IL DENARO NEL MEDIOEVO E LE PREMESSE DELLA MODERNITA’
(Videoconferenza in data sabato 17.11.2018 in occasione dell’incontro tenutosi in Palazzo Mazzola, sede dell’Archivio Storico del Comune di Asti, in memoria e in onore di Renato Bordone: Asti in Europa. Il racconto dei mercanti astesi tra storia del credito e storia della città)
Ich schaffe, was ihr wollt, und schaffe mehr (Goethe, Faust, II, 4, v 4927)
Alla memoria di Renato Bordone
Signore e Signori, cari Colleghi,
nel ringraziarVi per l’immeritato onore che mi conduce a rivolgermi adesso a Voi, e nello scusarmi per la forma involontariamente disagiata in cui sono obbligato a farlo, comincio con il dichiarare esplicitamente il Vostro e il mio disincanto. Mi trovo, infatti, nella paradossale condizione di chi, incompetente, si rivolge a un pubblico di competenti, tra i quali anche alcuni Maestri, per esporre problemi e considerazioni suggeritigli in grandissima parte dalla lettura dei loro scritti. So bene che stasera il mio parlar da “fiorentino” a dei “lombardi” – nel senso storico-economico del termine – equivale a un portar vasi a Samo e nottole in Atene. Ma la cortesia dell’invito, il mio desiderio vivissimo di attestare ancora una volta l’ammirazione per l’indimenticabile Renato Bordone e la fraterna amicizia che a lui mi legava mi hanno indotto a porre da canto un pudore che sarebbe stato doveroso e ad accettare un forse troppo impegnativo invito.
Comincio quindi ringraziando non solo i presenti, ma in generale gli studiosi nei confronti dei quali tutti noi abbiamo contratto un immenso debito e che, nella loro gran maggioranza, sono peraltro in vario modo collegati al Centro Studi sui Lombardi, sul Credito e sulla Banca. Dal momento che alcuni di loro sono presenti, ad evitare involontarie omissioni non li menzionerò per nome, salvo alcuni ai quali dovrò direttamente riferirmi nel corso della mia esposizione. Mi limito a un “grazie” collettivo. Un esplicito e riconoscente pensiero vorrei, tuttavia, rivolgere a cinque Maestri che non sono più fra noi, che ho avuto l’immeritato privilegio di frequentare e che benemeriti sono stati nel campo di studi che qui c’interessa adesso e non solo in quello. Roberto Sabatino Lopez, Federigo Melis, Jacques Le Goff e Ovidio Capitani, ai quali vorrei associare un altro fraterno amico al pari di Bordone immaturamente scomparso, Marco Tangheroni.
All’inizio del secondo atto della pucciniana Turandot, uno dei tre consiglieri imperiali (i più aderenti fra tutti i personaggi dell’opera all’ispirazione gozziana della “Commedia dell’Arte”) parla di certe “monete di carta dorate”, elemento indispensabile del décor festivo cinese tradizionale al pari delle lanterne rosse. L’allusione, in apparenza tra il folklorico e il fantastico, è sul piano storico più pertinente di quanto non possa sembrare. Ce lo conferma uno dei capolavori fondamentali della letteratura europea, il Faustdi Wolfgang Goethe. Nel primo atto della “Seconda Parte” del grande poema, edita fra 1827 e 1828, la scena dedicata al “Giardino di Svago” (Lustgarten) ci presenta i prodigiosi effetti della cartamoneta approntata dal dèmone Mefistofele e, almeno in apparenza, atta a risolvere tutti i problemi finanziari di un imperatore che ha tutta l’aria di un monarca asburgico. Si tratta di una moneta “a corso legale”, che i sudditi accettano sulla fiducia dovuta al loro sovrano. Fiducia: questa è forse la parola-chiave fondamentale dell’oggetto del nostro discorso.[1]
Ma è, nel contesto goethiano, una fiducia mal riposta. In esso si denunzia, con l’alibi della satira, quell’esperimento introdotto nell’economia moderna dal banchiere scozzese John Law nel 1716, durante la “reggenza” del regno di Francia: ma appena quattro anni dopo, nel 1720, drammaticamente fallito. Il poeta di Weimar, che aveva conosciuto gli “assegnati” circolanti nell’Europa della Rivoluzione e dell’impero napoleonico senza nutrire in essi la minima fiducia, attribuiva, nel suo capolavoro, al diavolo Mefistofele l’invenzione di quella moneta cartacea che si poteva moltiplicare arbitrariamente sino all’infinito e produceva illusori prodigi quali quello di far scomparire provvisoriamente i debiti. Eppure non c’è dubbio che il naufragio dell’esperimento del Law facesse pur parte degli esiti di un evento fondante della Modernità: l’apertura, fin dal 1609, della Borsa di Amsterdam.
