lunedì, ottobre 14, 2019

Amici e nemici di Newman, il santo che divenne cattolico suo malgrado

John Henry Newman

In quale misura il cardinale John Henry Newman, oggi santo, è un pensatore europeo? Non c’è dubbio che egli sia profondamente britannico, per formazione ma specialmente per gli interlocutori con i quali ha dialogato e polemizzato. Formatosi ad Oxford, il cuore culturale dell’anglicanesimo, per metà della sua vita Newman fu coinvolto in dibattiti teologici ed ecclesiologici tipicamenti anglicani. I suoi riferimenti sono i classici greci e latini, i Padri della Chiesa, e i grandi teologi anglicani, particolarmente Joseph Butler.
Il movimento di Oxford, o dei trattariani, nasce precisamente come una riscoperta delle fonti dell’anglicanesimo. Newman, insieme ad altri compagni, si ritrova cattolico in qualche modo suo malgrado, possiamo affermare. Diventa cattolico per onestà intellettuale nei confronti della propria coscienza, non certo per influenza di specifici teologi cattolici inglesi, praticamente inesistenti, o continentali.
Giustamente ricordiamo la tradizione empirista dalla quale il cardinale Newman proviene e che in una certa misura rigetta. I suoi avversari ideologici, particolarmente quando interviene in dibattiti pubblici, sono John Locke, David Hume, Edward Gibbon, gli utilitaristi, Jeremy Bentham, John Stuart Mill. Si veda, ad esempio, la serie di articoli raccolti con il titolo The Tamworth Reading Room nei quali contesta il tentativo di elevare il tono morale della società attraverso l’istruzione e la promozione del sapere. Quel che intendo però sottolineare è che né prima, né dopo la conversione Newman entra in polemica o in dialogo con autori stranieri. Il suo orizzonte è principalmente britannico.
Egli aveva, ovviamente, conoscenza di autori stranieri, principalmente francesi: Pascal, Bossuet, che cita più volte, Fenelon e Lamennais a cui dedicò un articolo nel 1837. Per quanto riguarda la cultura tedesca, conosceva la Simbolica del Möhler, qualcosa di Friedrich Schleiermacher e Friedrich Schlegel, che veniva utilizzato come testo di filosofia della storia presso l’Università Cattolica d’Irlanda, fondata da Newman a Dublino.
Aveva letto pochissimo della produzione di Kant, senza apprezzarlo, niente di Hegel o degli idealisti tedeschi. Il giovane Franz Brentano, ancora prete, si recò da lui per consigli ma non risulta che Newman abbia familiarizzato con le sue opere. L’unico teologo tedesco con cui ebbe contatti fu Ignaz von Doellinger. Newman gli fece visita nel 1847 e lo invitò ad insegnare a Dublino presso l’Università cattolica d’Irlanda, agli inizi degli anni Cinquanta dell’Ottocento, e quindi prima della polemica sul Concilio Vaticano I ed il dogma dell’infallibità che spinse Doellinger ad abbandonare la Chiesa cattolica.
Per quanto riguarda l’Italia, Newman vi trascorse diverse settimane nel 1834, durante il suo tour del Mediterraneo e in Sicilia si ammalò di tifo. Questo è un episodio significativo nella vita di Newman che considerò l’essere sopravvissuto alla malattia come un segno di un destino più grande che l’attendeva in patria. In Italia tornò dopo la conversione, per studiare presso il Collegio di Propaganda Fide a Roma. Il collegio ospitava studenti di oltre 150 nazioni, provenienti però non dai Paesi cattolici europei ma dalle terre di missione.
A Roma Newman conobbe Giovanni Perrone, il più inflente teologo del tempo e con lui discusse di sviluppo del dogma. Perrone non è l’unico italiano moderno che ha lasciato un qualche segno nella teologia del porporato inglese. Newman aveva letto le Massime di Perfezione di Antonio Rosmini già da anglicano. Il Manuale dell’Esercitatore di Rosmini veniva usato per i ritiri spirituali a Littlemore, dove Newman era andato a vivere prima della conversione, e uno dei suoi discepoli più stretti, William Lockhart, diverrà uno dei protagonisti del rosminianesimo inglese. Più tardi lesse Le cinque piaghe della Chiesa.
Durante un suo soggiorno a Milano, nel 1846, Newman espresse desiderio di incontrare Manzoni e Rosmini ma la cosa non andò in porto. Si pensa che Rosmini stesso, già coinvolto in controversie teologiche, abbia per prudenza preferito evitare l’incontro.
L’altro italiano, premoderno, che ha influenzato Newman è ovviamente san Filippo Neri. Dopo un periodo di discernimento, avendo considerato i diversi grandi ordini religiosi, il novello prete inglese scelse di entrare nella Congregazione dell’Oratorio di san Filippo Neri perché in qualche modo più consona alla sua personalità e allo stile pastorale.
Comunque, al di là dell’influenza di qualche autore europeo, quel che manca in Newman è il coinvolgimento diretto nei dibattiti teologici o filosofici che animavano la cultura continentale del tempo, con una eccezione per quanto riguarda i suoi scritti sull’università. I suoi interlocutori, insomma, sono sempre britannici.
Le sue opere, a parte la Grammatica dell’Assenso che è stata partorita dopo un lunghissimo travaglio, nascono solitamente in risposta a un episodio, una polemica, una controversia. Si veda ad esempio la sua autobiografia, scritta in risposta a Charles Kingsley che accusava i preti cattolici di doppiezza, o la Lettera al Duca di Norfolk, che è una replica alle accuse di servire due sovrani, il Papa e la Regina, da parte Gladstone nei confronti dei cattolici inglesi. Ciò non toglie che i suoi contributi travalichino l’occasione e, persino il contesto nel quale furono prodotti. Per questo li rileggiamo ancora oggi.
Il concilio Vaticano I, in questo senso, rappresenta un’occasione persa. Newman fu invitato come perito, sia da papa Pio IX che dal vescovo di Orleans, ma rifiutò, sia per ragioni di età che perchè più interessato a concludere la Grammatica dell’Assenso. Nel periodo precedente il Concilio e poi in quello successivo, discusse pubblicamente la definizione di infallibilità papale e ne difese la versione approvata dal Vaticano I. L’esperienza diretta del Concilio, però, l’avrebbe portato ancora di più al centro del dibattito teologico, e non solo europeo, che animava la Chiesa Cattolica di fine Ottocento.
Ovviamente, l’influsso successivo sulla cultura religiosa europea è innegabile. Traduzioni di sue opere apparvero già a partire dagli anni Quaranta, prima della conversione. Ad esempio, il Saggio sullo Sviluppo della Dottrina Cristiana, del 1845, fu tradotto in tedesco l’anno successivo.
Ora, senza voler presentare una storia critica della ricezione del pensiero di Newman, non è difficile citare grandi personalità che lo hanno apprezzato o che si sono inspirate a lui. Teologi e filosofi di lingua inglese (Bernard Lonergan, Alisdair MacIntyre), francese (Maurice Blondel, Henri Bergson, Jean Guitton), tedesca (Max Scheler, Edith Stein, Dietrich von Hildebrand, Josef Ratzinger). E non solo cattolici, basti pensare al debito nei confronti di Newman da parte di James Joyce, ma anche di Ludwig Wittgenstein.
Insomma, Newman è sì una figura europea ma non tanto per formazione o per coinvolgimento diretto, quanto per l’influenza esercitata sulla cultura del nostro continente, a partire già da quando era in vita.
Angelo Bottone, autore di questo articolo, è docente di Filosofia presso lo University College Dublin e la Dublin Business School

