di Claudio Mutti
Nel dicembre del 2004 Massimo Jevolella incontrò a Granada, nel Patio de los Leones dell’Alhambra, un enigmatico visitatore scozzese che colpì la sua attenzione in maniera particolare. Dalla descrizione che ce ne viene fornita in questo libro (pp. 47-48) possiamo esser certi che quel “fantasma benigno e discreto”, di cui Jevolella ignora l’identità, altri non era che lo shaykh ‘Abdalqadir as-Sufi, il medesimo che nel dicembre di una decina d’anni prima, a Weimar, aveva emesso un documentato parere giuridico, una fatwa, che riconosceva a Johann Wolfgang von Goethe la qualità di musulmano. Se Jevolella fosse stato a conoscenza di ciò, avrebbe potuto arricchire di qualche altro elemento interessante la sua indagine sulle “radici islamiche dell’Europa”, dove l’autore del Mahomets-Gesang e del West-östlicher Divan viene indicato assieme a Thomas Carlyle come colui che ha “troncato di netto l’antica catena del disprezzo occidentale verso Maometto e l’Islàm, capovolgendo l’odio in ammirazione profonda” (p. 36).
Dopo il Tedesco e l’Inglese fu uno Spagnolo, don Miguel Asìn Palacios (1871-1944) a fondare filologicamente, col suo studio su La escatologìa musulmana en la Divina Comedia, la tesi secondo cui “la civiltà e la cultura dell’Europa cristiana avevano legami organici e profondi non solo con le radici giudaiche e greco-latine, ma anche con il mondo islamico, e, attraverso l’Islàm, con il mondo iranico e con il lontano Oriente” (p. 37). Tra i diversi centri di cultura in cui tali legami vennero allacciati e coltivati, “il centro più attivo della scienza euro-asiatica era un piccola città della Persia vicina ai confini dell’odierno Iraq” (p. 92), la città di Giundishapur, dove “si traducevano dal greco in lingua siriaca le opere di Ippocrate e di Galeno, di Euclide e di Archimede, di Platone e di Aristotele, di Apollonio e di Tolomeo. Si assorbivano elementi della scienza indiana e persiana” (ibidem). Viene dunque giustamente respinta dall’Autore la tesi della “rottura dell’unità mediterranea”, secondo la quale l’Europa moderna avrebbe tratto origine dalla netta contrapposizione fra Occidente cristiano e Occidente islamico. “Contrariamente alla famosa tesi di Henri Pirenne – scrive Maurice Lombard, che viene qui citato da Jevolella – noi pensiamo che proprio mediante la conquista musulmana l’Occidente abbia ripreso contatto con le civiltà orientali, e, attraverso queste, con i grandi movimenti mondiali del commercio e della cultura” (p. 43).
È certamente la patria di Asìn Palacios la regione d’Europa in cui le “radici islamiche dell’Europa” appaiono più evidenti, sicché Jevolella può indugiare a suo piacimento nella rievocazione di quello che per il Nietzsche di Der Antichrist era “il meraviglioso mondo della civiltà moresca (…) debitore della sua nascita a istinti nobili e virili”. A tale proposito, sarà sufficiente riportare questo breve passo: “Mentre per le vie di Parigi e di Londra si camminava nel fango, e di notte nel buio più pesto, Còrdoba aveva già le strade lastricate e illuminate da lampade a olio. La fama di questa città magnifica e potente era tale da giungere perfino alle orecchie di una monaca che nella seconda metà del X secolo viveva rinchiusa nella remota abbazia di Gandersheim, in Sassonia; la religiosa, che si chiamava Hrotswitha (Rosvita) ed era una grande poetessa, definiva Còrdoba ‘l’ornamento del mondo’. Del resto, quando nell’anno 956 l’imperatore tedesco Ottone I inviò una missione diplomatica alla corte di ‘Abd al-Rahman III, l’ambasciatore riferì in una sua memoria il senso di profondo stupore che aveva provato nel venire a contatto con una civiltà così raffinata, e così vistosamente superiore a quella della Germania di allora” (p. 51).
