domenica, agosto 05, 2012


Contro lo sport

Violenza e conigli. L’insostenibile leggerezza di un flagello mondiale

Nelle cosiddette società sviluppate e complesse,i crimini più gravi sono compiuti da istituzioni, non da individui. E quanto più grandi, continui e istituzionali sono i crimini, tanto più difficile è percepirli a occhio nudo. Così argomentava Enzensberger un quarto di secolo fa nel suo libro “Mediocrità e follia”, parafrasando un’idea sviluppata già negli anni Cinquanta da Günter Anders in “L’uomo è antiquato”. Non c’è dunque da meravigliarsi se ogni tanto qualche osservatore o studioso punta la sua lente sui crimini morali e materiali che si annidano nella pratica corrente di un’istituzione: esercito, polizia, scuola, sanità, giustizia, comunicazione. Nelle liberaldemocrazie la violenza è diluita e mascherata ma non assente.
E’ dello sport e degli stadi che si occupa il libro di Marc Perelman “Sport barbaro. Critica di un flagello mondiale” (Medusa, 174 pp. 14 euro). Fin dalle prime pagine la mia reazione immediata è stata di sorpresa e di rammarico. Ma guarda (mi sono detto) queste cose, anche se in termini diversi, le ho pensate da così tanto tempo e tante volte che ormai non ci facevo più caso. La forza dell’abitudine ci addormenta. Il sottinteso bellico, violento, distruttivo, razzistico o ebete dello sport, delle emozioni che scatena e degli interessi che soddisfa è stato spesso notato. Ma alla fine e dopo ogni critica e denuncia, lo sport trionfa sempre, si impone su tutto: gli istinti che esprime sono così primitivi e primari, che sembra invulnerabile a ogni obiezione. Sono decine gli amici e conoscenti che, per quanto appassionati di calcio, hanno smesso da decenni di frequentare gli stadi. Ma neppure questa reazione di paura e di disgusto di molti tifosi riesce a essere convincente. Basta che lo spettacolo venga goduto in televisione perché la barbarie sia dimenticata e il calcio, nonostante tutto, ridiventi sano e santo. Viene semmai visto e denunciato come “antiumano” chi lo critica.
Leggendo Marc Perelman, mi è tornata in mente una pagina di Piergiorgio Bellocchio pubblicata nel numero 5 di Diario nel 1987, anche perché Bellocchio impiega poche righe per dire quello che Perelman dilata analiticamente in un libro. Ma come sappiamo i libri risultano più autorevoli dei saggi brevi e se non viene esibita una congrua bibliografia ogni affermazione sembra meno scientificamente persuasiva.
Scriveva Bellocchio: “La criminalità degli stadi, dove la domenica si celebra il rito calcistico fondato sulla violenza verbale e fisica; violenza premeditata, covata e nutrita durante l’intera settimana; violenza che se non si propone ancora come obiettivo esplicito l’eliminazione fisica dell’avversario, limitandosi per lo più a minacciarla, pur tuttavia finisce spesso per ottenerla ugualmente, e quando l’evento si compie, lo si celebra; la criminalità degli stadi ha conseguito i suoi massimi trionfi quando questi luoghi sono stati utilizzati per segregare, torturare, massacrare gli avversari politici. Un uso eccezionale, ma non abnorme. Sono stati piuttosto momenti della verità, rivelatori della natura profonda di questo tempio, totale realizzazione della sua potenzialità. Galera e mattatoio. Poi il sangue viene lavato e lo stadio torna al normale suo uso: partite di calcio, concerti rock, meeting religiosi. Violenza rituale di routine, fisiologica (…) Le ricorrenti invocazioni dei forni crematori hitleriani contro gli atleti israeliani non sono tanto un sintomo di rigurgito antisemita; la specifica ideologia nazista c’entra poco. Se i tifosi sapessero dei massacri italiani in Libia e in Etiopia, si può star sicuri che verrebbero entusiasticamente sbandierati in occasione di incontri contro squadre libiche e etiopiche. Abbiamo visto schernire come ‘conigli’ i morti dello stadio di Bruxelles e auspicare il ripetersi di altre Bruxelles. E non dimentichiamo che, nonostante la strage, quella partita fu regolarmente giocata, seguita con sportiva emozione dagli spettatori, e coronata dagli abbracci finali dei vincitori”.
L’analisi di Marc Perelman usa Freud (lo sport distoglie i giovani dal sesso), Kracauer (“Lo sport abbrutisce le masse”), Benjamin (“I Giochi olimpici sono reazionari”). Ricorda l’uso autocelebrativo delle olimpiadi fatto dalla Germania nazista nel 1936 e dalla Cina totalitaria nel 2008, denuncia le mille ipocrisie retoriche del Comitato olimpico e le enormi spese inutili per la costruzione di edifici giganteschi e mostruosi che violentano la forma storica delle città.
E’ difficile dubitare che nel secolo delle masse e della loro mobilitazione organizzata lo sport non facesse parte della tendenza generale. Ma mi sembra che il furore critico di Perelman si travasi con troppo ottimismo in un progetto di boicottaggio e di lotta politica allo sport. Ancora una volta, la tradizione culturale francese mostra di credere nei poteri sociali e politici dell’illuminismo e in quelli dell’intellettuale, poteri che certo in Francia sono tuttora maggiori che in quasi tutti i paesi del mondo. L’autore sembra ritenere che il passaggio dalla teoria critica alla prassi sia naturale, ovvio, lineare, diretto. Ma per Adorno e Horkheimer, molto citati e approvati nel libro, non era esattamente così. Alla domanda: “Se questa è l’analisi, che cosa proponete?”, i due filosofi avrebbero risposto che proponevano la loro analisi, cioè la comprensione delle cose, nient’altro. Per loro, questo non era poco. Con gli intellettuali e con la loro decisione di agire, Adorno era spietato. E’ stato lui a scrivere: “Comunque agisca, l’intellettuale sbaglia”. A partire da questo aforisma si potrebbe scrivere un altro libro.

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