domenica, ottobre 13, 2019

Il «punto scottante» della coscienza di san Newman spiegato da Ratzinger

Benedetto XVI alla Messa per la beatificazione del cardinale John Hnery Newman nel 2010

Oggi, domenica 13 ottobre, papa Francesco celebrerà in piazza San Pietro la canonizzazione del cardinale John Henry Newman, un santo molto caro a Tempi, grande difensore della coscienza nel suo senso più pieno. Nei mesi scorsi ne abbiamo seguito le tappe di avvicinamento agli onori degli altari, un processo che ha avuto una svolta decisiva nel 2010, con la beatificazione proclamata da Benedetto XVI durante la sua visita nel Regno Unito.
Proprio del futuro Papa tedesco è il brano che segue, tratto dal celebre “Elogio della coscienza” scritto per il settimanale Il Sabato nel 1991. Il testo, facilmente reperibile online, merita senza dubbio la lettura integrale. Proponiamo questo stralcio perché l’allora cardinale Joseph Ratzinger vi coglie con le consuete lucidità e chiarezza «il punto veramente scottante» che rende la canonizzazione di Newman un fatto da meditare per tutti noi cattolici (e non cattolici) immersi nella modernità.
***
[…] A questo punto vorrei fare una breve digressione. Prima di tentare di formulare risposte coerenti alle questioni sulla natura della coscienza, occorre che allarghiamo un po’ le basi della riflessione, al di là della dimensione personale da cui abbiamo preso l’avvio. Per la verità non ho l’intenzione di sviluppare qui una dotta trattazione sulla storia delle teorie della coscienza, argomento sul quale proprio di recente sono stati pubblicati diversi contributi. Preferirei invece mantenermi anche qui ad un approccio di tipo esemplaristico e, per così dire, narrativo.
Un primo sguardo deve rivolgersi al cardinale Newman, la cui vita ed opera potrebbero ben essere designati come un unico grande commento al problema della coscienza. Ma neppure Newman potrà essere qui indagato in modo specialistico. In questa cornice non ci è permesso di soffermarci sulle particolarità del concetto newmaniano di coscienza. Vorrei solo cercare di indicare il posto dell’idea di coscienza nell’insieme della vita e del pensiero di Newman.
Le prospettive così guadagnate approfondiranno lo sguardo sui problemi attuali e apriranno collegamenti con la storia, cioè condurranno ai grandi testimoni della coscienza e alle origini della dottrina cristiana sulla vita secondo la coscienza.
A chi non viene in mente, a proposito del tema “Newman e la coscienza”, la famosa frase della Lettera al Duca di Norfolk: «Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo – cosa che non è molto indicato fare – allora io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza e poi per il Papa»?
Secondo l’intenzione di Newman questo doveva essere – in contrasto con le affermazioni di Gladstone – una chiara confessione del papato, ma anche – contro le deformazioni “ultramontanistiche” – un’interpretazione del papato, il quale è rettamente inteso solo quando è visto insieme col primato della coscienza – dunque non ad essa contrapposto, ma piuttosto su di essa fondato e garantito.
Comprendere ciò è difficile per l’uomo moderno, che pensa a partire dalla contrapposizione di autorità e soggettività. Per lui la coscienza sta dalla parte della soggettività ed è espressione della libertà del soggetto, mentre l’autorità sembra restringere, minacciare o addirittura negare tale libertà. Dobbiamo quindi andare un po’ più in profondità, per imparare a comprendere di nuovo una concezione, in cui questo tipo di contrapposizione non vale più.
Per Newman il termine medio che assicura la connessione tra i due elementi della coscienza e dell’autorità è la verità. Non esito ad affermare che quella di verità è l’idea centrale della concezione intellettuale di Newman; la coscienza occupa un posto centrale nel suo pensiero proprio perché al centro c’è la verità. In altre parole: la centralità del concetto di coscienza è in Newman legata alla precedente centralità del concetto di verità e può essere compresa solo a partire da questa.
La presenza preponderante dell’idea di coscienza in Newman non significa che egli, nel XIX secolo e in contrasto con l’oggettivismo della neoscolastica abbia sostenuto per così dire una filosofia o teologia della soggettività. Certamente è vero che in Newman il soggetto trova un’attenzione che non aveva più ricevuto, nell’ambito della teologia cattolica, forse dal tempo di sant’Agostino. Ma si tratta di un’attenzione nella linea di Agostino e non in quella della filosofia soggettivistica della modernità.
In occasione della sua elevazione al cardinalato, Newman confessò che tutta la sua vita era stata una battaglia contro il liberalismo. Potremmo aggiungere: anche contro il soggettivismo nel cristianesimo, quale egli lo incontrò nel movimento evangelico del suo tempo e che, per la verità, costituì per lui la prima tappa di quel cammino di conversione che durò tutta la sua vita.
La coscienza non significa per Newman che il soggetto è il criterio decisivo di fronte alle pretese dell’autorità, in un mondo in cui la verità è assente e che si sostiene mediante il compromesso tra esigenze del soggetto ed esigenze dell’ordine sociale. Essa significa piuttosto la presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all’interno del soggetto stesso; la coscienza è il superamento della mera soggettività nell’incontro tra l’interiorità dell’uomo e la verità che proviene da Dio.
È significativo il verso, che Newman compose in Sicilia nel 1833:
«Amavo scegliere e capire la mia strada. Ora invece prego: Signore, guidami tu!».
La conversione al cattolicesimo non fu per Newman una scelta determinata da gusto personale, da bisogni spirituali soggettivi. Così egli si espresse nel 1844, quando era ancora, per così dire, sulla soglia della conversione:
«Nessuno può avere un’opinione più sfavorevole della mia sul presente stato dei romano-cattolici».
Ciò che per Newman era invece importante era il dovere di obbedire più alla verità riconosciuta che al proprio gusto, addirittura anche in contrasto con i propri sentimenti e con i legami dell’amicizia e di una comune formazione. Mi sembra significativo che Newman, nella gerarchia delle virtù sottolinei il primato della verità sulla bontà o, per esprimerci più chiaramente: egli mette in risalto il primato della verità sul consenso, sulla capacità di accomodazione di gruppo.