D’altronde, il fatto che il coprotagonista della scena goethiana fosse un sia pur imprecisato “imperatore” ci aiuta a individuare un “precedente” che l’aveva ispirata e che era testimoniato in un testo di un buon mezzo millennio precedente: nel quale agiva un altro imperatore, non asburgico ma sino-mongolo, il Gran Khan Qublai della dinastia Yuan del quale ci parla il Milione. Eppure, il veneziano Marco Polo, visitando la Cina del suo tempo nella quale esisteva una gran varietà di oggetti usati come monete – dal sale alla porcellana alle conchiglie – non mostrava soverchia sorpresa dinanzi alla circolazione di carte accettate con fiducia nel corso di compravendite.[2]Ci troviamo qui dinanzi a uno dei tanti “corti circuiti” della storia: un pezzo di carta, magari munito di firme e di sigilli, non appare né strano né pericoloso a un europeo due-trecentesco abituato alle “lettere di cambio”, mentre si mostra carico di rischi e di minacce per un europeo del Sette-Ottocento. Possiamo trarre dal confronto di questi due remoti episodi qualche considerazione utile per i tempi nostri?
Veniamo, dunque, al denaro nonché nelle sue varie forme e funzioni durante il lungo periodo che, sia pure tra ricorrenti perplessità, abbiamo convenuto di definir “medioevo”: senza dimenticare che, come ben ha scritto Paolo Evangelisti, è necessario mantener sempre chiara «la differenza che sussiste tra ciò che il denaro è come oggetto fisico e ciò che la moneta rappresenta come istituzione e mediazione valoriale».[3]
Oggetto, istituzione e mediazione che si presentano peraltro strettamente uniti sul piano simbolico. La moneta è notoriamente mezzo di scambio, misura di valore e riserva di ricchezza. Ciò è espresso, per quanto riguarda i pezzi metallici a corso evidentemente reale e fondati sul bimetallismo aureo-argenteo (il che ha già di per sé un denso valore simbolico), dall’irreprensibile formula di Isidoro di Siviglia: «In numismate tria quaerentur: metallum, figura et pondus».[4]Nelle monete medievali noi costantemente troviamo sul “dritto” (ma talvolta invece sul “rovescio”) una figura che rimanda a un elemento sacro – divino o santorale che sia –; sul “rovescio” (o viceversa) un’immagine allusiva al potere che emette e legittima il pezzo. Se a ciò aggiungiamo la qualità del metallo coniato, abbiamo una perfetta presentazione di quella dottrina trifunzionale che, significativamente, fu enunziata in quello che allora era il cuore della Cristianità latina, il “paese dei Franchi”, da alcuni vescovi nello snodo tra X e XI secolo: e secondo la quale la società si distingueva nei tre ordines degli oratores (il clero), dei bellatores (le aristocrazie laiche alle quali competeva il governare e il mantenere con le armi la giustizia e la pace) e dei laboratores, chiamati a mantenere con la loro operosità sé stessi e gli altri. Ma, se la concreta sostanza del denaro era il metallo prezioso in quanto soggetto, frutto e garanzia del lavoro che materialmente sosteneva la società, nella storia di longue durée della moneta si presenta un inquietante paradosso. Pensiamo alla nostra ancora corrente espressione “testa o croce”, che come sappiamo evoca l’immagine della monetina metallica lanciata in aria e della “fortuna” (un altro key word nella storia del denaro) che presiede all’esito del rito. Se