famosi, Jacques Le Goff, Sergio Bertelli, Girolamo Arnaldi. Ora è la volta di Umberto Eco, migratus ad Superos – per dirla con i versi del nostro caroGaudeamus igitur, l’inno della Grande Goliardia alla quale non ha mai cessato di appartenere – nella tarda serata del 19 febbraio scorso. Or ora.
Lo so: le leggi di natura. E la vita che si è allungata. Fino ad alcuni anni fa, gli ottant’anni erano un limite valicare il quale era relativamente inconsueto; oggi la “speranza di vita” naviga verso i novanta. Ci sarebbe da rallegrarsi. Eppure io non so, non posso, non riesco ad abituarmi all’idea che non ci sia più. Non troppi mesi or sono era venuto appunto a mancare a Parigi – come dicevo poco fa – un suo grande amico, il medievista Jacques Le Goff. “E’ davvero finita un’epoca”, ebbe a dire lui al riguardo. La sua stessa morte ce l’ha confermato. Per me che sono più o meno un decennio più vecchio di lui, che sono cresciuto intellettualmente a colpi di Diario minimo e di Elogio di Franti, il fatto che lui ci abbia lasciato è la riprova che si è ormai chiuso il Grande Novecento. Quel tempo ch’è stato anche mio: il tempo di Sartre, di Caillois, di Derrida, di Salvador Dalì, di Woody Allen. Il secolo splendido e terribile che ha saputo mettere accanto – anche se magari non insieme – Stalin e Teresa di Calcutta, Hitler e Schweitzer, Khomeini e David Bowie.
Umberto Eco fu una rivelazione per noialtri ch’eravamo poco più che ventenni mezzo secolo fa, quando lui era poco più che trentenne e impazzava – ancora senza barba e con molti chilogrammi di meno – dalle colonne de “L’Espresso”. Una pattuglia di giovani che stavano in equilibrio parcheggiati tra università e RAI (lui stesso, Eugenio Battisti, Furio Colombo e pochi altri) riuscì a scombinare le carte di un gioco politico e culturale stantìo, si aprì e ci aprì a un’Europa intellettuale impensabile e per molti versi scandalosa, ci mostrò verso quali funambolici orizzonti potevano giungere la semiologia collegata con l’estetica e con la politica.
Poi, sulla soglia del suo mezzo secolo d’età, quel divo dell’Accademia, della carta stampata e del piccolo schermo ci sorprese e ci sedusse con un “giallo medievistico” che grondava filologia ed erudizione combinando la storia della filosofia medievale e dei movimenti ereticali con la suspence alla Sherlock Holmes (“Elementare, Adso!”): ci trasportò tutti in un’abbazia benedettina del Trecento e nella sua labirintica biblioteca, obbligò un Mostro Sacro del cinema come Sean Connery a vestire gli umili panni color cenere di uno scettico e deluso francescano ex-inquisitore che ricordava tanto Guglielmo d’Ockham (ma che era “di Baskerville”, come il mastino di Conan Doyle…), disegnò un capolavoro di ritratto del mistico reazionario Jorge da Burgos prestandogli i tratti e i pensieri del grande odiato-amato Luís Borges. Dopo Il Nome della Rosa, per tutti noi il medioevo non fu più lo stesso. Confesso che quello non è il mio romanzo echiano preferito: per molte ragioni, preferisco Il pendolo di Foucault.Eppure, quel racconto di frati inquisitori-investigatori e di eretici spaesati e bizzarri ha fatto epoca, come Il Signore degli Anelli in letteratura e come Il settimo sigillo eL’Armata Barncaleone al cinema.
Eco non ha mai cessato di stupirci, dall’invenzione del “suo” dipartimento nell’Università di Bologna (il DAMS: Arte-Musica-Spettacolo) fino agli appuntamenti settimanali della “Bustina di Minerva” ch’eravamo in tanti a non voler perdere nemmeno per una sola puntata. Spesso ci pettinava contropelo, ci scandalizzava; anche sul piano umano sapeva essere simpatico e divertentissimo, eppure a tratti – quando voleva: o quando non poteva fare altrimenti – si trasformava per diventar sprezzante, altezzoso, antipatico, insopportabile. Anche il suo rapporto con Dio era sopra le righe: giovane cattolico di ferro, militante di Azione Cattolica di un rigore piemontese che ricordava Giovanni Bosco e Pier Giorgio Frassati, diceva che una mattina si era svegliato scoprendo che Dio non esisteva e che Tutto era Nulla. Eppure continuava a sentirsi anzitutto e prima di tutto un medievista e a studiare il “suo” Tommaso d’Aquino, all’estetica del quale ha dedicato studi (recentemente ripubblicati) che sono diventati dei veri classici e che sono piaciuti a Étienne Gilson, a Rosario Assunto, a Massimo Cacciari.
Ci trovammo mesi fa, in un lungo tranquillo dopocena con altri amici, attorno a una tavola parigina. Non dissi nulla, ma lo trovai smagrito, un po’ stanco. Forse erano i primi segni della malattia che ce lo ha rapito. Scherzavamo sul suo giovanile cattolicesimo e sul mio pertinace “clericalismo”. Io gli davo dell’”apostata”, lui a sua volta dava a me del “superstizioso”. Poi mi disse: “E comunque io ti fregherò: andrò in paradiso prima di te”; “Non ti faranno entrare”; “Lo dici tu: Dio lo conosco, abbiamo letto gli stessi libri (era una sua vecchia battuta: alludeva appunto a Gilson, a Marrou, a De Lubac…); e poi sono amico di san Tommaso…”; “…ti ci sei arruffianato…”; “…è quello che ti dicevo: li conosco, sono vecchi amici: vuoi che mi lascino fuori? Ma non temere: in fondo sei un bravo ragazzo, vedrai che avranno misericordia. E io ti aspetterò sul portone, anche se sei un vecchio fascista”.
Ci conto, Umberto. Se mai arriverò su quella soglia, sbircerò dal portone socchiuso e aspetterò di vedervi, tu e Tommaso, sorridenti e corpulenti entrambi, lui nel suo severo abito bianco-nero e tu nel saio sbrindellato di Guglielmo di Baskerville. Spero che direte davvero per me una parola buona al Portinaio.
                                                                              Franco Cardini

