Mia figlia, una piccola apocalisse,
Di Raffaele Alberto Ventura
Genitori moderni: intellettuale trentenne smette di inseguire i sogni di
gloria e decide di diventare padre. La carriera è a rischio, ma non c'è
da avere paura
Mano a mano che Dalia cresceva nel ventre di sua madre, le cose che fino ad allora mi erano sembrate importanti hanno iniziato a esserlo sempre meno. Finalmente! Finalmente un’occasione, un pretesto, una ragione solidissima per mandare tutto a fare in culo: i sogni di gloria fuori tempo massimo, i passatempi intellettuali spacciati per incarichi di massima importanza, le vane distrazioni per scampare al vuoto dell’esistenza, insomma l’intero edificio dei valori del nostro ceto medio disagiato. Molti di noi dividono la loro vita tra il lavoro “vero” e l’esercizio di una vocazione intellettuale, artistica, sportiva o imprenditoriale; ma cosa succede quando nelle nostre vite irrompe un evento che mette in crisi questo equilibrio precario? Ci costringe a mettere ordine tra le nostre priorità. Era questa una delle ragioni che mi aveva convinto a pianificare il grande passo, cioè a diventare padre: una certa intuizione che fosse giunto il momento di cacciarmi nei guai.
Dalia è nata con un po’ di anticipo, pesa meno di tre chili e non assomiglia assolutamente a un guaio. Come potrebbe? No, di fatto come tutti i bambini è un adorabile fagottino con le fattezze di Winston Churchill. Sua madre riposa in ospedale dopo una performance straordinaria mentre a me — perché è giusto spartirsi il lavoro — non resta altro che riflettere su come cambierà la nostra vita. Ah, già, e devo anche montare la culla. Chi è già stato genitore promette gioia sconfinata e tanta fatica, ma curiosamente il discorso resta sempre vago, a metà tra il biglietto d’auguri prestampato (“goditi questi momenti magici”) e la descrizione di un’esperienza allucinogena. All’osservatore ragionevole il mito della genitorialità sembra nascondere una realtà più prosaica, da compensare con un sovrappiù di pathos. Ideologia pura, certamente, ma in fondo cosa non lo è? Forse la nascita di Dalia segna l’inizio di un’allucinazione, va bene, ma è anche la fine di un’altra.
A maggio IL dedicava la sua cover story ai “genitori moderni” e Francesco Pacifico raccontava come, superati i trent’anni, uomini e donne (soprattutto le donne) subiscono fortissime pressioni sociali per spingerli a riprodursi. Eppure nella mia esperienza ho soprattutto subito fortissime pressioni per spingermi a non riprodurmi — non riprodurmi prima di essere maggiorenne, non riprodurmi prima di avere un lavoro, non riprodurmi nemmeno adesso che ho trentadue anni perché questo avrebbe impedito di realizzare le mie aspirazioni. Il verdetto era già scritto: avrei fatto la fine di Jude l’Oscuro, l’eroe tragico di Thomas Hardy che voleva fare carriera da letterato e muore in miseria dopo un paio di matrimoni sbagliati. Non che io tenessi particolarmente a diventare padre a sedici o ventisei anni, ma a un certo punto tutta questa insistenza ha iniziato a sembrarmi un po’ sospetta. Era davvero tanto importante quella vita che stavo proteggendo dalla minaccia di un figlio? Non avere figli ha sicuramente i suoi vantaggi — e d’altronde la nostra società di tutto ha bisogno tranne che di figli disperati di figli rovinati di borghesi rimbambiti — ma questo gesto di rimandare la riproduzione è rivelatore del modo in cui concepiamo il presente: come attesa di un improbabile futuro, spot pubblicitario per una vita che non esiste.
Continua qui.
da IL magazine http://24ilmagazine.ilsole24ore.com/2016/06/mia-figlia-piccola-apocalisse/
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