Direi quindi: quando parliamo di un uomo di coscienza, intendiamo qualcuno dotato di tali disposizioni interiori. Un uomo di coscienza è uno che non compra mai, a prezzo della rinuncia alla verità, l’andar d’accordo, il benessere, il successo, la considerazione sociale e l’approvazione da parte dell’opinione dominante.
In questo Newman si ricollega all’altro grande testimone britannico della coscienza: Tommaso Moro, per il quale la coscienza non fu in alcun modo espressione di una sua testardaggine soggettiva o di eroismo caparbio. Egli stesso si pose nel numero di quei martiri angosciati, che solo dopo esitazioni e molte domande hanno costretto se stessi ad obbedire alla coscienza: ad obbedire a quella verità, che deve stare più in alto di qualsiasi istanza sociale e di qualsiasi forma di gusto personale.
Si evidenziano così due criteri per discernere la presenza di un’autentica voce della coscienza: essa non coincide con i propri desideri e coi propri gusti; essa non si identifica con ciò che è socialmente più vantaggioso, col consenso di gruppo o con le esigenze del potere politico o sociale.
È utile, a questo punto, gettare uno sguardo alla problematica attuale. L’individuo non può pagare il suo avanzamento, il suo benessere, a prezzo di un tradimento della verità riconosciuta. Neppure l’umanità intera può farlo. Tocchiamo qui il punto veramente critico della modernità: l’idea di verità è stata nella pratica eliminata e sostituita con quella di progresso.
Il progresso stesso “è” la verità. Tuttavia in quest’apparente esaltazione esso diventa privo di direzione e si vanifica da solo. Infatti, se non c’è nessuna direzione, tutto quanto può essere altrettanto bene progresso quanto regresso.
La teoria della relatività formulata da Einstein concerne, come tale, il mondo fisico. A me sembra però che possa descrivere adeguatamente anche la situazione del mondo spirituale del nostro tempo. La teoria della relatività afferma che all’interno dell’universo non si dà nessun sistema fisso di riferimento. Quando poniamo un sistema come punto di riferimento, a partire dal quale cerchiamo di misurare il tutto, in realtà si tratta di una nostra decisione, motivata dal fatto che di fatto solo così noi possiamo giungere ad un qualche risultato. Tuttavia la decisione sarebbe potuta essere sempre anche diversa da quella che è stata.
Quanto è stato detto a proposito del mondo fisico, riflette anche la seconda svolta “copernicana” verificatasi nel nostro atteggiamento fondamentale verso la realtà: la verità come tale, l’assoluto, il vero punto di riferimento del pensiero non è più visibile. Perciò, proprio anche dal punto di vista spirituale, non c’è più un sopra e un sotto. In un mondo senza punti fissi di riferimento non ci sono più direzioni. Ciò cui guardiamo come ad orientamento, non si basa su un criterio vero in se stesso, ma su una nostra decisione, ultimamente su considerazioni di utilità.
In un simile contesto “relativistico” un’etica teleologica o consequenzialistica diventa ultimamente nichilistica, anche se essa non ne ha la percezione. E quanto in questa concezione della realtà viene chiamato “coscienza”, ad una più profonda riflessione, si mostra essere un modo eufemistico per dire che non c’è nessuna coscienza in senso proprio, cioè nessun “con-sapere” con la verità. Ognuno determina da solo i propri criteri e, nell’universale relatività, nessuno può neppure essere d’aiuto ad un altro in questo campo, e meno ancora prescrivergli qualche cosa.
A questo punto diventa chiara l’estrema radicalità dell’odierna disputa sull’etica e sul suo centro, la coscienza. Mi sembra che un parallelo adeguato nella storia del pensiero lo si possa trovare nella disputa tra Socrate-Platone e i Sofisti. In essa viene messa alla prova la decisione cruciale tra due atteggiamenti fondamentali: la fiducia nella possibilità per l’uomo di conoscere la verità, da una parte, e d’altra parte una visione del mondo in cui l’uomo da se stesso crea i criteri per la sua vita.
Il fatto che Socrate, un pagano, sia potuto diventare in un certo senso il profeta di Gesù Cristo ha, secondo me, la sua giustificazione proprio in tale questione fondamentale. Ciò suppone che alla maniera di filosofare da lui ispirata sia stato concesso per così dire un privilegio storico salvifico e che essa sia stata resa forma adeguata per il Logos cristiano, in quanto si tratta di una liberazione mediante la verità e per la verità.
Se si prescinde dalle contingenze storiche, in cui la controversia di Socrate si svolse, si riconosce subito quanto essa – pur con argomenti diversi e altra terminologia – riguardi in fondo la medesima questione di fronte a cui ci troviamo noi oggi. La rinuncia ad ammettere la possibilità per l’uomo di conoscere la verità conduce dapprima ad un uso puramente formalistico delle parole e dei concetti. A sua volta la perdita dei contenuti porta ad un mero formalismo dei giudizi, ieri come oggi.
In molti ambienti oggi non ci si chiede più che cosa un uomo pensi. Si ha già pronto un giudizio sul suo pensiero, nella misura in cui lo si può catalogare con una delle corrispondenti etichette formali: conservatore, reazionario, fondamentalista, progressista, rivoluzionario. La catalogazione in uno schema formale basta a rendere superfluo il confronto con i contenuti. La stessa cosa si può vedere, in modo ancor più netto, nell’arte: ciò che un’opera d’arte esprime è del tutto indifferente; essa può esaltare Dio o il diavolo – l’unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale.
Abbiamo così raggiunto il punto veramente scottante della questione: quando i contenuti non contano più, quando ha il predominio una mera prassologia, la tecnica diventa il criterio supremo. Ma ciò significa: il potere diventa la categoria che domina ogni cosa – sia esso rivoluzionario o reazionario.
Questa è precisamente la forma perversa della somiglianza con Dio, di cui parla il racconto del peccato originale: la strada di una mera capacità tecnica, la strada del puro potere è contraffazione di un idolo e non realizzazione della somiglianza con Dio. Lo specifico dell’uomo in quanto uomo consiste nel suo interrogarsi non sul “potere”, ma sul “dovere”, nel suo aprirsi alla voce della verità e delle sue esigenze.