lunedì, febbraio 22, 2016

Happy birthday to me.


domenica, febbraio 21, 2016

Around the web

Around the web:



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Busy, busy couple of weeks.  So, I’ll let others do the writing.  Here’s a large load of links:


David Oderberg on the current state of bioethics: Interview at BioEdge (reprinted at MercatorNet).


Neo-Aristotelian meta-metaphysician Tuomas Tahko is interviewed at 3:AM Magazine.   He also has recently published An Introduction to Metametaphysics


Michael Novak revisits the topic of Catholicism and social justice in a new book co-written with Paul Adams.  Interview at National Review Online, commentary at First Things, the Law and Liberty blog, and The Catholic Thing.


At The Imaginative Conservative, Bradley Birzer analyzes Hitchcock’s Vertigo.  (I offered my own analysis here some time back.)



Modern philosophers: Stephen Mumford and Rani Lill Anjum are here to tell you that “Causation is Not Your Enemy.”  Paper here, outline here.


Daniel Mahoney on political philosopher Pierre Manent, at City Journal


New books: Svein Anders Noer Lie, Philosophy of Nature: Rethinking naturalness; Ronald Baines and Richard Barcellos, Confessing the Impassible God; Glenn Siniscalchi, Retrieving Apologetics; Francis Beckwith, Taking Rites Seriously: Law, Politics, and the Reasonableness of Faith.


And some old books: Henri Grenier’s Thomistic Philosophy manuals are back in print.


The Los Angeles Review of Books on the reissue of Roger Scruton’s Thinkers of the New Left.


William Carroll on mind, brain, and materialism, at First Things; and on science and theology, at Public Discourse.


What influence did H.L.A. Hart have on John Finnis’s “new natural law” theory?  Santiago Legarre investigates


At Just Thomism, James Chastek on James Ladyman and scientism


Scientific American asks: Is string theory science?   Quanta Magazine addresses the same question.


