domenica, settembre 25, 2016

     VANGELI
tratto dal n. 05 - 1999 della rivista "30 Giorni nella Chiesa e nel mondo"

Amati, odiati comunque noti


Il Vangelo di Marco era così conosciuto nella Roma imperiale del primo secolo che alcuni autori dell’epoca vi fanno riferimento nelle loro opere, chi parodiandolo, chi parlandone con ammirazione e simpatia. Come spiega Marta Sordi, una delle maggiori esperte del cristianesimo antico. Intervista


Intervista con Marta Sordi di Stefano Maria Paci

Il Vangelo di Marco? Sarebbe stato scritto a Roma appena pochi anni dopo la morte di Gesù Cristo, attorno all’anno 50, ed è frutto diretto della predicazione di san Pietro. Ci sono nuovi, autorevoli studi che sostengono questa tesi. Una tesi che contraddice l’esegesi tuttora imperante anche nei seminari e nelle facoltà teologiche secondo la quale i Vangeli non conterrebbero il racconto dei testimoni oculari degli eventi che vi sono descritti, ma sarebbero stati composti dalle comunità cristiane dei secoli successivi.
Corteo imperiale, particolare del bassorilievo dell’Ara Pacis Augustae, a Roma
Corteo imperiale, particolare del bassorilievo dell’Ara Pacis Augustae, a Roma
Invece il Vangelo di Marco, contrariamente a quanto si dice abitualmente, era così conosciuto nella Roma imperiale del I secolo che alcuni autori dell’epoca vi fanno continuo riferimento nelle loro opere, chi parodiandolo, chi parlandone con ammirazione e simpatia. Esaminando gli scritti degli autori pagani si scopre così che la crocifissione, da supplizio vergognoso, viene improvvisamente trasformata in esaltazione vittoriosa, che Seneca potrebbe avere avuto rapporti con san Paolo, che gli autori stoici rimodellano i miti pagani, come quello di Ercole, sulla figura di Cristo Salvatore. E il singolare Editto di Nazareth, scritto da un imperatore romano e scoperto attorno al 1800, che colpiva retroattivamente con pena di morte chiunque avesse spostato cippi sepocrali, sarebbe di Nerone, e segnerebbe l’inizio della persecuzione dei cristiani in Giudea. Proprio alla voce secondo la quale i cristiani avrebbero trafugato il corpo di Cristo per fingere la resurrezione, e a questo Editto, farebbe riferimento Matteo alla fine del suo Vangelo («Così questa diceria si è divulgata tra i Giudei fino ad oggi», Mt 28, 15); non ne parla però Marco. Un ulteriore indizio del fatto che il discepolo di Pietro abbia scritto il Vangelo prima dell’Editto di Nerone.
Per saperne di più su queste nuove ipotesi siamo andati ad incontrare la professoressa Marta Sordi, direttore dell’Istituto di storia antica dell’Università Cattolica di Milano, una delle massime esperte del cristianesimo dei primi secoli.
Professoressa, cosa emerge da questi nuovi studi?
MARTA SORDI: Si è spesso sostenuto che il cristianesimo a Roma è stato conosciuto tardi. Secondo l’interpretazione più diffusa di un passo di Svetonio lo stesso imperatore Claudio non aveva nemmeno capito che Gesù era morto in Palestina, ma credeva che fosse presente a Roma. Nel I secolo, insomma, secondo le interpretazioni correnti, nel cuore dell’Impero romano si aveva una concezione vaga, confusa di cosa fosse il cristianesimo. Quello che invece sta emergendo, e che rompe gli schemi prestabiliti, è che non solo già nel I secolo il cristianesimo era conosciuto a Roma da molti, anche intellettuali e appartenenti ai circoli imperiali, ma era visto, almeno in certi ambienti, con simpatia e ammirazione.
Da cosa nasce questo proliferare di scoperte sulla presenza dei cristiani a Roma nel I secolo?
SORDI: A metterle in moto è stata l’identificazione, accettata da alcuni e respinta da altri, di un frammento, il 7Q5, scoperto nelle Grotte di Qumrân in Palestina, con un passo del Vangelo di Marco. Il frammento è databile a prima del 50 d.C. e proviene probabilmente da Roma. Questa identificazione è servita, sia pure soltanto come ipotesi di lavoro, a stimolare la ricerca storiografica. Ha permesso cioè di riesaminare la validità di testimonianze che l’ipercritica nata nell’Ottocento, putroppo ancora attiva oggi quando si tratta di notizie riguardanti il cristianesimo delle origini, aveva accantonato.
Essa conferma, innanzitutto, la notizia che Pietro era venuto a Roma nel 42 d.C., all’inizio del regno di Claudio, e che il Vangelo di Marco era la stesura della sua predicazione fatta dallo stesso Marco su richiesta dei Romani, soprattutto cavalieri e cesariani (i liberti imperiali), che lo avevano ascoltato.
Che testimonianze storiche ci sono della presenza di Pietro a Roma e dell’esistenza di una comunità cristiana nel cuore dell’Impero già negli anni 40 del I secolo?
SORDI: Il fatto che Pietro fosse a Roma in quegli anni è attestato da Clemente di Alessandria e da Papia di Gerapoli, ambedue del II secolo dopo Cristo, e si accorda perfettamente con la conversione, avvenuta nell’anno 42/43 d.C. e raccontata da Tacito nei suoi Annales, a una «superstitio externa» (che è certamente il cristianesimo) della matrona romana Pomponia Grecina, moglie di un generale di Claudio e appartenente a una famiglia vicinissima alla corte imperiale. Paolo nel capitolo 16 della Lettera ai Romani parla poi della presenza di cristiani nella casa di Narcisso, liberto e ministro di Claudio, che era appunto un cesariano. Luca dedica a un cavaliere romano il Vangelo e gli Atti degli Apostoli. Tertulliano parla di un tentativo di Tiberio di riconoscere il cristianesimo già nel 35 d.C. e Giuseppe Flavio ci rivela che subito dopo, nel 36/37 d.C., il legato di Tiberio, Vitellio, a Gerusalemme depose Caifa dal sommo sacerdozio. Lo stesso Vitellio, nel 43 d.C., venne lasciato a Roma da Claudio con pieni poteri durante la spedizione dell’imperatore in Britannia ed era il responsabile del governo al tempo della venuta di Pietro.