Questo fu, a mio parere, il contenuto ultimo della ricerca socratica e questo è anche il senso più profondo della testimonianza di tutti i martiri: essi attestano la capacità di verità dell’uomo quale limite di ogni potere e garanzia della sua somiglianza divina. È proprio in questo senso che i martiri sono i grandi testimoni della coscienza, della capacità concessa all’uomo di percepire, oltre al potere, anche il dovere e quindi di aprire la via al vero progresso, alla vera ascesa. […]

sabato, ottobre 12, 2019

Chi era il cardinale Newman, il santo della coscienza

di Egisto Mercati




Domenica 13 ottobre a Roma in piazza san Pietro papa Francesco innalzerà agli onori degli altari John Henry Newman, già fatto beato nel 2010 da papa Benedetto. È stato un testimone grandioso della fede cattolica a partire dalla quale ha speso la sua vita difendendo non solo la verità e la Chiesa, ma la ragione stessa dalle riduzioni positivistiche ed empiriste.

La sua vita, nasce nel 1801, è disseminata da momenti “critici” che lo costringono ad andare a fondo alla tradizione consegnatagli dalla famiglia, dal contesto sociale, dalla Chiesa anglicana del suo tempo. Educato, come gli altri suoi cinque fratelli, dai genitori ad una religiosità devozionale e sentimentale, sente urgere dalla sua intelligenza davvero precoce esigenze che non possono essere soddisfatte nell’ambito della sola sfera emotiva e per questo a dodici anni prova incredulità e indifferenza per la religione trasmessa dalla famiglia. Come poi dirà nell’Apologia pro vita sua, scoprirà a sedici, diciassette anni l’evidenza della esistenza di Dio e, da pastore anglicano, inizia la sua predicazione attivando temi e modalità comunicative di cui i Sermoni anglicani sono un esempio suggestivo del suo carattere appassionato e convincente. La chiesa anglicana subisce tuttavia una forte ingerenza da parte dello Stato liberal laicista che provoca una forte insofferenza negli spiriti più religiosamente attenti e desiderosi di una reale libertà religiosa.


Lentamente, a partire dai primi anni Quaranta, si fa strada in Newman l’idea di un avvicinamento alla Chiesa cattolica, avvertita come un compimento dogmatico, morale e sociale di un cammino mai interrotto di ricerca della verità. Il frutto di questa appassionata investigazione è costituito dallo Sviluppo della dottrina cristiana. Nel 1845 divenne ufficiale la conversione cattolica di Newman e dopo due anni fu fatto sacerdote.

L’uomo più pericoloso d’Inghilterra

Dal momento della sua conversione la sua vita fu disseminata di sofferenza, di attacchi violenti da parte degli anglicani e quindi della stampa, da parte degli old catholics che come furie si scagliarono contro di lui perché attraverso l’esperienza dell’Oratorio, titolato a san Filippo Neri, suscitò lo spirito evangelizzatore nei laici. Questa apertura di Newman ai laici nella Chiesa provocò un’alzata di scudi da parte del clero che vedeva insidiata la propria esclusiva competenza clericale. Si pensi che monsignor Talbot, Cameriere pontificio di Pio IX, dichiarò pubblicamente che il Dr. Newman era l’uomo più pericoloso d’Inghilterra!
Non mancò l’ostilita dei cardinali inglesi forse (?) gelosi dei tanti che si convertirono al cattolicesimo e dettero pubblicamente testimonianza della propria fede in un contesto in cui i convincimenti personali dovevano rimanere custoditi privatamente. Le circostanze obbligarono Newman, personalità riservata, schiva, umile, a polemizzare con tutti coloro che attaccavano la verità e la Chiesa cattolica. Non fu mai il suo un atteggiamento “polemico“ e animato da risentimento, ma garbato e nel contempo inflessibilmente razionale tanto che ciò irritò ancor più i suoi avversari.

La fede è un fidarsi

Nella temperie culturale scettica e dubitosa del XIX secolo, sopratutto all’interno del “liberalismo religioso” contro cui Newman ha speso le sue forze intellettuali e pastorali, esce un suo saggio rigoroso e decisivo a sostegno della fede in quanto tale, La Grammatica dell’assenso. Sarebbe lungo, e forse inutile, disquisire sul carattere filosofico o teologico di questa opera che comunque è sia l’una che l’altra. La lettura della Grammatica è certamente impegnativa, ma entusiasmante e vale la pena il tentativo di raccontarla. Fin dall’inizio ci incontriamo con un paradosso: può un uomo semplice, un credente non specializzato in teologia né in altre discipline complesse avere una fede razionalmente robusta? Tutta l’opera ha un carattere apologetico e dimostrativo di questa possibilità. Potremmo tradurre il titolo con un’espressione teologica: la struttura dell’atto di fede. La fede, osserva Newman, non è una cosa strana che riguarda persone bizzarre, poco razionali, ma investe tutta la Vita pratica nel quotidiano “fidarsi” della propria memoria, di ciò che vediamo e tocchiamo.

La coscienza è un testimone

Naturalmente, più cresce la complessità delle cose da credere, più motivato deve essere l’atto di assenso a ciò che crediamo. Osserva Newman che «la coscienza che abbiamo di noi stessi precede ogni questione di fiducia o di assenso». La coscienza, altresì, non produce la verità, ma ne è testimone. La fede non è cosa per creduloni, ma implica sempre una apprensione di ciò che intendiamo credere. Vi sono due tipi di apprensione: apprensione nozionale e apprensione reale. Quella nozionale può essere una apprensione di un proposizione logica formulata da un sillogismo o anche l’apprensione teologica di un dogma. L’apprensione reale si rivolge ad una esperienza, ad una cosa reale. Quanto è più reale la cosa appresa, tanto più provoca in noi un assenso incondizionato. Così opera la mente ai cui processi Newman dedica analisi suggestive nell’intento di normare e supportare razionalmente la umana predisposizione.
«Quando sia realmente appresa, la proposizione “V’è un Dio” riceve un’adesione energica che opera una vera rivoluzione nella mente, mentre accolta appena come nozione essa non richiede che un consenso freddo, inoperante. Tale è il tipo di assenso di migliaia di persone la cui immaginazione non è accesa, i cui cuori non sono infiammati e le cui azioni non sono modificate dalla verità».
Da qui può insinuarsi nella mente il tarlo del dubbio, che è sempre sospensione del giudizio, patologia ricorrente nell’uso della ragione. L’adesione alla certezza, con tutto l’essere ne indica invece il fisiologico equilibrio. La razionalità implicata nell’atto di fede e la razionalità in quanto tale che sta a fondamento della stessa razionalità della scienza e non viceversa. Newman non prende le mosse da una logica astratta (un buon sillogismo non ha mai cambiato nessuno), ma dall’esperienza: quella del credente, dello scienziato, dell’uomo qualunque che in fondo al cuore sente il bisogno di accostarsi e scoprire il Vero perché intuisce che li c’è la sua salvezza.

