Abbiamo perso. Speravamo, temevamo, siamo stati a volte
incerti, a volte più convinti ma nessuno si aspettava un risultato così netto.
Due elettori su tre hanno scelto l’aborto. Hanno scelto di rimuovere ogni
protezione costituzionale del nascituro. Hanno rimosso, forse caso unico al
mondo, il diritto alla vita della madre e del suo figlio dalla sezione della
Costituzione che elenca i diritti fondamentali, per sostituirlo con una
licenza, a favore dei politici, di poter leggiferare sull’aborto, o come amano
dire usando un eufemismo ipocrita, leggiferare sull’interruzione di gravidanza.
Ma il parto termina una gravidanza, mentre l’aborto termina una vita. Questa
semplice verità è stata rigettata, chiaramente e perciò tremendamente, da un
Paese ora smarrito. I sondaggi ci davano in svantaggio ma i centinaia di
volontari che bussavano alle porte o facevano propaganda per le strade, ci
raccontavano di risposte incoraggianti. Nessuno, neppure i nostri oppositori,
aveva previsto un risultato così netto, che però in qualche modo mostra che
nessuna campagna avrebbe potuto cambiare un elettorato sostanzialmente
schierato. La trasformazione sociale è profonda e non è avvenuta nelle ultime
settimane e neppure negli ultimi mesi. È stato un lento ed inesorabile
adeguarsi della società irlandese alle pressioni di una cultura della morte che
ha dimensioni internazionali.
Per anni, i mezzi di comunicazione hanno corroso i
tradizionali valori irlandesi con storie penose, casi estremi. Per anni,
l’Ottavo Emendamento è stato presentato come la causa di tanti mali. La crisi
che ha colpito la Chiesa cattolica locale ha sicuramente contribuito a minare
l’autorevolezza morale dei vescovi e delle organizzazioni cattoliche ma quello
che ha contato più di tutto è una cultura diffusa che si appella ad una
concezione egoista dello scegliere, per cui una gravidanza non desiderata deve
essere rigettata in nome della scelta e dell’autodeterminazione. A questo poi
si sono aggiunti l’ostilità della classe polica ed in particolare di quanti erano
prolife prima delle elezioni e poi hanno tradito, corrotti dal desiderio di
potere ma anche dalle multinazionali del business abortista.
Il fronte del NO non ha nulla da rimproverarsi. Non sono
stati fatti grandi errori. Le due maggiori organizzazioni prolife hanno avuto
stili diversi, sperando di convincere settori differenti della
popolazione. “Love both” (ama entrambi) è
stata una campagna più pacata, incentrata su storie positive, mentre “Save the
8th” (salva l’ottavo) ha usato toni più polemici, slogan diretti. Ma c’era poco
da fare. È impossibile combattere con un’inesorabile e continua disinformazione
che per anni, decenni, ha corroso un popolo una volta cristiano. Nel 1983,
quando l’Ottavo Emendamento fu introdotto, già un terzo degli elettori si oppose.
Oggi la proporzione tra le due parti è la stessa ma ribaltata. Un terzo dei
votanti è passato da prolife a prochoice. Un terzo di votanti che corrisponde a
circa il 20% della popolazione adulta. Si tratta di uno spostamento non
radicale, se consideriamo che sono passati 35 anni, ma, nonostante questo,
significativo. Significativo non solo per il risultato referendario ma anche
per le consequenze a lunga durata, perché sappiamo che questo andamento non si
invertirà presto. Ora ci aspetta,
subito, una nuova battaglia su eutanasia e suicidio assistito, poichè il
desiderio di morte non si sazia mai.
Prima del referendum il ministro della Sanità, Simon Harris,
aveva presentato una proposta di legge che prevedeva l’aborto su richiesta fino
a 12 settimane e in caso di pericolo per la salute fisica o psichica della
madre fino a sei mesi. A questa proposta, già di per sè terribile, ora pare che
verranno aggiungiunti nuovi dettagli ancora più restrittivi per chi non la
condivide. Ad esempio, il ministro vuole vietare assembramenti pubblici intorno
agli ospedali, impedendo così un lavoro di dissuasione e di offerta di
alternative a chi ha deciso di abortire. Un altro fronte in cui il ministro,
forte del risultato, sta minando la posizione prolife riguarda l’obiezione di
coscienza. Sarebbe prevista solo per i singoli, e non per le instituzioni, e
obbligherebbe i medici di base a contribuire indirettamente all’aborto che non
condividono, tramite il dovere di scrivere lettere di referenza. Se l’obiezione
non dovessere essere estesa alle istituzioni, ci ritroveremo che gli ospedali
cattolici, ad esempio, non potranno esimersi dall’offrire aborti se c’è qualche
dottore pronto a praticarli. Il fronte politico prolife, che non è concentrato
in un solo partito ma, invece, lavora come gruppo trasversale, è risultato
decisamente indebolito dal risultato referendario e quindi le prospettive di fare
approvare emendamenti a noi più favorevoli, sono molto limitate.
Cosa attende le organizzazioni prolife? Oltre alla battaglia
politica, c’è da continuare quella culturale, in termini di informazione e
formazione delle coscienze. Ci sarà da ampliare la rete di agenzie di supporto
e counselling, offrendo anche aiuto pratico a chi è tentato di abortire. C’è
anche da fare pressione perchè migliori la cura prenatale e postnatale,
particolarmente per le gravidanze che hanno ricevuto una diagnosi di anomalia
cromosomica letale. Le organizzazioni prolife irlandesi dovranno superare le
divisioni del passato e continuare a lavorare insieme, anche se non
necessariamente in un’unica formazione.
Non siamo riusciti a salvare l’Ottavo Emendamento ma almeno
ci siamo salvati l’anima, facendo quello che era giusto. Non avremo morti sulla
coscienza e non ci piegheremo alle pressioni sociali. Abbiamo perso, sì, ma
abbiamo perso tutti perché la rimozione di un diritto fondamentale dalla
Costituzione non può essere mai una vittoria.
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