Predica di san Pietro alla presenza di san Marco, Tabernacolo dei linaioli, 
Beato Angelico, Museo di San Marco, Firenze
Predica di san Pietro alla presenza di san Marco, Tabernacolo dei linaioli, Beato Angelico, Museo di San Marco, Firenze
L’identificazione del 7Q5 con un passo del Vangelo di Marco, insomma, si accorda pienamente con tutti questi dati, provenienti da fonti diverse (non solo cristiane ma anche pagane e giudaiche) e, rivelando la conoscenza che la Roma dei Giulio Claudi ebbe molto presto del cristianesimo, ha permesso a me e ai miei allievi di rileggere con nuova attenzione fonti prima trascurate.
E cosa avete scoperto?
SORDI: La dottoressa Ilaria Ramelli, in un articolo pubblicato su Aevum 1996, ha dimostrato – e io credo con buoni argomenti – che Petronio, nel suo famoso Satyricon scritto nel 64/65 d.C., conosceva e parodiava il racconto di Marco sull’unzione di Betania. Io stessa e il collega Erhard Grzybek, dell’Università di Ginevra, abbiamo sostenuto alcuni mesi fa su una rivista tedesca (Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 1998) che il cosiddetto Editto di Nazareth è di Nerone e cerca di colpire i discepoli di Cristo ancora viventi in Giudea, accettando la versione giudaica sul sepolcro vuoto riferita da Matteo alla fine del suo Vangelo. Petronio stesso, nella sua novella sulla matrona di Efeso, mostra di conoscere il racconto evangelico e di volerne fare, come nel caso precedente, la parodia.
Da questi vostri studi emerge che il cristianesimo, per quanto ben conosciuto, provocò negli ambienti della cultura e del potere romani solo irrisioni e persecuzioni.
SORDI: Non unicamente. Se la conoscenza che del cristianesimo hanno Nerone e Petronio denota ostilità e irrisione, ci sono altre testimonianze, provenienti soprattutto dall’ambiente dell’opposizione stoica a Nerone e Domiziano, che rivelano invece ammirazione e simpatia. Un’iscrizione di Ostia del I secolo, pubblicata in CIL XIV, 566, prova che esistevano effettivamente cristiani, devoti a Pietro e a Paolo, nella casa di Seneca, e la stessa Ramelli, in un articolo comparso su Vetera Christianorum 1997, avanza l’ipotesi che l’epistolario fra Seneca e Paolo, tolta la lettera dell’incendio del 64 d.C. che Girolamo non conosceva e che si rivela un’aggiunta più tarda, potrebbe essere autentico. Laura Cotta Ramosino poi, in un articolo che sta per essere pubblicato su Aevum 1999, mette in evidenza come il poeta Silio Italico – che scriveva sotto i Flavi ma che aveva rivestito il consolato sotto Nerone nel 68 d.C. – nel suo poema epico, Punica, rinnova la tradizione letteraria introducendo in due casi il supplizio della croce con un significato del tutto diverso da quello tradizionale.
La morte in croce era considerata dai Romani un supplizio infamante, di cui vergognarsi. Non è così?
SORDI: Sì, proprio così. Ma Silio Italico fa addirittura morire sulla croce, diversamente da tutti gli scrittori precedenti, Attilio Regolo, l’eroe della fides romana (Pun. II, 343 e 435/C). In questo modo la croce stessa da supplizio ignominioso finisce per essere considerata un segno di vittoria sugli aguzzini e sulla Fortuna, e perde il suo carattere infamante a causa della nobiltà di colui che la subisce. L’altro episodio riguarda un servo del re iberico Tago, crocifisso da Asdrubale (Pun. I, 151): il servo vendica il suo padrone e dopo aver sopportato con fortezza la tortura, chiede la pena stessa del suo signore: «Dominique crucem clamore reposcit» (Pun. II, 181), «richiede ad alta voce la croce del suo signore». Sono quasi le identiche parole che nei racconti apocrifi della passione di san Pietro vengono attribuite all’apostolo.
Ancora Ilaria Ramelli, in un articolo pubblicato alcuni mesi fa sulla Rivista di storia della Chiesa in Italia 1998, analizza la tragedia Hercules Oetaeus attribuita a Seneca ma risalente probabilmente ad uno stoico (certamente pagano) dell’età Flavia e mostra come il mito di Ercole sia stato rimodellato dall’autore con chiari riferimenti alla passione e alla resurrezione di Cristo. La madre è presente sul luogo della passione, il protagonista morente esclama «peractum est», «tutto è compiuto», Ercole prima di spirare invoca il padre, e la madre afferma la sua fede nel risorto.
Gli stoici romani del I secolo dopo Cristo, che subirono negli stessi anni dei cristiani le persecuzioni di Nerone e Domiziano, conobbero dunque e guardarono con simpatia i seguaci di Cristo. Questo spiega sia la simpatia che, a loro volta, scrittori cristiani del II secolo, come Giustino martire e Clemente di Alessandria, ebbero per questi stoici (penso soprattutto a Musonio Rufo, che Giustino chiama «martire inconsapevole di Cristo»), sia gli echi di cristianesimo che si ritrovano nelle loro opere. E spiega anche il concetto paolino di carne presente in Persio e certe espressioni rivelatrici usate da Seneca. 