Quando fu fatto cardinale

Nel 1879 John Henry Newman fu fatto cardinale da papà Leone XIII. Il 12 maggio di quell’anno il Papa lo accoglie con grande affetto e gratitudine per la sua vita spesa per la verità e per la Chiesa cattolica. La cerimonia è carica di commozione e l’anziano sacerdote inglese, malato e smagrito, con i suoi capelli argentei e il nobile profilo del suo volto, pronunzia la sua prolusione di fronte a tutti. Vale la pena riportarne un parte per quanto essa contiene. Dopo aver confidato che nella sua vita ha fatto molti sbagli, aggiunge che non ha mai avuto interessi personali in ciò che ha fatto, ha sempre manifestato ferma obbedienza e mostrato disponibilità ad essere corretto. E continua dicendo
«Godo nel dire che a un gran male mi sono opposto fin dal principio. Per trenta, quaranta, cinquant’anni anni ho resistito, con tutte le mie forze, allo spirito del liberalismo religioso, e mai la Chiesa ebbe come oggi più urgentemente bisogno di oppositori contro di esso, mentre, ahimè, questo errore si stende come una rete su tutta la terra». «Il liberalismo religioso è la dottrina secondo la quale non esiste nessuna verità positiva in campo religioso, ma che qualsiasi credo è buono come qualunque altro; e questa è la dottrina che, di giorno in giorno, acquista consistenza e vigore. Questa posizione è incompatibile con ogni riconoscimento di una religione come vera. Esso insegna che tutte sono da tollerare, in quanto sono tutte materia di opinione. La religione rivelata non è verità, ma sentimento e gusto, non fatto obiettivo (…) Ogni individuo ha diritto a interpretarla a modo suo (…) Si può andare nelle chiese protestanti e in quelle cattoliche; si può ristorare lo spirito in ambedue e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare insieme in pensieri e affari spirituali, senza avere dottrina comune o vederne la necessità. Poiché la religione è un fatto personale e un bene esclusivamente privato, la dobbiamo ignorare nei rapporti reciproci».
(Da: Osservatore Romano, 14 maggio 1879)

domenica, ottobre 06, 2019

E il cardinale rispose al bambino

di Inos Biffi


Nel firmamento della Chiesa sta per accendersi una nuova luce: quella del beato John Henry Newman. Sarà così riconosciuta la santità di una vita trascorsa silenziosamente nell’infaticabile ricerca della verità, nell’adesione a Dio e nel consenso alla coscienza, nell’operoso e prolungato servizio alla Chiesa, nella serena e dolorosa sopportazione di incomprensioni e di isolamenti.
Sul finire dei suoi anni, al bambino che – in visita con la nonna Jemima, la sorella di Newman – contravvenendo alla raccomandazione di non fare domande, gli aveva chiesto: “Chi è più grande: un cardinale o un santo?”, l’anziano zio rispose: “Vedi, piccolo mio, un cardinale appartiene alla terra: è terrestre; un santo appartiene al cielo, è celeste”. Il cardinalato gli era giunto, sorprendentemente e non senza penosi intralci, ormai al tramonto della vita: egli non lo aveva desiderato, anche se lo aveva gradito, come riconoscimento della sua opera e soprattutto come apprezzamento per la Chiesa cattolica inglese; però, sapeva bene che la santità era tutt’altra cosa.

D’altra parte, di là dall’altezza del suo ingegno, penetrante e versatile, di là dai suoi raffinati gusti estetici, dal suo “stile incantatore” (Piero Chiminelli), dalla discrezione del comportamento distinto, dalla elevatezza e nobiltà dei suoi sentimenti, la santità di Newman non mancava di essere diffusamente presentita.
Vedendo la sua salma esposta nella chiesa dell’Oratorio di Birmingham – era morto l’11 agosto del 1890 – un visitatore annotò: “Il cardinale, come i resti mortali di un santo, spiccava sul feretro, pallido, distante, logorato. Era come se un intero ciclo di esistenza e di pensiero umani si fossero concentrati in quell’augusto riposo. Una dolce luce aveva condotto e guidato Newman fino a questa singolare, brillante e incomparabile meta”. Ma già qualche anno prima, il vescovo di Birmingham, Ullathorne, dopo averlo incontrato, commentava: “Mi sono sentito rimpicciolito davanti alla sua presenza. Dentro quest’uomo c’è un santo”.

Ed era, alla fine, la stessa persuasione del cardinale Manning. Al discorso funebre per Newman nella chiesa del Brompton Oratory di Londra, quando ormai le polemiche erano lontane e il tempo aveva dileguato le diffidenze, l’arcivescovo di Westminster, dopo aver rievocato “la sua figura, la sua voce, e le parole penetranti che uscivano dalle sue labbra nella chiesa universitaria di Oxford”, affermava: “A nostra memoria, nessun inglese è stato oggetto di una venerazione così viva e sincera. Qualcuno ha detto: “Lo canonizzi o meno Roma, egli sarà canonizzato nella mente della gente religiosa di tutte le confessioni in Inghilterra”. È vero. E se questo fatto equivale a una nobile testimonianza di riconoscenza a una grande vita cristiana, è anche una magnifica prova dell’equità e della giustizia del popolo inglese. Egli è sempre stato lo stesso, unito a Dio e aperto nella carità a tutti quelli che avevano bisogno di lui. Fu centro di numerose anime, che erano andate da lui, come maestro, guida e consigliere durante molti anni. Una vita bella e nobile”.

Forse la via più illuminante e suggestiva per comprendere la concezione e i lineamenti della santità di questa “vita bella e nobile” consiste nel percorrere i profili dei Padri della Chiesa, tracciati da Newman con penna finissima e intima consonanza.
Potremmo, anzi, dire che, nella “fraternità d’anime” con queste “preziose creazioni di Dio” – come li definiva – e nella loro assidua e degustata frequentazione, si veniva plasmando e maturando la sua stessa vita spirituale, mentre nelle loro vicissitudini egli leggeva, quasi in una profetica filigrana, le sue peripezie e insieme ritrovava disvelate le proprie emozioni e la propria umanità.
Scriveva il penetrante, e un po’ deviante, Bremond: “In ciascuno dei Padri Newman cerca anzitutto l’uomo, il santo. Prima di prenderli come maestri, egli li vuole avere per amici”. “Si scelgono gli amici come si vuole. Newman li vuole santi, e vuole che le ore che dedica loro siano ancora una specie di preghiera”, e aggiungeva: “Chi non ama la santità, non ama i santi”. Newman mostra di amare sia i santi sia la santità.
E tra i santi sopra tutti lo attraeva Giovanni Crisostomo. Newman stesso si domandava: “Da dove viene questa devozione a san Giovanni Crisostomo, che mi spinge a fissare il pensiero su di lui, e mi infiamma al solo suo nome?”. E rispondeva: “Penso che il fascino di san Crisostomo si trovi nella sua profonda solidarietà e compassione per il mondo intero; non solo nella sua forza, ma nella sua debolezza”.

