venerdì, marzo 03, 2023

“Anziani, valori, creatività e qualità della vita”




“Anziani, valori, creatività e qualità della vita”

“Il passato è solo un avvenire invecchiato” dice Cocteau. Noi viviamo nel punto di divisione tra passato e futuro. Questo punto si sposta e ci trasporta inevitabilmente con sé verso il futuro. E ognuno di noi sa tacitamente, senza neppure pensarvi, di invecchiare. Vivere vuol dire invecchiare. Invecchiare allora è l’unico mezzo che abbiamo trovato, di vivere a lungo.

Illustri Signore e Signori, sono lieto di questo incontro; esso mi consente di avvicinare tanti qualificati Maestri della Medicina, primo fra tutti il prof. Abate, titolare della Cattedra di Geriatria dell’Università di Chieti; la Dott.ssa Bartorelli, Primario al San Eugenio di Roma; il Dott. Falconio, Dirigente del Servizio Medico dello Sport; il Dott. Guizzardi, Primario Geriatria di Città S. Angelo; il Dott. Viscanti, Primario Geriatria dell’O.C. di Lanciano e Segretario della Sezione Abruzzo della S. I. G. O. Saluto tutti gli altri Colleghi della cui presenza siamo onorati.

Al Dottor Angelo Pace, coordinatore sanitario, dico grazie della sua partecipazione. Egli è ancora tanto giovane da poter esorcizzare tale età della vita, ma tra maturità e vecchiaia non c’è soluzione di continuità e quest’ultima non è un periodo facoltativo della nostra esistenza ma una sicura realtà. Sono certo che anche dopo questo Convegno che cade nell’anno europeo dell’anziano, egli orienterà il suo impegno, ai vertici della ULSS, verso la promozione dell’uomo in età avanzata.

Io mi auguro che a seguito delle sue iniziative, ogni anziano possa dire quello che un poeta francese esprimeva così con molta efficacia: “80 anni, più occhi, più orecchi, più gambe, più fiato. Ed è incredibile come si arrivi a sorpassarli”.

Quando il Prof. Palmieri impeccabile animatore di questo convegno mi ha proposto di parlare degli anziani io mi sono sentito subito a disagio. Innanzitutto, per la tensione che tale impegno sempre comporta; in secondo luogo, per il timore di proiettare sull’argomento le mie personali paure e al limite le mie angosce e poi perché ho poco da dire a chi, come voi, ha acquisito una esperienza sul campo, tra gli anziani, ascoltando le loro storie e i loro disagi, la loro ansia per la perdita del ruolo e la paura della malattia e della morte. Mi limiterò ad alcune annotazioni per gli ospiti di questa stupenda Residenza per Anziani, “Piccolo Rifugio La Cicala” illeggiadrita dalla direzione di Luisella e Valeria Palmieri, così ricche di esperienza umana e di sapienza professionale.

Mi rivolgerò al Personale di questa Casa che sa così facilmente sintonizzarsi con il prossimo e dedicarsi agli altri. Per il quale lavorare tra queste mura significa accostarsi a valori in generale poco promossi e a volte persino frustranti. Ma per il quale non c’è piacere più grande che accendere un sorriso e togliere un po’ di tristezza.

Parlerò ai giovani, a questi giovani della Scuola Infermieri Professionali di Atessa e alla loro direttrice Suor Lorenza per dir loro che giovinezza è speranza e conquista e realizzazione di sogni. Ma anche la longevità è speranza e conquista di significati ed interessi.

Un saluto particolare va poi a tutte le persone anziane che si sentono messe da parte come inutili e dimenticate. A loro vorrei gridare: riempite la casa della vostra presenza, affinate le risorse corporali e spirituali. Se l’aspetto fisico si deteriora, l’aspetto spirituale cresce. Lottare contro la solitudine, evitare il conformismo e la routine. Rimanete gradevoli. La vostra vita è degna di significato. Sentitevi capaci di recitare l’atto più lungo della Commedia Umana. Vi è ancora spazio alla speranza, alla fede, alla carità che non sono soltanto virtù cristiane, ma luoghi di forza del nostro essere uomini.

Ma parlo anche all’uomo nella più larga eccezione del termine. Parlo all’anziano che non è l’uomo dei filosofi, che non mi interessa, che non è l’uomo della razza, che non è l’uomo della mia nazione, che non è l’uomo della mia fede. Parlo all’uomo reale, l’uomo vero, in carne e ossa, quello che posso toccare, quello che giace nei letti del mio ospedale pieno di gente morente che spesso soffre di avanzate malattie di cuore, di cancro, di paralisi, di forme demenziali e al quale ho ben poco da offrire dal punto di vista medico. E quest’uomo che chiede pietà, sono io stesso. Siamo ciascuno di noi “quando i fili dell’ordito sono per essere tagliati e ci avviciniamo come il tessitore al termine del rotolo della vita”.