sabato, settembre 24, 2016

An Incarnate Economy

We need to consume things in order to live. The reason why the act of consumption, even though necessary, gets a bad reputation is due to its being hitched onto the wagon of consumerist ideology. It is an ideology where consumption, rather than being a means to an end, becomes an end in itself.

But consume we must and discussions of a distributist economy—in the same way that it must not lose sight of the necessity of private property ownership, even as it is to be distributed widely—must not lose sight of the necessity of consumption, even as a means to an end. The question to be asked is, how might consumption might be corrected in a distributist economics, in the same way that Distributism corrects the capitalist tendency to concentrate private property into the hands of a few?

The suggestion here is that the corrective in distributist economics might be found in the resources of the Catholicism embraced by the early pillars of distributist economics, such as Chesterton and Hilaire Belloc. More specifically, it is suggested that Christian dogma of the Incarnation, far from being merely a “religious” doctrine, also has something to say about the realm of things. Even more specifically, the Incarnation is what anchors an affirmation of the realm of things, a healthy materialism that is in stark contrast to the pseudo-materialism of consumer capitalism.

First, it is necessary to explain the notion that consumer capitalism is only pseudo-materialistic. After all, we are so used to calling the culture we live in, which drips with the artifacts of consumer-capitalism, materialistic. Our malls and screens are flooded with sales pitches to acquire yet another mug, car, shirt or ticket that we do not need, calling our attention to the framed image put before us as the gateway to our happiness. It almost seems that we are being called to form attachments to the material thing being presented, making the prefix of “pseudo” somewhat curious.