Fr. James Schall on the goodness of wrath and anger.


Eva Brann revisits Allan Bloom’s The Closing of the American Mind.


New Statesman on the first atheists.


Christopher Caldwell on Bradley Birzer on Russell Kirk, in The New York Times.


At Crisis, Fr. George Rutler on German episcopal condescension toward Africa


Somebody had to say it: The Daily Mail explains why Star Wars sucks


Defender of divine simplicity James Dolezal is all over YouTube


At Public Discourse, philosopher Rachel Lu on women in the military.


Christopher Malloy at Thomistica.net on “new natural law” theory and practical politics.


The Guardian asks: How close are we to creating real superpowers?  (By the way, since they had to go and use a picture of him: I have always hated the character Deadpool, and, from what I’ve seen of it, the new movie is vile.)


Via YouTube, John Haldane’s lecture on virtue, happiness, and the meaning of life.




At the Claremont Review of Books, Douglas Kries comments on J. Budziszewski’s Commentary on Thomas Aquinas’s Treatise on Law.

sabato, febbraio 20, 2016

Il pensiero di Brachamutanda

Swami Brachamutanda (Bora Bora 1818-Baden Baden 1919) è il fondatore della scuola tautologica i cui principi fondamentali sono delineati nell'opera Dico quello che dico: L'Essere è L'essere, La Vita è la Vita. L'amore è l'Amore, Quello che piace piace, Chi la fa la fa e Il Nulla Nulleggia. Il maestro era era notoriamente inflessibile e severo (taluni dicono: dogmatico) con i discepoli deviazionisti. Brachamutanda sosteneva una versione rigidamente sostanzialista del suo pensiero, per cui dire "la donna è la donna" rappresenta una verità incontrovertibile, mentre sostenere, come facevano alcuni, che "la donna è donna" implicava una pericolosa degenerazione accidentalista (con sfumature di relativismo scettico). Si ricorda infatti il caso del fedele discepolo Guru Guru che,dopo aver sostenuto che "gli affari sono affari" e "i soldi sono soldi", era fuggito con la cassa della comunità. Brachamutanda aveva sostenuto il colpo con stoicismo, radunando i discepoli intorno al desco vuoto e asserenddo che "chi non scappa c'è". Ma quell'evento aveva segnato l'inizio del suo declino, come vogliono alcuni dossografi, alla notizia che l'infedele era stato arrestato dalla polizia di frontiera, si era lasciato sfuggire un "chi la fa l'aspetti" che, come è evidente, contraddiceva i principi essenziali della sua logica. Da questo evento (citato in letteratura come la Svolta ovvero la Brachamutandaskehre non poteva che nascere,per interno capovolgimento dialettico, la scuola eterologica, il cui fondatore fu il professor Janein Schwarzenweiss, nato a Bergthal nel 1881, autore delle due summule eterologiche note come Je est un autre e Il futuro anteriore. Lo Schwarzenweiss sosteneva che l'Essere è il Nulla, il Divenire sta, lo Spirito è materia, la Materia è Spirito, la Coscienza è Inconscia, il Movimento è Immobile, sino all'enunciazione del cosidetto principio ultimo: "La filosofia finisce con i presocratici". Non sono mancate a questa scuola le deviazioni economiciste ("Chi più spende meno spende") cosi come va ricordata la filiazione di una scuola eteropragmatica ("Partire è un pò morire, Chi tace acconsente, Il meglio è nemico del Bene"). La scuola eterologica accusava i tautologisti di aver ispirato solo opere di scarso rilievo artistico quali Tora Tora, New York New York, No no Nanettee Que sera sera. Gli eterologisti millantavano l'influenza che essi avrebbero esercitato su capolavori quali Guerra e pace, Il Rosso e il Nero, Avere e non avere, Rich man poor man. Al che i discepoli di Brachamutanda opponevano che queste opere eterologiche non sono, perchè non si fondano sull'opposizione bensi sulla connessione logica, e osservavano che a questo prezzo gli eterologisti avrebbero potuto anche rivendicare diritti sul whiskey Black and White. Quando sulla rivista Alfazeta, gli eterologi avevano tentato di mettere le mani su "Essere o non essere", i tautologisti li avevano scherniti (non del tutto immotivatamente) osservando che alla base del monologo shakesperiano stava il principio di Brachamutanda per cui "o l'essere è l'essere, oppure il non essere è il non essere". "Caro Amleto! O l'uno o l'altro!" aveva sarcasticamente osservato il tautologo Rosso Rossi-Rossi, e aveva concluso, citando uno dei più limpidi aforismi del Maestro:"Quando è troppo è troppo". Ma, insenilendo su queste dispute di scuola, i due filoni stavano ormai esaurendosi, sotto l'offensiva di quello che veniva ormai chiamato il Pensiero Dinoccolato: partendo dall'affermazione apparentemente oscura che "il diavolo fa le pentole e quindi i gattini ciechi," i seguaci della nuova corrente ne fondavano la legittimità sui noti paradossi dell'implicazione materiale per cui "se io sono il mio gatto allora il mio gatto non è me" è proposizione vera in ogni mondo possibile. 