Siamo ciascuno di noi quando la società sopravvaluta la giovinezza e scarta i vecchi.

Povero è l’uomo. Ogni uomo.

“He is a has-been” “Egli è uno che è stato”. L’espressione americana schiaccia il senso autentico della vita nella materialità, e il cuore dell’uomo in un’aritmetica del profitto. Secondo questa concezione purtroppo dominante non è la coscienza che fa l’uomo e l’ambiente ma è l’ambiente che fa la coscienza (e per stare ai tempi, fa Tangentopoli). In sostanza “siamo ciò che la società ci fa essere” e quando abbandoniamo il ruolo che prima ricoprivano, noi siamo finiti. Ecco perché una persona anziana soffre soprattutto nel sentirsi inutile, nel non essere più richiesta di niente, sentirsi sopportata. Ma allora essere anziani, sempre meno efficienti, sempre meno forti, sempre meno produttivi, sempre meno importanti, è una condanna?

“Ogni vita umana è una nuova vita in crescita

Voi contate molto per tutti

La società ha bisogno di voi.”

Così Giovanni Paolo II agli anziani del Canada. Vita in crescita, dunque, quando siamo in condizione di malattia. Vita in crescita in condizione di pluripatologia perché il declino di una parte di una persona non è il declino di tutta la persona. Vita in crescita nella fatica dell’esistere e nel freddo della sofferenza perché l’uomo non è soltanto lui stesso, è il punto unico dove i fenomeni del mondo si incrociano una sola volta senza ripetersi.

Mi rendo conto che la concezione della vita come una linea che sale e che può diventare spoglia di tutto fino a farci dire “tu non sei più vita” ed invece continua ad esserlo; questa concezione è a rischio e passa assai alto rispetto a noi sino a ribaltare la nostra moda culturale. Sinora abbiamo guardato l’anziano per porgergli un aiuto; secondo questa concezione invece l’essere anziani comporta non solo le molte cose già dette dal geriatra e dal politico, cioè attenzioni, provvidenze e interventi sulla condizione com’è, ma comporta un valore. Un valore che prima non c’era nell’umano e che non ci sarebbe se non esistesse la fase anziana dell’essere uomini. E questo non perché prima o poi faremo tutti il nostro ingresso nell’anzianità, ma perché crediamo nella continuità del valore della vita stessa in tutte le sue stagioni: si può dire, anzi, che più la vita è vita, vive, più cresce valore. Giovanni Testori diceva “La vita è la vita”. Cresce di valore maturando un diverso significato della vecchiaia che si libera di alcune sue caratteristiche peculiari di ineluttabilità per disvelarne altre ancora sepolte nella possibilità (arriveremo a 130 anni?). Cresce il valore perché ha vissuto tutta la scala dei valori familiari a lui consentita e ora ci invita a guardare lontano. Cresce di valore perché ricapitola in sé, nel suo passato, livelli di esperienza che noi dobbiamo ancora vivere. Cresce di valore perché nella prima volta nella storia, la figura dell’anziano esce dall’immaginario popolare per diventare una figura concreta e reale raggiungibile dalla maggior parte delle nuove generazioni in un contesto caratterizzato dalla effettiva coesistenza di tre e spesso di quattro generazioni.

Queste considerazioni non esistono nella nostra cultura e il problema consiste nel cambiare mentalità. Certo, non so quanti anziani, al di là del fatto che lo vivano personalmente, siano disposti ad affermare che l’anzianità è un valore profondo della vita e quindi non hanno solo bisogno di infermieri che si chinino su di loro (è ovvio che non mi riferisco agli infermieri di professione) ma hanno bisogno di ammiratori che guardino per imparare, o di ammiratrici come la Dott. Bartorelli che con un bellissimo articolo su Geriatria ci insegna che “la qualità della vita dipende, sì dalla salute della persona, dal suo stato funzionale, dal benessere psichico e sociale, entità in qualche modo misurabile, ma anche dall’ineffabile proprietà dell’essere che sfugge a qualsiasi misura”.

E ancora la Bartorelli descrive due anziane signore attive e creative che si muovono come farfalle in una vita di provincia ricca di qualità da cui il film “Caccia di farfalle”.

L’umile immagine della farfalla in una società impazzita, insaziabile di beni e di danari.

La farfalla, in greco: Psiukè.

L’anima, in greco: Psiukè.