la “croce” rimanda ancor oggi agli oratores, la “testa” ai bellatores e ai rispettivi sistemi di valori, il prezioso intrinseco del quale la moneta metallica “a corso reale” era costituita, in quella “a corso legale” (peraltro ormai quasi esclusivamente cartacea) non c’è più. Eppure, il mondo moderno – e a fortiori quello contemporaneo, nel quale il denaro è una potenza così forte e diffusa (salvo il costante rischio della sua vanificazione, dai processi di svalutazione fino alle innovazioni che giungono al “denaro virtuale” come il bit coin) – è dominato dall’economia e dalla finanza, vale a dire dagli eredi di élites nate all’interno di quell’ordo ampio e indifferenziato (ma costituito soprattutto da subalterni piegati al lavoro dei campi, dei boschi e delle brughiere), che Adalberone di Laon e Gerardo di Cambrai avevano definito laboratores. Sappiamo che fra X e XVIII secolo quel “Terzo Stato” si era progressivamente articolato e differenziato; e che alla fine del Settecento la élite dei suoi rappresentanti pretese “uguaglianza” rispetto agli altri due mentre, però, all’interno di esso, si allargava progressivamente la forbice della disuguaglianza.
Ora, a differenza di quanto anche in un passato recente avveniva, oggi, dalla rappresentazione tradizionale della moneta, lo statuto simbolico degli eredi delle élites del “Terzo Stato”, di coloro cioè che attualmente sono sul serio i “patroni del mondo” è assente. Quello della globalizzazione attuale, quello dei Soros e dei signori che ogni anno si riuniscono a Davos, è un mondo nel quale le élites dirigenti effettive appaiono refrattarie alla rappresentazione simbolica, che continua semmai a interessare i loro “comitati d’affari” politici e mediatici. Il nostro è un mondo nel quale il cielo è vuoto e i veri padroni non hanno volto, sono dei “Superiori Sconosciuti”.
Se riteniamo questo panorama proprio dell’attuale fase della cosiddetta “globalizzazione”, ed essa a sua volta processo di lungo periodo presentatosi magari a già maturo livello con quella che nella convenzione del racconto storico definiamo “età moderna”, ci rendiamo conto che essa è l’esito attuale della Modernità.
Naturalmente, “età moderna” e “Modernità” non sono sinonimi. Con questo secondo termine intendiamo – e qui gioco a carte scoperte: Fromm, Rifkin, Stiglitz, Chomsky, Bauman – il processo e la dimensione del sia pur problematico affermarsi dell’individualismo, del processo di secolarizzazione e del primato mondiale di economia, finanza e tecnologia su altre dimensioni dell’essere e dell’agire umano (principalmente della politica). Se ciò è plausibile, bisogna dedurne che la Modernità è sorta ben prima dell’età moderna e trova alcuni dei suoi presupposti proprio nel “nostro” medioevo. Torna qui il buon Marco Polo, che non si stupiva affatto dell’uso cinese della cartamoneta perché a casa sua era uso a “lettere di cambio” e a documenti contabili e perché viveva negli anni stessi in cui l’innovazione che Leonardo Fibonacci pisano aveva desunto dagli arabi, as-Sifr, “lo zero”, stava rivoluzionando la matematica ma anche la contabilità e quindi il mondo del credito e degli affari dell’Occidente. Quella Modernità che appariva ancora assurda e sospetta a Goethe, il mercante veneziano l’aveva a portata di mano, quasi sulla punta delle dita.