This prefix, however, may not be so out of place when one understands everyday conceptions of materialism to mean an obsessive attachment to any particular thing, which is borne out of a desire for that particular thing. Thus, it becomes important to highlight materialism to be a matrix of desire, attachment and things. In his book Being Consumed, DePaul University’s William Cavanaugh argues that such an attachment cannot work when consumerism becomes an end in itself, since the acquisition of the thing would fulfill the desire for that thing, and thus ending the acquisitive desire. In consumer capitalism, profit maximisation only works if desire is kept alive, and not stopped short when that desire is completed. This can only work, Cavanaugh says, if desire is not a-ttached to things, but rather de-tached from them. In Cavanaugh’s words, consumer capitalism is one where “our relationship with products tend to be short-lived”.(35) Rather than a materialism where desires are satisfied by material goods, consumers under consumer capitalism are “characterised by a constant dissatisfaction with material goods” (35). Desire is thus not fulfilled but “temporarily halted” and there is generated a hope the next purchase will calm the storm of desire. Thus, “consumerism is not so much about having more as it is about having something else” (35). When consumerism becomes an end in itself, desire is moved from the desire of concrete things, and becomes abstracted to a desire for desire itself.

This abstraction of desire is not just in the realm of shopping, but also in the realm of finance, especially in investment flows which are the lifeblood of supply-side economic regimes. The use of the term “blood” to describe money is apt, for investment flows are pure liquidity that do not bind to any particular thing being invested in. The University of Nottingham’s Philip Goodchild, who wrote the highly compelling Theology of Money, suggests as much. “Money”, he says, “holds liquidity in virtue of its capacity to circulate through all markets”, connecting the “network of markets” and committing to none (154); moving only where profit may be abstracted from the assets investing in and siphoning out of local economies whatever surplus is generated, resulting in an overall drain on any local economy of material wealth or vitality. This effect is exacerbated further, Goodchild reminds us, as financial circuits get tighter and tighter with increasing concentrations of liquid wealth into fewer and fewer hands.

If consumerism is an end in itself and is oriented towards the detachment from things and the abstraction of value from things, the economy that is produced can be said to be Gnostic, insofar as Gnosticism treats the material as a shackle that one must be liberated from. It is also Gnostic insofar as it insists that it is only a select few that are worthy to benefit from this abstraction from the material, and it is Gnostic insofar as it is a repudiation of any goodness of the material realm in and of itself (for goodness can only be measured by the generation of surplus in an economy of consumption as an end).

By contrast, the Doctrine of the Incarnation stands as a bulwark against the vampiric effects of abstraction and, contra the Gnostics, it does so in its affirmation of particular things as good. However, the Incarnation goes further than just furnish a vague endorsement of the goodness of “stuff”. The Incarnation affirms that, in the particular of human matter, lies the universality of the divine. Every movement of that human body— every step, touch, gesture—expresses in full the movements of the life within the godhead. The reality the godhead expresses—and the salvation the godhead brings—is therefore not to be found by unplugging oneself from the world of things, but is precisely within the world of things. These visible signs of invisible realities are what Catholicism calls “sacraments”.

Where sacramentality might translate into the realm of the economic is in the treatment of commodities. The Gnostic economy enjoins an exploitative, non-committal relationship with things as disposable vehicles of an ephemeral thrill, for when what matters is the thrill, things are usually glossed over. By contrast, the Incarnate, sacramental economy, in affirming the ability of things to relay something truly eternal and even mysterious, should enjoin a commitment to the realm of things as they slowly unveil to us glimmers of the transcendent. This slow unveiling of mystery in the realm of things can challenge the throwaway culture upon which consumerism thrives. This commitment to the world of things should also lead to a change of the terms of our interaction with the things we consume. We may always need to consume in order to live, but an incarnate economics can potentially alter the way we think about what life is about. Rather than doing so to lead a life of thrill seeking, we can engage our commodities as gateways through which one can lead a life searching for a deeper, lasting joy.

Moreover, because it is the human body that communicates divine realities, an incarnate economics will implicate our relationship not only with the consumed, but also the body that does the consuming. Because we are not persons that happen to have bodies, but are persons because we have bodies, our solicitude should also extend to the welfare of the persons implicated in every pattern of consumption, which also means the persons implicated in the patterns of production. The doctrine of the Incarnation is not incidental to distributist economic practice, but is central to personalism around which patterns of economics, production, financing and consumption are grounded.