L’ineffabile proprietà dell’essere in un corpo che ha intatta la sua umanità e dignità e che continua ad essere una cellula viva della comunità magari insidiata dal progresso.

Tutto ciò che possiamo dire l’ha detto tanto tempo fa Dante nel decimo canto del Purgatorio:

“Non v’accorgete voi che noi siam vermi

nati a formar l’angelica farfalla

che vola a la giustizia sanza schermi?”

“Nessuna sofferenza, nessuna umiliazione ha il potere di spegnere la gioia essenziale che è in noi”, ha scritto Claudel.

Quella gioia, affine all’amore, che non può essere uccisa neppure dal suo antidoto: il dolore.

Riflettori puntati per tutto il ’93 sull’anziano, dunque, che non significa solo e per sempre “assistito, non autosufficiente, bisognoso di aiuto”. Tale rappresentazione sociale dell’anziano coincide sempre meno con la realtà, dal momento che crescenti fasce di popolazione anziana presentano stili di vita, di consumo, di movimento fortemente autonomi.

La persona d’età, che abbia conservato la buona salute, ha spostato in avanti la sua “linea del Piave”; la resistenza al declino si affida ad esercizi di vitalità fino ad una generazione fa semplicemente impensabili: esercizi fisici (la ginnastica della terza età è orma un rispettabile business che interessa palestre, produttori e venditori di abbigliamento sportivi e ginnici, l’industria termale), esercizi psichici e mentali; dai centri di conferenze alle Università della terza età che si aprono un po’ dappertutto come risposta spontanea all’abbandono dell’attività produttiva per diventare poi una prospettiva antropologica. Siamo più giovani ad ogni età. L’esistenza ha compiuto un grande salto. La vecchiaia ha un altro volto. Non è più il limite tra il finire e il nulla, come diceva Chateaubriand, ma l’età più libera della vita. La durata della vita si è allungata e l’Italia in Europa è il Paese dove si invecchia di più. Nel 2000, per 100 giovani vi saranno 120 anziani. Ma la longevità è femmina. Nella nostra società ancora maschilista il nascere donna comporta un certo numero di svantaggi ma non quello della sopravvivenza. Infatti, la donna vive 7-8 anni più dell’uomo che come è scientificamente accertato è il vero sesso debole della specie sapiens-sapiens e tende a morire in percentuale più alta. Ma questa speranza di vita, più solida di quella un tempo concessa a chi ci ha preceduto nella difficile battaglia del vivere, permette una vita migliore? E questa longevità già misurabile e sicuramente prevedibile, può crescere oltre che in quantità, in qualità?

Non serve guadagnare anni di vita se si traducono solo in anni di malattia. E mi riferisco non soltanto alle patologie oggi dominanti, ma anche a quelle emergenti, ad esempio, i disturbi psichici che sono uno dei limiti della qualità della vita. Soltanto da poco tempo, dopo che si sono dati più anni alla vita si tende a dare più vita agli anni. Vivere più a lungo offre la possibilità di scoprire molte cose che prima non si erano viste o capite.

E non è vero che l’invecchiamento comporta un impoverimento psichico progressivo. E anche se qualche autore sostiene che dopo i quindici-vent’anni si perdono ogni giorno cinquantamila neuroni, il cervello ne ha miliardi di riserva.

Molti personaggi della cultura e dell’arte hanno continuato e continuano ad operare fino a tarda età. Tolstoi a settantuno anni terminò di scrivere Resurrezione, Goethe a ottantuno concluse il Faust, Michelangelo a ottantanove lavorava ancora alla Pietà. Pablo Picasso toccò il vertice della Pittura tra gli ottantadue e i novantadue anni. Nell’arte del passato come in quella contemporanea si trovano segni profondissimi di questo coraggio creativo che permette di esprimere la verità artistica nel modo più irrazionale e assoluto.

Certamente si tratta di personaggi che non hanno mai perso motivazioni e interessi. Non è infatti l'eventuale perdita di un neurone ogni minuto secondo a determinare il deficit psichico nell'anziano quanto la diminuzione degli stimoli che si ricevono dall'ambiente e che producono le risposte.

Saper invecchiare è quindi il risultato di una maturità psico-affettiva anche se non è facile liberarsi dagli stereotipi negativi che erroneamente identificano la vecchiaia con il passaggio dalla mobilità, dalla capacità all'incapacità, dall'indipendenza alla dipendenza, dall'appartenenza (alla famiglia, al gruppo) all'emarginazione. Non si dovrebbero mai contare gli anni. La malattia della vecchiaia è “credersi vecchi”. Il vecchio infatti si valuta come la società lo considera. Il termine “anziano" rappresenta per lo più una valutazione data dagli altri e c'è sempre una discrepanza tra il “concetto dell'altro” e il “concetto di sé”, tra quello che gli altri si aspettano dall'anziano e quello che lui vorrebbe e potrebbe fare. Ma proprio perché mi rendo conto di quanto sia difficile diventare una persona matura e di quanto non sia facile invecchiare bene, queste modeste riflessioni vogliono ricordare questo impegno prima di tutto a me stesso.