Torniamo allora alla dinamicità economico-finanziaria del nostro medioevo: e sappiamo bene quanto essa debba a una pluralità di sperimentazioni anche spregiudicate, a un insieme di periodi caratterizzati da un elemento comune di frammentazione. A dirla con le parole di Renato Bordone e di Giuseppe Sergi, «il lungo medioevo non è da considerare come età compatta ‘di mezzo’ ma come insieme di età con meccanismi loro propri e irripetibili».[5]
Nessun cedimento, quindi, da parte mia, a tesi “continuiste” di sorta: anzi, al contrario, la massima cura – quantomeno nelle intenzioni – nel sottolineare le discontinuità, le rotture, i caratteri imprevedibili, le accelerazioni e i ristagni, magari (senza voler rinverdire qui vecchie polemiche) l’unicità dell’“evento” e il suo carattere di “emergenza” rispetto a strutture di medio e di lungo periodo, fino al recupero dell’“imponderabile” di paretiana memoria. Non mi sogno nemmeno di tentare, in pochi minuti, un’esquisse générale de l’histoire de l’argent au moyen-âge. Provo semplicemente, senza velleità alcuna di completezza, a richiamare alcuni dati di fondo. Anzitutto il fatto che la riflessione storica, filosofica e filologica più matura e aggiornata ha, ormai, fatto giustizia del vecchio luogo comune – peraltro ancor oggi duro a morire – della preconcetta e sostanzialmente insuperabile ostilità della fede cristiana (se non di tutte le sue istituzioni storiche) rispetto al denaro. Sappiamo bene su quali passi scritturali e soprattutto evangelici essa si fondi e con quanta forza (non priva peraltro di ragioni) abbia sfidato i secoli: anche a causa delle posizioni assunte al riguardo da Francesco d’Assisi. Ma sappiamo altresì che il pensiero teologico e giuridico cristiano, sia pure in mezzo e incertezze e a tensioni, ha sostenuto l’affermarsi dell’importanza del denaro, del credito e dello stesso profitto nonché delle istituzioni spesso innovative che ne hanno accompagnato lo sviluppo: e ciò sin dalle ferme posizioni di Clemente Alessandrino sulla funzione sociale della ricchezza e sulla “vera povertà” per il cristiano non già nel vivere da mendico bensì nel possedere con discrezione e con spirito di carità a vantaggio e al servizio dei fratelli; quindi da Ambrogio e da Agostino con le loro tesi sullo scambio economico in quanto caritas e sull’uso del denaro come dono, sul modello della primitiva Chiesa di Gerusalemme dove tutti i beni erano in comune e ciascuno riceveva secondo i suoi bisogni;[6]per giungere all’immagine del Cristo come vero mercator e alla metafora della Redenzione come negozio mercantile per eccellenza, sacrum commercium. Su questa linea e in analoga prospettiva più tardi, nell’XI secolo, speciale rilievo avrebbero avuto il Decretum di Graziano, l’attività di quello straordinario gestore e tutore dei beni ecclesiastici che fu l’avellanita Pier Damiani e il pensiero di Anselmo da Lucca che, nel 1083, conferì «contenuto legale e fondamento teorico a un diritto di possesso di beni mobili» e «di mezzi finanziari»[7]atti all’organizzazione, alla vita funzionale, alla necessità della Chiesa nella prospettiva – rigorosamente ispirata ad Agostino – di un “fisco del Cristo”, una vera e propria “borsa del Signore”. Da qui la rigorosa difesa, da parte dei riformatori ecclesiastici del secolo XI, dei beni della Chiesa in quanto patrimonio dei pauperes Dei. E il dibattito sarebbe continuato con varie e spesso discordanti voci attraverso le Sententiae di Pietro Lombardo sino alla scolastica e quindi nelle rigorose, appassionate discussioni sul iustum pretium, sul bonum commune, sulla liceità del giusto profitto e sull’usura (Alberto magno, Tommaso d’Aquino) fino al pensiero economico degli “osservanti” degli Ordini mendicanti e dei primi umanisti.