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venerdì, settembre 23, 2016

Così la Manif francese perde il suo ruolo

di Emiliano Fumaneri

Chiunque abbia a cuore la lotta contro i falsi miti del progresso farà bene a tenere sempre lo sguardo puntato in direzione della Francia, l’antica “figlia primogenita” della Chiesa. L’esperienza insegna: è nella «Grande Nazione», il paese più simile al nostro per storia, cultura e organizzazione statale, che spesso trovano anticipo tendenze e orientamenti destinati, presto o tardi, a riprodursi anche in Italia.
È dalla Francia infatti che si è originato nel 2013 un vasto moto di protesta contro la legge Taubira, la norma sul «mariage pour tous» che introduceva le nozze gay in Francia. Sono nate così forme di resistenza pacifica come i Veilleurs Debout (VD) e la Manif Pour Tous (MPT) che hanno portato in piazza milioni di francesi contro la rivoluzione arcobaleno imposta dal governo socialista di Hollande.
Sono i modelli a cui si sono ispirati, anche per l’Italia, le Sentinelle in Piedi, l’omonima Manif Pour Tous e, last but not least, i due grandi Family Day di Piazza San Giovanni e del Circo Massimo organizzati dal Comitato Difendiamo i nostri figli.
Non sarà inutile allora rifarsi ancora all’esempio francese e ripercorre le ultime tappe e gli sviluppi della Manif Pour Tous francese, trasformatasi in partito politico nell’aprile del 2015.


Anzitutto occorre aver presente il quadro politico. Il prossimo anno (23 aprile per il primo turno) in Francia sono previste le elezioni presidenziali. Per tentare di far rientrare i temi della famiglia, della vita e dell’educazione nel dibattito presidenziale, la Manif Pour Tous ha convocato un’altra grande manifestazione a Parigi. La data della mobilitazione è stata fissata al 16 ottobre, sei mesi prima delle elezioni per la presidenza della Repubblica.Lo scenario politico francese, naturalmente, è in forte subbuglio in vista di questo grande appuntamento: lo scialbo François Hollande sta cercando di ricompattare il campo della sinistra – condizione imprescindibile per poter sperare in una rielezione – dando nuovo impulso all’offensiva contro la famiglia. Sono riapparsi così i disegni di legge frenati dalla resistenza popolare del 2014: la legalizzazione della PMA «senza padre», l’adozione per le unioni civili (le coppie unite dal Pacs, col rischio di legittimare l’utero in affitto), la richiesta di statuto per i genitori acquisiti, la legge sulla famiglia del ministro Dominique Bertinotti (che prevedeva, tra le altre cose, di estendere il diritto alla procreazione assistita alle coppie di donne omosessuali).
La Manif non rimane a guardare e appare più che mai intenzionata a ritornare in piazza. Allo stesso tempo, per bocca della presidente Ludovine de La Rochère, MPT ha ribadito la sua vocazione originaria che rimane quella di un movimento di lobbying autonomo e indipendente da ogni partito politico, solo decisore della propria strategia e delle proprie azioni. Per questo la Manif rifiuta di entrare in campagna elettorale a sostegno di questo o quel candidato e continua a rivolgersi a tutti i candidati, quali che siano le loro etichette di partito. In compenso MPT indica nel dettaglio ai propri simpatizzanti le posizioni di ciascun candidato su matrimonio, filiazione, famiglia e educazione stabilite sulla base delle loro dichiarazioni pubbliche.