Newman è attirato dal fatto che, per quanto posseduto dal fuoco della divina carità, il Crisostomo “non ha perso una fibra, non manca di alcuna vibrazione del complicato organismo del sentimento e dell’affetto umano”: “Egli scrive come chi scruta con occhi acuti ma compassionevoli il mondo degli uomini e la loro storia”.
Senza dire che per un altro aspetto Newman sentiva consonante col proprio il temperamento del Crisostomo, ed è il vivo senso dell’amicizia, che fu motivo per Newman di intima gioia e di profonda sofferenza:
“Nessuno poteva vivere più intimamente nei propri amici come san Giovanni Crisostomo: non aveva lo spirito di distacco proprio del monaco, che lo rendesse indifferente alla presenza, alla corrispondenza, all’azione, al benessere dell’anima e del corpo di coloro che, come lui, erano figli della stessa grazia ed eredi della medesima promessa”. E concludeva: “San Giovanni Crisostomo appartiene a quella schiera scelta di personaggi che gli uomini iniziano a comprendere e a venerare dopo che ne vengono privati. È la legge generale del mondo, che la nuova legge del Vangelo non ha capovolto”: sarebbe avvenuto così anche per lui.
Senza dubbio, l’itinerario e la forma della santità sono aperti soltanto allo sguardo di Dio, così come essa è possibile solo all’opera misteriosa e fantasiosa della sua grazia.
Tuttavia, forse, riusciamo a sorprendere alcuni momenti in certo modo decisivi del tragitto interiore di Newman. Ci sembra che uno di questi momenti sia quello della conversione di questo “ipersensibile”, insieme dotato “di una docile volontà” e di una “fermezza d’acciaio” (Bouyer).

Era l’autunno del 1816, e nel “grande rivolgimento di pensieri” – com’egli nell’Apologia pro vita sua chiama la conversione – gli brillò l’evidenza di due esseri: il suo “io” e il suo “Creatore”. Mentre ogni altra realtà sbiadiva ai suoi occhi e veniva guardata con sospetto, questo eccezionale quindicenne con una fermezza estrema si sentì ancorare “al pensiero di due e solo due esseri assoluti, di un’intrinseca e luminosa evidenza, che lo segnerà per sempre: me stesso e il mio Creatore”. Così, Dio, il Dio vivo della Scrittura, “gli si impose, in modo intimo, senza intermediario, personale”, con la conseguenza che i grandi dogmi, come l’incarnazione, la redenzione, la Trinità, gli apparvero “non come idee astratte, ma come fatti vitali” (Bouyer), ai quali corrispondere con la sua condotta.

E sempre nel tempo della sua conversione lo aveva colpito un’espressione, che divenne un programma, di Walter Scott: “La santità più che la pace”, e lui stesso scriverà che il grande fine del ministero “è la santità”.
Un altro momento cruciale nel cammino spirituale di Newman fu, senza dubbio, quello del viaggio nel Mediterraneo, con la sua malattia in Sicilia. Negli anni che lo hanno preceduto, “cominciavo – egli afferma – a preferire l’eccellenza intellettuale all’eccellenza morale”, e a cedere al liberalismo.
Quel viaggio, coi rimorsi e i pentimenti che suscitava e la lucidità interiore che vi accendeva sul suo “orgoglio”, fu provvidenziale. In quelle settimane Newman ebbe l’”intuizione” e il presentimento di una sua missione che lo attendeva, insieme con la persuasione da un lato di non aver mai peccato contro la Luce e di avere assolutamente bisogno di Luce. Fu allora che scrisse l’inno inglese più cantato nelle chiese cattoliche e protestanti, Lead kindly Light, che è una confessione sincera della sua presunzione, e una appassionata e umile implorazione di quella Luce. “In mezzo al buio” che lo avvolgeva, egli la invocava come guida, che illuminasse non “l’orizzonte lontano”, ma tanto quanto bastasse per compiere un passo. La santità di Newman appare come il crescere silenzioso e perseverante di questa fedeltà alla Luce.
Certo, durante “la sua così lunga e spesso penosa vita” non sarebbero mancati difficili situazioni di prova e profondi motivi di sofferenza, di fronte a chiari segni di sfiducia, a manovre non limpide, ad anni di emarginazione e di isolamento.

Nel 1860 constatava e scriveva nel suo diario: “Non ho nessun amico a Roma, ho lavorato in Inghilterra dove non sono stato capito e dove mi hanno attaccato e disprezzato. Pare che sia incorso in molti fallimenti”, e aggiungerà: “Credo di dire tutto questo senza amarezza”.

Si era anche affacciata la possibilità che fosse fatto vescovo; gli era anche stata promessa autorevolmente quella nomina che poi svanì. Viene in mente che anche a Rosmini era stata assicurata la nomina cardinalizia, poi intralciata e revocata. E come Rosmini, la cui stella si è inattesamente e felicemente da poco accesa nello stesso firmamento del santorale della Chiesa, anche Newman non ebbe per questo parole di amaro risentimento. D’altronde, egli riconosceva serenamente: “Io non ho il talento, l’energia, le risorse, lo spirito, la capacità di governare, necessari per occupare l’alta carica di vescovo. Non ho mai occupato in vita mia cariche di potere. Il mio modo di esercitare una qualche influenza è completamente diverso”.

E fu esattamente così. La sua influenza non fece che accrescere, come riflesso della luminosità garbata, e pure intensissima della sua intelligenza, che sa toccare in profondità la mente e sa parlare al cuore. Cor ad cor loquitur si legge nel suo stemma cardinalizio.

E non meno attraente è la santità di Newman, contrassegnata da equilibrio alieno da rigide e mortificanti ascesi. Essa ci appare la santità di un gentiluomo che, con incrollabile fede, seppe sopportare per amore della verità e della Chiesa innumerevoli tribolazioni, abitualmente nascoste sotto la sua cortese e un po’ distaccata amabilità, nel silenzio lucido della sua coscienza, aperta a Colui che solo assolutamente gli importava, secondo l’intuizione della sua prima conversione, a quindici anni: “Io e il mio Creatore”.