[8]In questo contesto, le ricerche di Giacomo Todeschini e dei suoi allievi, collaboratori e interlocutori[9]hanno mostrato – specie attraverso lo studio delle Regulae monastiche – come il linguaggio economico della previdenza e dello scambio sia stato fondamentale nell’approfondimento del mistero della salvezza realizzata dal Cristo come valore, pregio, quindi prezzo/preziosità (fino all’adorazione del “Preziosissimo Sangue del Signore”). Al Todeschini va anche il merito di aver chiarito con una sua impegnata serie di studi – insieme con quelli di Roberto Lambertini, di Maria Giuseppina Muzzarelli e di altri – come il celebre divieto di maneggiar danaro imposto ai frati minori dalla Regula bullata del 1223 e da altri testi francescani vada, tuttavia, reinterpretato, proprio alla luce degli scritti di “spirituali” come Pietro di Giovanni Olivi e di “osservanti” come Bernardino da Siena, ai quali va aggiunta almeno la menzione del catalano Francesc Eixemenis, studiato in un bel libro di Paolo Evangelisti, fino a dimostrare la legittimità di un “uso povero” dei beni e del “circolo virtuoso” (l’espressione è, appunto, del Todeschini) che nel nome della caritas e del servizio ai poveri si stabilisce tra denaro, commercio, profitto e speranza di salvezza per quanti mettendolo a frutto fanno “vivere” il denaro (pecunia lucrosa versus pecunia mortua): e qui proprio un tema per eccellenza legoffiano, il purgatorio, ha un suo ruolo primario. A questo livello il grande tema teologico già protocristiano e patristico dell’economia della salvezza s’incontra con quello della salvezza attraverso la corretta economia.
Ciò sia detto senza, con ciò, mai perdere il senso dell’ambiguità e quindi la polarità di sentimenti e di atteggiamenti che ai primi del Trecento avrebbero indotto per esempio Dante a definire la moneta aurea della sua città ora con rispetto e reverenza «la lega suggellata del Battista»[10]– con ciò ribadendo che i falsari erano colpevoli del crimen maiestatis e meritevoli del rogo al pari degli eretici – e ora, viceversa, «il maladetto fiore»[11]colpevole di aver addirittura corrotto il soglio di Pietro. Il denaro poteva senza dubbio restare “sterco del demonio”.
D’altronde, e anche ciò è ben noto, gli snodi e addirittura le “svolte” nella storia del denaro sono tutt’altro che casuali. A presiedere sia pur imperfettamente da essa v’è sempre un elemento ben determinato, giusto o no, corretto o criminale che fosse: la volontà politica, l’esercizio del potere, che gestiscono il difficile rapporto tra circolazione monetaria, sicurezza, informazione e fiscalità dominando e regolando – sia pur non sempre in modo felice – anche quello che in genere con superficialità si denomina “il libero gioco della domanda e dell’offerta” con le sue sistole e le sue diastole, le sue fasi d’inflazione e di deflazione, d’incremento e di ristagno..
Ciò si riscontra con evidenza in alcuni grandi momenti della storia monetaria, fiscale ed economica medievale: e già da prima, fin dalla riforma del denarius argenteus da parte di Aureliano, nel terzo quarto del III secolo, che insieme con le vittorie sul limessudorientale salvò il potere d’acquisto dei salari dell’esercito e con esso la stabilità sociale dell’impero; oppure, dopo lunghi secoli di frammentazione del diritto di batter moneta nonché d’incertezza e di frammentazione monetaria, la riforma carolingia con la sanzione del diritto di conio come fatto pubblico, con la scelta del monometallismo argenteo che avrebbe retto in Occidente per oltre quattro secoli e la creazione di un sistema di “denaro di conto” che nelle sue linee di fondo avrebbe retto, adattandosi a mutamenti sostanziali, fin addentro al XX secolo. Ma è soprattutto nella vera e propria plaque tournante del mondo medievale, il grande XII secolo delle cattedrali, delle università e del rinnovamento attraverso il Mediterraneo e la penisola iberica dei rapporti tra Europa e Islam che noi vediamo sorgere, si può dire insieme, le societates ad partem lucri con il sistema della “commenda” e la proporzionale ripartizione di utili e di perdite tra i soci e, grazie alla