Se nella geografia dell’Europa musulmana Còrdoba era “l’ornamento del mondo”, Palermo “era davvero la città magnifica, ricca di palazzi e moschee, giardini e mercati, (…) una delle più prospere del Mediterraneo” (p. 77). D’altronde lo spettacolo della Sicilia musulmana, del cui splendore testimoniano le descrizioni entusiastiche dei poeti e dei viaggiatori citati da Jevolella, non può non richiamare quello della Spagna moresca. “Sorgenti, canali, palme, aranci… Come rapidamente il pensiero corre di nuovo all’incanto della Alhambra, dove sono proprio le piscine e i ruscelletti artificiali a dialogare con gli arabeschi dei chiostri e con le lievi forme delle colonne e degli archi. Come se questa civiltà islamica di Sicilia e d’Andalusia avesse voluto lasciare in eredità al mondo un sogno di freschezza e di levità gioiosa, così lontano dall’idea comune che noi abbiamo dell’epoca medievale” (pp. 80-81).
Legate entrambe alla medesima matrice islamica, l’Andalusia e la Sicilia passarono la fiaccola all’Europa medioevale e rinascimentale; e fra quelli che sono stati definiti i “più rappresentativi cursores in questa lampadodromia della civiltà” (1) spicca la figura gigantesca di Federico II, uno di quei “sultani battezzati di Sicilia, a’ quali l’Italia dee non piccola parte dell’incivilimento suo” (2). Sia per il tramite dell’eredità arabo-normanna, sia attraverso l’intenso e continuo rapporto intrattenuto personalmente col mondo musulmano, lo spirito del grande Svevo fu fecondato dall’influenza culturale islamica. “Ne sono la prova – si legge in un altro libro che getta luce sulle “radici islamiche dell’Europa” – gl’innumerevoli edifici dei quali Federico II disseminò il suo regno di Sicilia. (…) Come molti Francesi e Inglesi che hanno soggiornato in Oriente, l’Imperatore Federico II si ispira a concezioni architettoniche arabe per edificare i suoi castelli (…) Lo stile architettonico adottato da Federico per l’edificazione dei suoi castelli nell’Italia meridionale conquista l’Italia del Nord, poi la Germania, per conoscere infine una nuova e magnifica fioritura nella costruzione dei castelli dell’Ordine prussiani” (3). Ma l’influenza islamica nell’architettura europea non è visibile solo nelle Ordensburgen, non termina con il Medioevo e non è limitata al continente. “I minareti hanno influenzato la forma dei campanili del Rinascimento italiano, così come, d’altra parte, la forma degli splendidi campanili del grande architetto inglese Wren, il quale, prendendo esempio dai musulmani e dagli italiani, seppe giocare sul contrasto di torri e cupole. Anche le nicchie rinascimentali a forma di conchiglia riproducono quelle presenti nelle moschee e nei minareti dell’Islam” (4).
Una rassegna dei settori della cultura nei quali l’Islam ha consegnato all’Europa il proprio sapere ci porterebbe a parlare non solo di architettura, ma anche di filosofia, di letteratura, di musica, di matematica, di astronomia, di medicina, di altre scienze e delle cosiddette arti minori (5). Scopriremmo allora, come ci avverte Massimo Jevolella, “che anche l’Islàm fa parte delle nostre più profonde radici” (p. 23), poiché esso “ha giocato un ruolo essenziale e profondo nello sviluppo della cultura europea” (ibidem).
Massimo Jevolella, Le radici islamiche dell’Europa, Boroli, Milano 2005
(da “Eurasia” 2/2007)
1. Francesco Gabrieli, Federico II e la cultura musulmana, in Atti del Convegno Internazionale di Studi Federiciani, Palermo 1952, p. 445.
2. Michele Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, 2° ed. modificata ed accresciuta dall’autore, Prampolini, Catania 1933-1939, vol. III, p. 372.
3. Sigrid Hunke, Allahs Sonne über dem Abendland. Unser Arabisches Erbe, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart 1970, pp. 253-256.
4. Sigrid Hunke, op. cit., p. 294.
5. Oltre che nell’opera di Sigrid Hunke citata più sopra, una sintetica rassegna del debito culturale europeo nei confronti dell’Islam si può trovare in: AA. VV., L’eredità dell’Islam, a cura di Thomas Arnold e Alfred Guillaume, Vallardi, Milano 1962. Per quanto in particolare concerne il lascito culturale andaluso, si veda Juan Vernet, Ce que la culture doit aux Arabes d’Espagne, Sindbad, Paris 1985.
"
Nessun commento:
Posta un commento