©L’Osservatore Romano – 23 luglio 2009

martedì, ottobre 01, 2019

Maria nell'esperienza del card. John Henry Newman

di Maria Marcellina Pedico, Prof.ssa alla Pontificia Facoltà Teologica «Marianum»

Due sono le angolature con le quali la professoressa Pedico ha presentato il Cardinale Newman: quando era ancora di professione anglicana e dopo la conversione al cattolicesimo. Maria Marcellina Pedico quindi ha messo in evidenza dapprima l’aspetto di Maria in Newman anglicano: “La Vergine ha un ruolo significativo –ha affermato la prof. Pedico - nella vita di Newman anche da anglicano. Con ragione Giovanni Velocci - uno dei massimi studiosi del nostro autore - mette in risalto che «la conoscenza progressiva del mistero di Maria scandisce il cammino personale di Newman verso tutta la verità cattolica». “Fin dall’inizio del suo libro autobiografico – ha continuato la prof. Maria Pedico - c’è un episodio nell’infanzia di Newman che ha tutta l’aria di un presagio: da quel momento fino agli ultimi mesi della sua vita quando, vecchio e debole cardinale, non può più celebrare la messa né recitare il breviario e riesce appena a usare il suo rosario, la Beata Vergine è una presenza costante nella sua esistenza. Nella vita di Newman un avvenimento colpisce e rimane impresso: la conversione al cattolicesino a 44 anni, che costituisce il momento più drammatico del suo itinerario religioso. La conversione viene preparata da un lungo travaglio, da pazienti ricerche, da riflessioni accurate, e comporta il superamento di molte difficoltà. Una delle più notevoli è il culto reso a Maria nella Chiesa cattolica che Newman ritiene, con tutti gli anglicani, contrario alla rivelazione e all’onore dovuto a Dio solo. Leggiamo nell’Apologia pro vita sua: «Durante il Movimento di Oxford ritenevo che il peccato essenziale della Chiesa romana consistesse negli onori che essa attribuiva alla beata Vergine e ai santi; e quanto più crescevo nella mia devozione verso i santi e verso la Madonna, tanto più diventavo intollerante delle pratiche romane, come se quelle creature glorificate da Dio dovessero sentirsi gravemente offese dalla venerazione indebita della quale erano oggetto». In questo testo autobiografico, Newman sintetizza il suo atteggiamento verso Maria: da una parte condanna le forme devote verso di lei, dall’altra avverte una vera devozione. In questo atteggiamento strano e contraddittorio il suo spirito è attraversato da due correnti: una superficiale ed esterna, l’altra intima e profonda. Tale situazione si spiega alla luce della vita e dell’educazione religiosa e culturale di Newman. Egli cresce nell’anglicanesimo e si forma nello studio della sua teologia, che ha come punto fermo l’incontro diretto e immediato con Dio; nessun intermediario può esserci tra l’anima e il suo Creatore. Newman matura in quegli anni ancora giovanili la certezza interiore: «due, e solo due esseri assoluti, di un’intrinseca e luminosa evidenza: me stesso e il mio Creatore» (Apol. 18), certezza che resterà una delle sue note fondamentali e quasi il sigillo della sua vocazione religiosa. La fedeltà alla Chiesa anglicana e l’ascolto della voce della coscienza lo portano a disapprovare le usanze religiose esteriori, contrarie, a suo giudizio, all’adorazione del Dio unico.” “Ma in Newman – ha detto ancora Maria Pedico - c’è un’altra corrente più profonda dello spirito, che suscita in lui la vera devozione alla Madre del Signore. Questa deriva da uno di quei princìpi che sempre lo hanno orientato, e cioè l’evento essenziale del cristianesimo: l’Incarnazione di Cristo, principio dogmatico su cui fonda la devozione verso la Vergine. Newman è fortemente colpito dalla verità di fede secondo cui il Figlio di Dio, che vive da tutta l’eternità, ha voluto nascere nel tempo e assumere la natura umana da una donna. Concezioni così chiare e precise sull’Incarnazione erano rare nel mondo anglicano al tempo di Newman, quando molti travolti dal razionalismo, rifiutano il soprannaturale; altri, vinti da pigrizia mentale e trattenuti dall’altezza del mistero, rifuggono da speculazioni ardite e si adagiano in una credenza superficiale. Newman invece, animato da fede forte e vissuta, abbraccia la rivelazione nella sua pienezza e s’impegna a studiarla in tutti gli aspetti. E qui si alimenta il suo vero culto verso Maria. Questa sua devozione anglicana si basa su quello che conosce della Scrittura riguardo al mistero dell’Incarnazione e della vicinanza di Maria a Cristo. Quando inizia a studiare i Padri della Chiesa cominciano a presentarsi alla sua mente nuove possibilità di sviluppo dei fatti embrionali del testo sacro. Tuttavia, in ciò che dice e scrive mantiene solitamente un tono di riserva e moderazione, sia per non turbare i suoi amici anglicani, come anche per la paura di essere invischiato in dottrine e usi cattolici che ancora considerava fallaci. In Newman si coglie una particolare devozione personale verso Maria, la Madre del Salvatore. Non c’è dubbio su questo; lui stesso lo testimonia nel libro autobiografico: «Nonostante la mia inveterata paura di Roma…, nonostante il mio affetto per Oxford e per Oriel,io provavo in segreto uno struggente amore per Roma, madre del cristianesimo inglese, e avevo una sincera devozione per la Beata Vergine: io vivevo nel suo collegio, servivo il suo altare, e avevo esaltato la sua immacolata purezza in uno dei primi sermoni che avessi dato alle stampe». Il sermone al quale si riferisce Newman viene da lui pronunciato per la festa dell’Annunciazione del 1832. È considerato dagli studiosi un brano eccezionale nella letteratura religiosa e il più straordinario sermone di Newman anglicano su Maria, nel quale ci offre una delle migliori sintesi del suo pensiero. In esso sono messe in risalto le parole rivolte alla Vergine dall’angelo Gabriele, parole che costituiscono il fondamento biblico dell’insegnamento della Chiesa sulla maternità di Maria, la perpetua verginità, l’Immacolato concepimento della Vergine. Riassumendo i motivi di questo sermone, per cui la Vergine è chiamata «beata» nella Scrittura, Newman espone quasi tutto il suo pensiero anglicano su di lei. Il primo motivo deriva dal parallelismo tra Maria ed Eva nella storia salvifica, aspetto distintivo della mariologia di Newman. In Maria – scrive - «la maledizione pronunciata contro