lungimiranza dei conti che ne erano i domini loci, la nascita di quel mirabile sistema di mercato permanente regionale che furono le “fiere di Champagne” con i loro turni che duravano nel loro complesso l’arco dell’intero anno e che ponevano in rapporto, lungo un asse nordovest-sudest parallelo a quello dei pellegrinaggi tra Santiago de Compostela e Gerusalemme, le aree produttive e mercantili dell’Europa settentrionali gravitanti sulla Fiandra e quindi sul mondo anseatico e baltico con quelle mediterranee tra Italia settentrionale, Italia meridionale, Provenza e Catalogna fino a Bisanzio, alla Siria, al Libano, all’Egitto, all’Africa. Allora, la circolazione di merci e di denaro ma soprattutto d’uomini e d’informazioni si tradusse in importanti novità anche sul piano delle tecniche mercantili e finanziarie – ne sono testimoni le vicende dei cambi monetari, fondamentali nella nascita delle banche – coinvolgendo le strade, le rotte, le città e i porti e determinandone l’ampiamento e la dinamica produttiva fino all’attività mediatrice degli stessi Ordini militari, il Mediterraneo cambiò allora volto mentre, per usar la bella espressione di Roberto Sabatino Lopez, «l’Occidente tornava alla coniazione aurea» (anche approfittando di un temporaneo ribasso del costo dell’oro, soprattutto di quello africano “di pagliola”, in polvere. Al riguardo, uno dei pochi argomenti sui quali mi sono permesso di trovarmi in dissenso col mio amato Maestro Jacques le Goff era il movimento crociato. Mi sembra che il grande studioso francese si limitasse sulle crociate a un giudizio di carattere politico-militare, singolarmente restrittivo – strano in lui, così amante degli orizzonti aperti – e incline a non valutare in modo a mio avviso adeguato una serie di novità con esse o a seguito di esse introdotte. A parte quelle sul piano propriamente giuridico e canonistico, o quelle che riguardarono la letteratura, l’arte, l’informazione geopolitica, la stessa propaganda missionaria e insomma i rapporti con l’Oriente in senso generale, basti pensare per quanto qui ci riguarda al significato rivoluzionario sul piano tanto fiscale e finanziario quanto su quello istituzionale e territoriale del sistema delle decime istituito da Gregorio X; oppure al ruolo primario che nel Duecento fu assunto dall’ultima capitale del regno crociato di Gerusalemme, Acri, anche se per la verità essa trasse vantaggio piuttosto dalla sua caduta, nel 1291, quand’essa tornò emporio centrale del mondo musulmano senza tuttavia perdere il rapporto con il commercio occidentale. Vale la pena di ricordare che Acri, con la sua bella zecca dove si battevano i “bisanti sarracenali” che associavano segno della croce e iscrizioni arabe, fu con la Firenze del fiorino[12]e la Venezia del ducato uno degli hauts lieux della produzione di moneta aurea del tempo. D’altro canto, agli studi ormai “classici” sull’argomento, altri più recenti se ne sono aggiunti – ricordo uno scritto di Giovanni Ceccarelli – a ricordarci che la lettera di credito su terzi era chiamata nel mondo arabo awala, da cui l’italiano “avallo”, che suftajaera l’obbligazione scritta, che la mudarabaera la commenda e la musharakala società commerciale. E ancor oggi ci si continua a chiedere se e fino a che punto la grande rivoluzione economico-finanziaria del basso medioevo abbia avuto come suoi teatri Firenze e Bruges anziché Damasco o Alessandria in quanto la ribà (l’“usura”) fu e resta nel mondo musulmano rigorosamente proibita e perseguita laddove, nel nostro Occidente, il credito a interesse al di là di un certo segno definibile come “usura” ha avuto differenti vicende e ben diverso esito. Certo è che gli scambi economici e commerciali tra mondo cristiano e mondo musulmano, al pari di quelli filosofici, scientifici, artistici, musicali, culturali e diplomatici, hanno avuto ben più peso nell’avvicinare i due mondi di quanto le crociate non ne abbiano avuto nel renderli conflittuali.
