E' morto la scorsa settimana Hans Georg Gadamer, uno dei più importanti filosofi dello scorso secolo.
L'avevo visto diverse volte a Napoli, la città che tanto amava. Un uomo imponente, nonostante l'età, che ha lasciato veramente tanto.
Ecco come l'ha ricordato Il Mattino.
Alla fine Hans-Georg Gadamer, seduto sul letto della sua casa sulla collina verdeggiante di Heidelberg, si è rivolto ai filosofi Giuseppe Orsi e Jean Grondin e ha detto in un sussurro: «Vi dispiace se mi adagio?». Ha chiuso gli occhi e si è come assopito, secondo la testimonianza dei suoi due interlocutori. Poi, qualche giorno dopo, se n’è andato tranquillo, come chi si abbandoni a un eterno sonno del giusto.
Se mai può esserci una morte invidiabile, è quella toccata in sorte al grande filosofo del Novecento, spentosi nella sua città pochi giorni dopo il 102mo compleanno, mentre si era appena concluso il convegno in suo onore organizzato lì con la complicità di Gerardo Marotta. Il quale, non potendo averlo a Napoli, dove Gadamer era di casa, aveva pensato di portargli a domicilio la festa di compleanno.
Alla fine il filosofo, nato l’11 febbraio 1900 a Marburgo, è riuscito a vivere più a lungo del secolo che ha costantemente interpretato, con il filo teso di un pensiero complesso e coraggioso, interamente fondato sulla fiducia nel dialogo e sul recupero della tradizione umanistica. La sua biografia leggendaria, tutta intrecciata al Novecento e ai suoi snodi essenziali, è essa stessa una lezione esemplare: ne è una parte importante l’incontro con Heidegger, con cui Gadamer non condivise però l’adesione al nazismo, preferendo una sorta di lungo autoesilio intellettuale prima a Lipsia, poi a Francoforte, e uno studio solitario e paziente, tanto da pubblicare la sua prima opera importante solo a sessant’anni. Un altro passaggio fondamentale della sua vita è il rapporto con Napoli, propiziato da Marotta: Gadamer c’è stato ogni anno, per più di vent’anni, sempre all’hotel Vesuvio, sempre nella stessa stanza, la 833, dove, spostando la scrivania verso il balcone con vista su Castel dell’Ovo, preparava i suoi seminari indimenticabili e affollatissimi di giovani. All’inizio il suo italiano era incerto, inciampava nelle frasi lunghe. Durava poco, due o tre giorni: e subito il vecchio filosofo si divertiva a civettare con le espressioni in dialetto imparate negli anni. Era uno spettacolo. Vitalissimo, dritto come un fuso, parlava per ore di filosofia greca, cioé di quanto c’è di più inattuale. L’incredibile è che i ragazzi pendevano dalle sue labbra. Intanto, dicendo di Vico, dei giacobini, degli hegeliani, di Croce, Gadamer diventava come un napoletano tra i napoletani. Condannava la città senza cultura ed educazione, così somigliante allo «stato di porci» descritto da Platone, e attraverso le sue parole rendeva plausibile l’altra, quella ricca di memorie che potrebbe avere per oro la conoscenza. Lui, nel suo invidiabile ottimismo filosofico, non smetteva di immaginarla vittoriosa.
(Titti Marone)
Con la morte di Hans-Georg Gadamer è finito il Novecento filosofico; quella grande avventura del pensiero che potremo far iniziare con l'altra morte, quella di Friedrich Nietzsche il 25 agosto 1900. Nietzsche moriva, il suo Zarathustra cominciava la sua marcia trionfale nella cultura intellettuale e filosofica europea, Heidegger maturava il suo pensiero che nel giro di un paio di decenni lo avrebbe reso il degno erede di Nietzsche, e Gadamer nasceva. La sua opera sarà tardiva; il suo capolavoro, Verità e Metodo, è del 1960. Sembrava il bilancio intellettuale del solito professore tedesco che ormai vicino alla pensione si permetteva di esporre la summa delle sue esperienze e invece non era che il principio di un quarantennio intensissimo di riflessioni radicali, d'interrogazioni temerarie. Il suo discorso prende le mosse dall'intuizione heideggeriana del linguaggio: «Chi ha linguaggio ha il mondo», nel senso che l'esistenza dell'uomo è già sempre qualificata da una pre-comprensione del mondo incarnata nel linguaggio. Gadamer s'interroga sulla sua struttura, sull’apertura che il linguaggio svolge nel processo di umanizzazione. Memorabili sono i saggi che Gadamer dedica a grandi opere d'arte come Il Flauto Magico o al ciclo di pitture, ispirate a Kafka, di Willibald Kramm oppure ai vertici d'interpretazione poetica, tra cui gli intramontabili contributi alla comprensione della poesia di Paul Celan, riuniti nel volume Chi sono io, chi sei tu. Su Paul Celan. Non si tratta di eleganti interventi estemporanei: la poesia - soprattutto la lirica è inerente al percorso ermeneutico di Gadamer. Siamo così giunti a quel magma concettuale che designiamo come «ontologia ermeneutica» che indica il sistema filosofico.