Ma il vecchietto dove lo metto?

C'è oggi un clima culturale che non rispetta la vita nascente, che trascura gli emarginati e abbandona gli anziani. C’è oggi nella gente un curioso atteggiamento: la medicina dovrebbe garantirci non solo contro tutte le malattie ma anche contro tutte “le realtà più crude della vita”.

Nelle discussioni sull'eutanasia affiora uno strano modo di pensare che opprime in nome dell'efficienza chi è anomalo, debole, vecchio. Sembra prevalere sempre più non la tragedia di chi sceglie di porre fine alla propria vita e al proprio dolore, ma l’igienismo sociale di chi vuole eliminare persone inutili e togliere di mezzo chi soffre. L’eutanasia appare sempre più come una resa, come una incapacità a rispondere ai bisogni dell’uomo e si chiede il permesso di ucciderlo. Si è fatto di tutto per privarlo delle ragioni di vivere, di soffrire, di amare, di lottare e di morire e all’uomo all’estremo della privazione che ho detto, si offre il rimedio della … morte.

La morte!

Gli uomini non sanno e non possono farsi una ragione dell'esistenza della morte, e della sua ineluttabilità. Nell’anziano poi, la progressiva scomparsa di coloro che lo circondano, e soprattutto lo sradicamento dalla propria casa con i significati simbolici di sicurezza e protezione, costringe a prendere ancor più coscienza dell’evento decisivo che si avvicina. E ciò che abitualmente spaventa di più è la paura di rimanere soli, senza una presenza amica a fianco, e soprattutto terrorizza l'idea che si possa morire senza che nessuno se ne accorga, con il rischio di essere trovati più o meno tardivamente sotto forma di un corpo in sfacelo senza la possibilità di lasciare di sé un’ultima immagine bella.

Joseph Roth con tenero pessimismo ne La Cripta dei Cappuccini scriveva: “Com'è caritatevole la natura! I malanni che essa regala alla vecchiaia sono una grazia. Oblio ci regala, sordità e occhi deboli, quando si diventa vecchi: un poco di confusione anche prima della morte. Le ombre da cui questa sì fa procedere sono fresche e caritatevoli.”

È la poesia della vita e della morte. È la giovinezza eterna che si sogna e si desidera mentre l’immortalità, vissuta come condizione terrena carica di pene e di sofferenze, è la peggiore delle condanne: quella che fa desiderare la morte stessa.

Se le cose stanno così e ogni attimo conferma la nostra condizione mortale, risuonano pietose le parole di Esopo:

- Una volta un vecchio che aveva fatto legna nel bosco se la caricò sulle spalle. La via era lunga. Il vecchio stremato posò la fascina e invocò la Morte. Apparve la morte e gli chiese: “Mi hai chiamato, che vuoi?”

“Dammi una mano”, il vecchio rispose.

Mi avvio a concludere queste poche note cosciente della loro insufficienza ma con una annotazione incoraggiante: gli avvenimenti di questi ultimi tempi non solo e non tanto hanno sorpreso per il travolgente ed imprevedibile succedersi al di là di ogni ottimistica previsione, per quanto il trascinante risveglio di quei valori che devono essere appannaggio di tutti gli uomini: l'onestà, la responsabilità, il rispetto del valore dell'uomo in qualsiasi situazione. In questi giorni sembra che siamo stati colpiti da una famosa maledizione cinese: “Che tu possa vivere in un momento interessante”. L’exit poll di questo scorcio di millennio ci porta verso il futuro e già comincia ad aprirsi uno spiraglio in questa straordinaria frontiera. È questo un momento molto importante, una stagione significativa dalla nostra società che ha in sé quei valori di passione e di fiducia che per l'anziano rappresentano una parola di conforto e di amore e che si traduce in un lampo di gioia ed in un sorriso di speranza. “La rugiada non calma forse il calore? Così come una parola vale più di un dono”, dice la Bibbia.

Una striscia di felicità, una lama di luce nella tenebra della vita che può coesistere con un’esistenza aspra e coniugarsi con la quotidianità amara come insegnano le Beatitudini, ma di fronte alla quale non possiamo che inchinarci.

 Dott. Vittorio Giuseppe Bottone

Convegno regionale di geriatria.  Atessa, 24 aprile 1993.

 

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