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giovedì, settembre 22, 2016

Cosa mi salvò quando morì mia figlia. E dopo

di Fiammetta Portinari  per La Croce quotidiano

Il fatto di cronaca recente riguardante l’eutanasia applicata ad un diciassettenne belga ha sollevato un ampio dibattito e questo è doveroso, perché il tema è scottante, critico, cruciale direi. C’è chi ha fatto discorsi generali sulla perdita di umanità di una società che preferisce suggerire la morte rapida ai suoi malati sofferenti piuttosto che occuparsi di curare e lenire il loro dolore. C’è chi ha esaltato la ricchezza che il malato costituisce per chi gli sta accanto, magari raccontando la propria toccante e tragica esperienza.
Dall’altra parte, il solito trito e ritrito argomento: ma chi sei tu per giudicare. Non si può giudicare il dolore di un malato, la sua disperazione o la sua determinazione ad andarsene. Non si può giudicare il dramma dei genitori di un minore terminale e il loro desiderio di porre fine alle sue sofferenze. Ciascuno ha il diritto di decidere per sé e arrangiarsi nella propria sofferenza come meglio crede. In questo dibattito tra sordi, mi inserisco io, con il racconto umile e scalcagnato della mia esperienza.
Io ho accompagnato una figlia al cimitero, dopo esserle stata accanto nel peregrinare ospedaliero, tra interventi, ricoveri e visite. Avevo a casa altre due creature, avevo un lavoro, avevo una vita perfetta prima che mi capitasse tra capo e collo questa disgrazia. Quello che non avevo era una fede decente a sostegno, quindi ero esattamente come la maggioranza delle persone: sola, dispersa e seccata.
La mia bambina aveva bisogno della mia presenza, delle mie cure, del mio amore. E a me costava tanto sacrificare tutto il mio tempo restando seduta su una sedia di fianco ad un letto in ospedale, parlando coi medici, assistendo alle cure inevitabilmente anche un po’ tortura. Non c’era nessuna poesia nel suo pianto flebile e nel mio cuore sfranto, non c’era nessuna aulica benedizione celeste in quella sofferenza innocente e nella mia stizzita impotenza, non c’era niente da imparare dall’incedere lento e inesorabile delle lancette tra un giro visita e l’altro. Io avrei mollato, se avessi potuto. Ma una via di fuga non c’era, semplicemente mettevo un piede davanti all’altro e da mattina si faceva sera, da sera si faceva mattina. Poi mia figlia peggiorò, il destino incedeva più svelto.
All’ultimo arrivo al pronto soccorso i medici mi dissero: «Signora, sua figlia è in pericolo di vita» e restarono allibiti dalla mia faccia impassibile. Ma quello era un lutto che io avevo già elaborato, loro che ne sapevano del futuro che non mi era stato concesso di immaginare? Che ne sapevano delle percentuali di sopravvivenza che ad ogni visita si assottigliavano? Che ne sapevano dei pianti stanchi sul tavolino dell’ospedale, davanti ad un piatto di patate lesse, mentre guardi la flebo scendere lentamente? Poi l’ultima notte in terapia intensiva, di fianco a quel corpicino sofferente che lottava, mentre io cadevo dal sonno, afflosciata sulla poltrona a lato del letto.
Mi ha svegliato di soprassalto il fischio del monitor: cuore fermo. Veloci medico e infermieri mi hanno invitato a uscire, mentre praticavano l’ultimo disperato e inutile tentativo di rianimazione. Venti minuti. Fuori. Vuota. Per la prima volta ho pregato, una preghiera assai poco nobile: Signore, falla morire, oppure fa morire me, che è lo stesso. E intanto guardavo a che piano eravamo, caso mai fosse servito fare un volo. Non servì, perché il medico uscì affranto per annunciarmi che era morta. Io allora piansi, perché non stava bene non piangere. Poi piansi perché mi sentii in colpa, come se l’avessi ammazzata io. Poi piansi perché mi sentivo inutile, perché non avevo più nessuno di cui prendermi cura con tanta assiduità. Poi piansi perché non riuscivo a dare un senso a tutta questa vicenda, un cumulo assurdo di dolore insensato, senza lieto fine. Piansi per giorni e giorni. Poi smisi di piangere e tentai il suicidio.
Per dire che il dolore più grosso mi cadde addosso dopo, quando in teoria tutto doveva lentamente e mestamente evaporare in una luccicante e commovente nuvola di ricordo. E invece no, il dolore era rovente per aver amato poco e male: pur non essendo un’aggravante in senso medico, era senz’altro per me concausa della morte di mia figlia, del suo arrendersi e cedere, alla fine, all’affanno di un cuore malato. In questa storia non avete notato che manca qualcosa? Manca il punto di vista del malato, manca lei, la mia piccolina occhi grandi. Lei che sentiva la mia voce dal corridoio ed esultava nella culla, lei che smetteva di piangere quando la prendevo in braccio, anche se l’ago continuava a perforarle il piede; lei che una volta rise, con un’espressione beata come io non ne avevo mai vista sul volto di nessuno, guardando dietro le mie spalle, guardando chissà chi che io non vedevo, e poi si addormentò come in paradiso. Lei non ci pensava proprio a morire, ma se io avessi pianto di continuo, se io fossi crollata sul pavimento tutti i giorni, certo avrebbe lottato di meno.
Tra un figlio malato e i suoi genitori esiste un legame che va al di là dell’affetto, è un debito di vita, un parassitismo esistenziale reciproco, una simbiosi. Il primo che cede, tira giù tutto, tira giù tutti. E non è un bel cadere. Nel dolore che a volte, maledetto e farabutto, attanaglia una famiglia colpendo il suo membro più piccolo e fragile, non c’è nessuna nobiltà e nemmeno nessuna colpa: capita e basta ed è uno schifo. Ma non ci sono scorciatoie, non ci sono vie facili per uscirne sani, ogni strada è una strettoia spinosa, ogni cura è un calvario, ogni scelta alternativa un grado di giudizio spietato, ogni esame un verdetto. Di queste storie dal finale già certo importa drammaticamente tratteggiare il “come” molto più che il “quando”, perché il figlio malato smetterà di patire ma i genitori no, essi resteranno a far da memoriale ad ogni lacrima versata e ripercorreranno ogni attimo in cerca del sollievo che solo una coscienza retta può dare.
Nella storia di mia figlia non trovo uno spazio per infilare l’eutanasia, è una possibilità che non mi è mancata. Ma se ci fosse stata e i medici mi avessero parlato di lenire sofferenze (le sue, per intendere poi le mie), forse l’avrei presa in considerazione, nel grigiore squallido dell’ospedale, nell’odore insistente di disinfettante, nella stanchezza di una situazione poco sostenibile. Però sinceramente avrei gradito di più un letto accanto alla culla di mia figlia, invece che una poltrona, e magari un pasto decente al posto di riso e patate lesse tutti i giorni. Anche uno psicologo che ti dice “ce la puoi fare” invece di uno che ti prospetta quanto sarebbe bello se tua figlia morisse subito, avrebbe sortito qualche effetto positivo. Per dire che non è vero un fico secco che ciascuno è libero di scegliere: in quei momenti non sei libero, sei distrutto, fragile, bisognoso di tutto, sopra ogni cosa affamato di umanità e conforto. 
Agli avvoltoi sciacalli travestiti da angeli della morte che si fanno vicino con espressione accorata per dirti che, se vuoi, può finire tutto con un’iniezione, bisognerebbe far provare la disperazione cieca e incolmabile che divora il cuore di un genitore placcato da un senso di colpa irrazionale e immotivato, figuriamoci poi se ha firmato il modulo che decreta la morte del figlio! E in ultimo, io sono ancora viva solo grazie a Dio, che si è fatto straordinariamente vicino e si è portato via tutto il mio dolore. Non il tempo, non l’auto convincimento che va bene così. Dio. E per un genitore senza Dio che ammazza il figlio sofferente è garantito l’inferno in terra. Di là, non so.

