Giuseppe O. Longo
Uscendo dalle torri d'avorio e dai piccoli laboratori faustiani e intrecciandosi con la tecnica, con l'economia e con la società tutta, la ricerca scientifica ha perso i suoi tradizionali connotati di libertà e di gratuita irresponsabilità e deve sottostare a due tipi di vincoli. Da una parte ha sempre più bisogno di soldi e ciò la sottopone alle imposizioni dei finanziatori, perché chi paga pretende un ritorno e tende a sostenere solo le ricerche «redditizie». Per un altro verso le conseguenze dell'attività scientifica riguardano tutti, quindi il pubblico, giustamente, vuole non solo essere informato, ma anche esercitare un controllo su ciò che fanno i ricercatori. Mentre poco possono fare per sottrarsi al vincolo finanziario, gli scienziati tentano di liberarsi dal controllo sociale invocando la «libertà di ricerca», locuzione che assume una tinta francamente umoristica, trattandosi pur sempre di una libertà vigilata dal capitale. Il vincolo sociale, d'altra parte, si presenta con una forte connotazione etica e precauzionale. E' come se la società innestasse sulla scienza un «organo etico» di controllo, una sorta di protesi o imbrigliatura molto più fastidiosa del filtro finanziario, perché in cambio delle limitazioni che impone sembra non dare nulla. Per sottrarsi a questa pastoia e riacquistare almeno una parvenza dell'antica libertà ch'è sì cara, la scienza deve mostrare alla società un volto benigno, anzi provvidenziale, dichiarandosi capace di portare l'umanità verso traguardi sfolgoranti: onniscienza, immortalità... Ma si tratta di traguardi dubitosi, gravidi di incognite e di rischi, sui quali è imprudente ostentare sicurezze. D'altra parte, come si fa a presentare al pubblico ignorante i problemi in tutta la loro complessità? Si rischierebbe di smorzarne l'entusiasmo. Per continuare ad agire in libertà, sia pur vigilata, la scienza deve dunque, in sostanza, fingere. In ciò l'aiuta, all'insegna di un autoinganno più o meno consapevole, uno stuolo di volonterosi corifei, di intellettuali progressisiti e di divulgatori inossidabili, tutti più o meno beneficiari degli utili e della riconoscenza che la scienza raccoglie. In questo modo, con una sapiente e concertata operazione di anestesia, la scienza neutralizza l'organo etico e precauzionale che la società le ha imposto per filtrarne l'attività. Ma, proprio per la sua unanimità, questa declamatoria opera di persuasione finisce col generare diffidenza e la diffidenza può tramutarsi in ostilità. I ricercatori reagiscono con tracotanza e il divario si allarga a frattura. Di qui le «fughe nell'irrazionale», come le definiscono gli scienziati, ma spesso si tratta del tentativo di non banalizzare problemi complessi e di non svendere tradizioni, credenze radicate e sentimenti profondi sulle bancarelle del pensiero unico e omologante. Tanto più che, paradossalmente, proprio la divulgazione scientifica ha fornito a un pubblico sempre più vasto e sempre meno ignorante nozioni e strumenti che gli consentono di compiere un'analisi critica di quanto viene proposto dagli specialisti. Si veda il risultato del referendum...
1 commento:
Che la scienza debba avere una sua etica, è fuor di dubbio, ma credo che bastino gli scienziati a fornirgliela. D'altronde, la natura non chiede il permesso di fare le cose, le fa e basta, gli scienziati sono sotto la natura, e in più sono esseri umani. Hanno già due vincoli, il senso morale kantiano e le leggi della fisica. Credo bastino, credo che la scienza non abbia bisogno di Ruini, Sgreccia o Ratzinger.
Da ex studente di filosofia direi di cercarci un orizzonte attuale problemi coerenti, un lavoro serio, e non reggere il moccolo agli scienziati (Cfr. epistemologi) o peggio ancora cercare di dire loro cosa possono e non possono fare (cfr. bioetici).
Francesco De Collibus
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