Tutto, per il filosofo tedesco, assume una curvatura passibile d'interpretazione; l'esistente è interpretazione; l'uomo, un evento, un testo vivono nell'interpretazione: noi ci avvediamo dell'altro interpretandolo. L'oscurità è la difficoltà alla prassi ermeneutica. Essere nato, come Gadamer, l'11 febbraio 1900, all'inizio del secolo, ha rappresentato la sua fortuna filosofica nel senso che si è trovato a metà del Novecento ancora nel pieno delle sue forze e delle sue curiosità intellettuali con decenni di ritiro forzato (ossia di studio ininterrotto) nella Emigrazione Interna, ovvero in quella forma di distacco dalla politica attiva e dai drammatici, tragici e grotteschi eventi del nazionalsocialismo. La distruzione della patria ha coinciso con il disfacimento di ogni idolo; nell' «anno zero», nel 1945 - pur senza voler ripercorrere la ben nota biografia del maestro tedesco - il filosofo ha compreso che gli unici compatrioti che veramente gli rimanevano accanto erano loro, i grandi filosofi, i greci prima di tutti gli altri. È da allora che Gadamer ha scoperto un'ulteriore concezione della centralità filosofica: quella di chi pensa ora, nel presente, e partecipa a tutto il passato e si percepisce quale fermento e germe già in atto del futuro. Scriveva, infatti, in un indimenticabile saggio su L'idea del bene in Platone e Aristotile : «Filosofia è qualcosa che si fa incontro all'uomo in modo sempre uguale e che lo distingue come uomo; in filosofia non c'è progresso, ma soltanto partecipazione.» Erano parole coraggiose e inattuali che venivano continuamente ribadite nella produzione intellettuale di Gadamer, che in Italia cominciò a essere conosciuto attraverso la scuola torinese di Pareyson e di Mathieu quando loro e poi i loro allievi, da Verra a Vattimo, Givone e tanti altri, cominciarono a recarsi in pellegrinaggio culturale a Heidelberg. Ma il destino italiano di Gadamer non era Torino, bensì improvvisamente slittò verso il Sud, ovvero verso Napoli e verso l'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, che dalla seconda metà degli anni Settanta ebbero in Gadamer un ospite fisso e poi un collaboratore insigne, che ne rappresentò l'alta missione di fucina filosofica nel mondo. Quando nell'aprile del 1978 Gadamer da Monte di Dio a Napoli, nella vecchia sede dell'Istituto a viale Calascione tenne il suo straordinario intervento su Hegel e la filosofia, la cultura italiana era ancora attanagliata dalla scolastica vetero-marxista e dai chierici del gramscismo di Stato, mentre la nostra società era dilaniata dal terrorismo e da diffuse turbolenze sociali. I più avverti tra gli intellettuali marxisti del PCI, tra cui Cacciari, Masini, Marramao, erano approdati a Benjamin, alla Scuola di Francoforte. Ma sarà Gadamer da Napoli - città in cui tornò per lavorare con i giovani ogni anno, formando schiere di intellettuali e di docenti - a far voltare pagina a una cultura inquieta, ma confusa.
Oggi in un mondo che è di nuovo incerto e sedotto dalla violenza resta viva la sua parola affidata a decine di volumi determinanti per la cultura del mondo. Il secolo che si apre dovrà discutere i vari contributi che ha ereditato. Gadamer rimane sulla soglia del Novecento come un gigante, come un veggente che ha saputo intuire il mistero dinamico e magico e creatore della parola, che si solleva in poesia. Nel futuro, Gadamer ci ha avvertito, ci attende un maestro. Platone. In questo paradosso si compie il destino dell'Occidente. Partiti dai presocratici e dalla Scuola d'Atene torniamo a essere quello che eravamo: questa strana, conturbante parola è risuonata nel secolo da Napoli e ancora ci riempie di stupore e segna il nostro pensiero, ora e sempre. Addio Gadamer, addio Novecento!
(Marino Freschi)
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