mercoledì, settembre 21, 2016


«Le scuole e i saggi più ermetici non hanno mai avuto la gravità che alberga negli occhi di un neonato di tre mesi. La sua è la gravità dello stupore di fronte all’universo, e questo stupore non è misticismo, bensì buonsenso trascendente. Il fascino dei bambini sta nel fatto che con ognuno di loro tutte le cose vengono rifatte, e l’universo rimesso alla prova. Quando camminiamo per strada e sotto di noi vediamo le deliziose teste bulbose di questi funghi umani, il triplo delle dimensioni che dovrebbero avere in proporzione al loro corpo, dovremmo sempre ricordarci innanzitutto che ognuna di quelle sfere contiene un universo nuovo fiammante, nuovo quanto era nuovo il mondo il settimo giorno della creazione. In ognuna c’è un nuovo sistema di stelle, nuova erba, nuove città, un nuovo mare»
(G.K. Chesterton, L’imputato).

domenica, settembre 18, 2016

I libri da consigliare a Di Maio e Di Battista

Pinochet: chi era costui? Un dittatore. E dove esercitava il suo onesto mestiere? In Cile. Ma Di Maio lo piazza in Venezuela. Con uno svarione memorabile, come neanche i nostri compagni di scuola hanno saputo regalarci ai tempi belli.
C’è poco da scherzare: se studi da premier, conviene che ti fai una cultura. Magari insieme all’altro aspirante del Movimento Cinquestelle, Di Battista, che ti ha già preceduto da lunga pezza sulla strada delle gaffe. E dei congiuntivi sbagliati.
Si potrebbe cominciare dal giardinaggio, occuparsi della chimica per passare poi all’archeologia. Forse non è il percorso più lineare, ma è quello che seguono quei brav’uomini di Bouvard e Pécuchet, gli eroi involontari dell’ultimo, incompiuto romanzo di Flaubert. Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista potrebbero seguirne le orme: magari senza ritirarsi in campagna come loro, perché la carriera politica dei due leader ne risentirebbe, ma con la stessa voracità enciclopedica. Le cose da sapere, infatti, sono tante. Nel frattempo, potrebbe venire loro incontro il dizionario dei luoghi comuni che sempre Flaubert sognava di completare: molto utile per far conversazione in società, tenendosi appunto a quel sano buon senso che insegna le cose che bisogna dire per ben figurare. Come per esempio che il machiavellismo è da esecrare, che Darwin era quello che diceva che gli uomini discendono dalle scimmie e che il filosofo Diderot va citato sempre in coppia con D’Alembert. Cose così, magari appena più aggiornate: coi nomi propri al posto giusto ma sempre nei pressi della familiare banalità quotidiana.
Continua qui.

giovedì, settembre 15, 2016

La ciencia «moderna» nació... en la Edad Media católica, dijo el físico Pierre Duhem: y lo pagó caro



Este miércoles se cumplió el centenario de la muerte de Pierre Duhem (1861-1916), célebre físico francés de arraigada fe católica y por eso marginado en la Francia de la laicista Tercera República. Es autor de La teoría física, una obra capital en la filosofía de la ciencia.

