In Italia il nome di Alasdair MacIntyre, al di là della cerchia degli addetti ai lavori, non dice granché; ma in America, almeno a partire da “After virtue”, il testo del 1981 in cui espone la sua riflessione sulla situazione dell’etica nei tempi moderni, le sue tesi sono una delle pietre d’inciampo con cui tutta la filosofia morale non può fare a meno di fare i conti. Il saggio di Sante Maletta, docente all’Università della Calabria, è un’occasione per riscoprire anche nel nostro paese una delle voci più interessanti, e meno facilmente classificabili, del dibattito attuale.
Nato a Glasgow nel 1929, MacIntyre si forma a contatto con la filosofia analitica inglese, che tende a ridurre ogni discorso morale a semplice esternazione di preferenze dei singoli. Sul finire degli anni Quaranta aderisce al partito comunista inglese, quindi, con la delusione dello stalinismo sovietico, transita alla New left e ai gruppi trotzkisti. Accompagna questi passaggi con una riflessione sul marxismo che proseguirà anche quando ne abbandonerà il progetto, nel tentativo di estrarre dal guscio ideologico – che ha sempre condannato senza appello – il nucleo umanistico, il riconoscimento cioè della condizione di alienazione che gli individui soffrono nella società industriale e la necessità di battersi per rimettere a tema quale sia il bene intero delle persone. Su questa strada, MacIntyre incontra il vecchio Aristotele e la sua “phronesis”, l’idea di una saggezza pratica che non discende da un sapere universale, ma emerge dalla riflessione su modelli concreti all’interno di comunità determinate. E’ questo il nucleo dell’opus magnum macintyriano, “Dopo la virtù”. “La” virtù oltre cui ci troviamo è quella sognata dal razionalismo illuminista, che ha immaginato di poter costruire un sistema etico universalmente valido fondato su un’idea di uomo astratta; pretesa definitivamente distrutta da Nietzsche, che ha aperto la via al totale soggettivismo etico che si è imposto nel Novecento. Parallelamente è stata consegnata al sistema giuridico – in ultima analisi allo stato – l’ultima parola quando si tratta di dirimere contese tra desideri/diritti che entrano in conflitto, e il singolo è stato messo in condizione di “parlare e agire solo come cliente più o meno istruito e obbediente di qualcuno la cui competenza professionale gli ha dato ufficialmente il permesso di parlare come richiesto”. In realtà, osserva MacIntyre, “le” virtù non dipendono da universali astratti, ma si apprendono e hanno significato nella pratica di comunità umane in cui trovano la verifica della loro bontà; in maniera non dissimile da quel che accade nel mondo della scienza, dove paradigmi rivali di ricerca coesistono, fino a che uno non riesce a dar ragione meglio di altri dei dati dell’esperienza.
Negli anni seguenti, MacIntyre passa da Aristotele a Tommaso, e approda alla fede cattolica. Nelle opere successive approfondisce tra l’altro la critica al liberalismo, separandone l’aspetto giuridico-politico, che approva, da quello morale, che si identifica in sostanza con un relativismo pregiudiziale: “Pur proclamando con enfasi retorica l’importanza della dialettica tra opinioni, in realtà ha scarsa fiducia nella possibilità che il dibattito possa produrre un accordo razionale”, e non può che appellarsi, in ultima istanza, alla “retorica sui valori condivisi”. Il paradosso del liberalismo, in altri termini, sta nel fatto che ha il suo fondamento in valori che non è in grado di produrre da sé, ma che riceve da comunità umane che lo precedono e che esso tende viceversa a eliminare: la rinascita di comunità in cui porre razionalmente la questione del bene umano è la condizione anche della sopravvivenza di una politica liberale.
domenica, agosto 30, 2009
"Biografia della ragione - Saggio sulla filosofia politica di MacIntyre" di Sante Maletta
"Biografia della ragione - Saggio sulla filosofia politica di MacIntyre" di Sante Maletta: "
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