Eva è stata tramutata in benedizione» (Maria Pagine scelte, Paoline, p. 117). Il secondo motivo deriva dal fatto che la sottomissione della donna all’uomo a causa della disobbedienza di Eva, viene riscattata attraverso l’obbedienza di Maria. Cristo difende i diritti e l’onore di sua Madre e, attraverso di lei, di tutte le donne, secondo il progetto di Dio per la creazione. Newman tocca qui un argomento di estrema rilevanza oggi: la dignità e il ruolo della donna. Anche la Chiesa, nel suo insegnamento ufficiale, guarda a Maria nel mistero dell’incarnazione come alla persona in cui ogni donna trova il modello della propria grandezza e del genio femminile (cf MD 11). Il terzo motivo della beatitudine di Maria è collegato con la sua santità, derivata dalla sua vicinanza a Cristo, il Figlio incarnato di Dio. Proprio questo suo rapporto con Cristo e con il mistero dell’Incarnazione è alla base del suo insegnamento su Maria. Dalla verità dell’Incarnazione, così come è rivelata nella Scrittura, consegue che Maria è la madre di Cristo. Newman ancora anglicano ha il massimo rispetto per Maria e ne ammira la santità. Ci si potrebbe comunque chiedere se la sua opinione sulla santità di Maria si spinge tanto in là da includere l’esenzione dal peccato anche al momento del suo concepimento. Dobbiamo ricordare che la Chiesa cattolica non aveva ancora definito il dogma dell’Immacolata Concezione. In questo terzo motivo del perché Maria è «beata» c’è un passo che lascia sottintendere ai suoi ascoltatori che la natura umana di Maria è sempre stata in uno stato santificato di grazia, e perciò sempre senza peccato. Gli studiosi discutono su quello che Newman veramente crede da anglicano riguardo alla dottrina dell’Immacolata Concezione e sono in disaccordo. Alcuni ritengono che egli, finché non diviene cattolico non comprende pienamente questa dottrina e non vi crede; altri sostengono che giunge personalmente a questa convinzione, ma si astiene dal dichiararlo esplicitamente per non offendere i suoi compaesani. Può darsi che ci sia qualche esitazione iniziale, ma si può certamente dire che vi sono tutte le premesse per tale convinzione. “Maria in Newman cattolico” è il secondo aspetto del documento scritto dalla professoressa Maria Marcellina Pedico. In esso l’insigne studiosa ha affermato “Cercando di introdurre un breve resoconto della presenza di Maria in Newman cattolico, possiamo facilmente cogliere alcuni tratti caratteristici. Da notare in primo luogo che Giovanni Velocci nei suoi studi su Newman scrive che forse nessuno più di lui era adatto a trattare l’argomento su Maria. E questo per vari motivi: la sua esperienza personale, la conoscenza delle opposizioni degli eretici, la sua capacità eccezionale di afferrare le difficoltà altrui. Innanzitutto Newman si sforza di operare la distinzione tra fede e devozione: la fede, o dottrina, è il Credo e l’assenso ad esso; la devozione sono gli onori religiosi dovuti agli oggetti della fede, e la loro relativa manifestazione. La dottrina (fede) riguardante la Beata Vergine è stata fissata una volta per sempre fin dal principio e sostanzialmente è la stessa ora e al tempo degli apostoli. La devozione, al contrario, è qualcosa di accidentale, è conseguente alla fede, e perciò col passare del tempo può essere soggetta a mutamenti. Le pratiche di pietà sono quindi infinite nello loro manifestazioni; differiscono da luogo a luogo, da individuo a individuo secondo i tempi.” “Newman –ha sottolineato nel documento la professoressa Maria Pedico - dà la sua preferenza a quelle più confacenti al carattere e alla cultura inglese. Egli evita sempre le esagerazioni non compatibili con la teologia nella devozione mariana. Inoltre, egli pone una solida base dogmatica per il culto della Beata Vergine. La dottrina mariana, egli afferma, come conseguenza della dottrina dell’Incarnazione, è attestata dall’antichità ed è un legittimo sviluppo dell’insegnamento primitivo. Sant’Atanasio († 373), il primo grande maestro dell’Incarnazione, ha il merito di aver posto delle solide fondamenta per la devozione a Maria. È vero che talvolta questa devozione può aprire la via ad eccessi, abusi o superstizioni; tuttavia, nonostante tutto, rimane dottrinalmente ben fondata. L’unione talmente intima di Maria al suo divin Figlio giustifica, secondo Newman, l’onore che la Chiesa cattolica le riconosce. Al riguardo si domanda: «Quale altezza di gloria non possiamo attribuire a lei? E cosa dobbiamo dire di coloro che, per ignoranza, si oppongono alla voce della Scrittura, alla testimonianza dei Padri, alla tradizione dell’Oriente e dell’Occidente, e parlano e agiscono con disprezzo nei confronti di colei che il Signore si è compiaciuto di onorare?». Le glorie di Maria, sottolinea Newman, dipendono dal Figlio; Maria è interamente dipendente da lui e tutto ciò che ella ha contribuisce alla lode.” “Nell’esperienza di Newman cattolico – e questo l’aspetto centrale della mariologia del cardinal Newman - si coglie la sua sensibilità ecumenica nel trattare temi mariani. Egli fonda le sue riflessioni sulla Scrittura dove si trova il motivo profondo della sua spiritualità. L’altra fonte, anch’essa di enorme importanza, sono i Padri della Chiesa, che Newman ha studiato e amato intensamente.” “Il suo spirito ecumenico - ha concluso Maria Pedico - risalta soprattutto nella Lettera a Pusey, il suo capolavoro di teologia mariana –che scrive nel 1865,. Maria è sempre presente nella sua attività di oratore, come documentano le meditazioni sulle Litanie Lauretane pronunciate varie volte per il mese di maggio nella chiesa dell’Oratorio di Birmingham; e nel corso dell’anno liturgico tiene spesso le meditazioni sui misteri di Maria. Sono degni di rilievo anche i discorsi mariani rivolti ai cattolici e ai protestanti nei quali risaltano il suo spirito ecumenico e il suo tentativo di riavvicinare i membri delle due confessioni contrastanti. Da ricordare anche i testi di preghiere e altri scritti spirituali e poetici.” Da notare che è in corso la causa di beatificazione del Cardinale Newman proprio per il suo spirito profondamente ecumenico e chissà se la sua canonizzazione possa dare un impulso forte, con l’aiuto della Vergine Maria, al processo di unificazione di queste due grandi confessioni cristiane : quella protestante e quella cattolica.