More here.

mercoledì, settembre 07, 2016

Artist Turns Pokémon Into Humans (15+ pics)

Artist Turns Pokémon Into Humans (15+ pics):

Tangela



Tangela


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Muk



Muk


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Goldeen



Goldeen


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Tentacruel



Tentacruel


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Charizard



Charizard


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Meowth



Meowth


source

Rapidash



Rapidash


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Omanyte



Omanyte


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Parasect



Parasect


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Arbok



Arbok


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Onix



Onix


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Vulpix



Vulpix


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Ponyta



Ponyta


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Weedle



Weedle


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Eevee



Eevee


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Oddish



Oddish


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Golbat



Golbat


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Beedrill



Beedrill


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Blastoise



Blastoise


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Snorlax



Snorlax


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Ninetales



Ninetales


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Cubone



Cubone


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Mew



Mew


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Venomoth



Venomoth


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Wigglytuff



Wigglytuff


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sabato, settembre 03, 2016

God and reason

a review of  Meister Eckhart: Philosopher of Christianity, by Kurt Flasch, Yale University Press, 344 pp, £25, ISBN: 978-0300204865

In traditional accounts of the history of philosophy, Meister Eckhart has usually been presented as a mystic. In opposition to more intellectual schools of the Middle Ages, he was often portrayed as the promoter of an anti-scholastic approach privileging religious experience or as the defender of negative theology, according to which the only meaningful discourse about God is about what He is not.
In this work, Kurt Flasch aims at rebutting what he believes to be misleading interpretations of Eckhart: “There is nothing authentic about the label ‘mystic’ in Eckhart’s case.” Flasch proposes instead to consider him a “philosopher of Christianity”, that is someone who explains Christian beliefs through pure reason.
Flasch devotes an entire chapter of his book to the explanation of what he claims to be a forgotten concept that has been abandoned by theologians and philosophers. A philosophy of Christianity is “an attempt to prove Christian ideas rationally in such a way that believers and unbelievers alike would come to recognize them as true, and not merely as culturally contingent constructs of Christian communities of faith”. He admits that our understanding of reason has not been the same everywhere. Purely rational proofs have changed through time and this approach has been rejected both by those who are Christian, because it would reduce faith to a series of philosophical tenets, and by those who aim to use a completely rational method, because this method would disprove Christian beliefs as illogical or untenable. Flasch instead suggests that this is precisely what Eckhart attempted to do with his works and, even without agreeing with the results, he presents a detailed account of his “philosophy of Christianity”. Before considering what Christianity is, the author discusses what philosophy should be: “the habit to justify one’s statements, to argue most precisely according to a set of common rules”.
The book is an invitation to read Meister Eckhart in his historical context. Eckhart thought of himself as a philosopher but perception of him changed throughout the centuries. He had immediate influence on some of his contemporaries, such as Henry Suso and Johannes Tuler. Nicholas of Cusa studied Eckhart when young but with time, due to the condemnation of the Church, his works became less available and only a distorted version of his thought survived. Nevertheless, he had a strong impact not only on philosophers such as Hegel, Martin Buber or Martin Heidegger but also on writers like Robert Musil and Paul Celan.
There are gaps in his chronology and therefore in our knowledge of him but recent discoveries and studies allow Flasch to present a convincing portrait. The name Meister indicates that he was a magister, a master at Paris in 1302, the highest rank attainable for any academic at the time. Like Albertus Magnus, whom he probably knew personally, and Thomas Aquinas, the most important philosopher of the Middle Ages, he was a member of the Dominican order. In 1303 he was elected provincial of Saxony and then vicar general of Thuringia and Bohemia.
Eckhart lived in turbulent times, both for the church and for the civil power. In his Divine Comedy Dante famously placed all the popes who had reigned in his lifetime in hell. Celestine V had abdicated, Boniface VIII was corrupt, John XII was in exile in Avignon and involved in endless controversies with the antipopes. Interestingly, Eckhart ignored the pope in his works, as both spiritual and political leader. Not only was the church divided; in the final decades of Eckhart’s life two German emperors were simultaneously elected. This was also a period of new intellectual developments. Aristotle’s influence in particular was growing among philosophers and theologians since the discovery and the translation into Latin of his texts, preserved by the Islamic civilisation. Meister Eckhart absorbed and reinterpreted the neo-Aristotelianism he had learned in Paris.

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