 da Il secondo diaro minimo di Umberto Eco.

giovedì, febbraio 18, 2016

Voi pensate che sia la giornata mondiale del gatto, così come ieri pensavate che fosse la giornata del...

Voi pensate che sia la giornata mondiale del gatto, così come ieri pensavate che fosse la giornata del...: Voi pensate che sia la giornata mondiale del gatto, così come ieri pensavate che fosse la giornata del canguro. Sul Foglio online spiego la stretta connessione fra felini e unioni civili nell'ottava puntata di Bandiera bianca.


mercoledì, febbraio 17, 2016

Why ISIS hates the Sufis and blows up their shrines

Why ISIS hates the Sufis and blows up their shrines:





​​​​​The soul that denies true love as its motto Were better unborn; its existence is dishonour. So be drunk with love, for love is all there is. Unless you deal with love, the way to God is closed.
These words were among the hundreds of poems written by Rumi, the 13th-century Sufi apostle of lo...

By Nile Green

Read at Aeon

martedì, febbraio 16, 2016

lunedì, febbraio 15, 2016

Unflattening, il fumetto che vi aiuterà a vedere il mondo in più dimensioni

Forse la causa di molti equivoci storici sul valore del fumetto è racchiusa tutta in quella prima frase del Vangelo di Giovanni – “In principio era la Parola” – che proclama in modo perentorio la supremazia incontrastata della dimensione verbale su ogni altro aspetto umano. È proprio per contrastare questa visione così logocentrica che l’anno scorso Nick Sousanis, un ricercatore della Columbia University di New York appassionato di fumetto, ha scritto (e disegnato, come vedremo) la sua tesi di dottoratoUnflattening: A Visual-Verbal Inquiry into Learning in Many Dimensions (edita poi su libro dalla Harvard University Press con il semplice titolo Unflattening). Con la sua tesi Sousanis intende rivalutare l’importanza dell’aspetto visivo del nostro pensierouna delle caratteristiche alla base dellagrande efficacia narrativa ed educativa del fumetto considerata tuttavia secondaria o non rilevante in buona parte della nostra attuale formazione scolastica e lavorativa. Sfida notevole, insomma. Ma lo è anche il risultato.
Unflattening-sousanis

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sabato, febbraio 13, 2016

Il fronte unico dei modernisti

Può dirci qualcosa il modo in cui si è svolta in queste settimane la discussione sulle unioni civili e sul problema connesso dell’adozione del figliastro (stepchild adoption)?

di Ernesto Galli Della Loggia

Attraverso quali vie oggi possono nascere e diffondersi in un Paese come l’Italia sentimenti di estraneità ostili nei confronti delle élite, a cominciare magari da quelle culturali e giornalistiche? Di avversione verso il loro ruolo nello spazio pubblico, e quindi, inevitabilmente, di protesta verso la politica? Quei sentimenti, cioè, che poi finiscono per confluire indifferentemente da destra o da sinistra nel grande collettore che abbiamo convenuto di chiamare «populismo»? Per cercare una risposta può forse dirci qualcosa il modo in cui si è svolta in queste settimane la discussione sulle unioni civili e sul problema connesso (almeno fino ad oggi) dell’adozione del figliastro (stepchild adoption).

Essendo incerta l’effettiva percentuale dei favorevoli e contrari tra gli elettori, qualunque dibattito in merito avrebbe dovuto equamente rappresentare, come è ovvio, entrambe le posizioni. Posizioni le quali, prima che politiche sono posizioni culturali e morali riguardanti questioni di grande complessità, ambiti fondamentali della vita personale e collettiva. Ebbene, mi chiedo e chiedo: si può onestamente dire che il dibattito in merito sulla grande stampa e in televisione — le uniche sedi che contano — sia stato all’altezza di tale complessità?

Continua qui.

venerdì, febbraio 12, 2016

The sport of competitive pigeon flying (or ‘doo fleein’, in the parlance of its practitioners) is a centuries-old Scottish tradition, and the pursuit of no more than about 1,000 Scots. It requires an expertise in all things pigeon, but essentially boils down to luring an opponent’s birds into a sexual rendezvous with your own pigeons. Pouters follows two longtime rivals, Rab and Danny, as they compete for doo fleein’ supremacy among bleak Glasgow apartment tower blocks.

 
POUTERS from Better Days on Vimeo.

giovedì, febbraio 11, 2016

mercoledì, febbraio 10, 2016

domenica, febbraio 07, 2016

Confessions of an Irish Catholic anarchist…


12674419_10153889554894210_646874076_nWith election time on the horizon, the descriptive terms in the title start coming up in conversation more and more frequently. And yes, it is all correct; I’m an Irish citizen, a devout Catholic and a committed anarchist. To the average person, that might seem incongruous- certainly the last two- even absurd. But it is all correct.
Needless to say, questions come thick and fast:
How I can remain in the hierarchical Catholic Church- which prizes devotion and obedience above just about everything- and embrace a political outlook that rejects hierarchies and embraces liberty and free thought?
Doesn’t anarchism reject organization altogether in favour of chaotic rebellion?
Can you really be part of a hierarchical church- a very often reactionary and intolerant one- and still maintain your own liberty and autonomy, both of which sacrosanct to anarchists?
‘No Gods, No Masters’ and ‘I believe in God the Father Almighty’… Can you actually hold on to both?
My personal answer comes from years of lived experience, thousands of pages, dozens of interactions, and much contemplation. It comes from discovery and investigation of the rich seam of radical thought within Christian teaching and history- the worker priests of France; the Catholic Worker movement of Dorothy Day and Peter Maurin; the theology of Jacques Ellul and Nicolai Berdyaev; the philosophy of Leo Tolstoy… So the thoughts I’ll give here are relatively brief, but there’s plenty to explore…
… In the words of one Jewish carpenter, ‘seek and you shall find’…
More here.

sabato, febbraio 06, 2016


Due storie mediche diversamente istruttive


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“Il cancro uccide attraverso le metastasi”, come dice uno studioso della suddetta università, il dottor Avik Som. I ricercatori del suo gruppo hanno puntato   a combattere il tumore alzandone il pH, ossia rendendone “alcaline” le cellule, e l’ambiente strettamente circostante.  Ricordiamo che l’equilibri acido-basico del sangue dovrebbe essere mantenuto a pH 7,35-7,45 (il pH è una misura dell’acidità:   più il numero è basso, più il sangue o il tessuto è acido). Il carbonato di calcio, sciolto semplicemente in acqua, dà un pH 9 (alta alcalinità), come ci si può aspettare da un anti-acido. Quando è iniettato nel corpo, effettivamente fa’ salire il pH del corpo al livello fisiologico, 7,4. Però   solo per breve tempo. Il motivo, secondo i ricercatori è che il calcio carbonato cristallizza in cristalli troppo grossi per penetrare le cellule, e anzi nell’acqua la cristallizzazione continua a crescere, “come gli stalattiti in una caverna”. L’idea è dunque stata di ottenere la sostanza in forma di nano particole, mille volte più piccole dei cristalli naturali.

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