E siamo così giunti alla grande, eroica età del Big Bang economico, commerciale e finanziario dell’Europa occidentale. A quello avviato verso la metà del Duecento – e molti prendono l’anno della coniazione del fiorino, il 1252, a suo eponimo – e grandi protagonisti del quale furono le grandi compagnie da Firenze a Siena ad Asti (i “fiorentini” e i “lombardi”), appunto – a Barcellona, a Parigi, a Londra, a Bruges e altrove, i grandi banchieri dei re e dei papi sia romani sia più tardi avignonesi. Eppure tale stagione fu in sé breve: e si concluse si può dire con un altro evento esso stesso assurto a simbolo: la sparizione di tonnellate d’oro e d’argento nella gola profonda delle guerre finanziate dai mercanti-banchieri per somme immense sul momento compensate da privilegi e da appalti mai però davvero restituite da parte dei loro regali debitori fino alla grande bancarotta dei banchieri fiorentini Acciaioli, Bardi e Peruzzi nel 1341-45, che mise definitivamente a nudo il tallone di Achille delle societates nate nel XII-XIII secolo, la responsabilità illimitata dei contraenti. Quell’età eroica dei mercanti-banchieri appare sul serio dominata da un valore che, prima che economico, è piuttosto politico e morale: la “fiducia”, quell’elemento immateriale che rendeva possibili le transazioni più ardite e che – come ha dimostrato Luciano Palermo – stava alla base del concetto di “cittadinanza economica”.[13]
È questo straordinario periodo, particolarmente adatto a essere studiato mettendo a frutto quel metodo “dell’incrocio di fonti differenziate” su cui tanto Renato Bordone insisteva; e nel quale il nesso tra politica ed economia, tra politica militare e politica fiscale dei capi politici da una parte e strategia dei prestiti dei mercanti-banchieri dall’altra risulta più chiaramente decisivo. Sul piano storico generale, è significativo – e non è affatto un caso – che la crisi economico-finanziaria andò maturando in un lungo periodo di apertura di una crisi generale ed epocale a carattere climatico, economico, sociopolitico e socioculturale: una crisi, seguita da un ristagno economico verificatasi quasi come preludio di quella che sotto il profilo climatico fu la “piccola era glaciale” in tutto l’emisfero australe tra fine Cinque ed inizio Settecento.
I mercanti-banchieri dei decenni tra fine Trecento e secolo successivo, tra svalutazioni e momenti di deflazione e nella complessità determinata dai trasferimenti internazionali di valuta, lavorarono nel nord e nel centro della penisola italica – i Medici a Firenze e il “Banco di San Giorgio” a Genova[14]ne sono esempio – a stretto contatto con il debito pubblico di governi che (a differenza di quanto fino dal Trecento avevano fatto i sovrani dei nascenti stati assoluti) non potevano sfuggire alla necessità di restituire in qualche modo le somme prese in prestito; e tesero a impadronirsi quando e nella misura in cui poterono del controllo quanto meno indiretto della cosa pubblica.[15]Si avviò così (com’è ben dimostrato dalla storia delle “prestanze” ad rehabendum e ad non rehabendum a Firenze nel Quattrocento) un processo di socializzazione dei debiti e di privatizzazione dei profitti che in qualche modo può ricordare eventi ed episodi della storia italiana e occidentale più recente. Fu, quella, un’età di grande bellezza e di straordinarie realizzazioni artistiche, ma anche di concentrazione della ricchezza e quindi di diffusione della miseria. Frattanto, il prestigio dei mercanti-banchieri italiani si andava fortemente riducendo al di là delle Alpi e del mare.
Questi argomenti, sui quali oltretutto davvero molti di loro sarebbero ben più competenti di quanto io non sia, richiederebbero più tempo per esser adeguatamente esposti. Si era, tuttavia giunti, insieme con l’era delle grandi scoperte geografiche, della Riforma e dell’avvìo dell’economia-mondo, in tempi nei quali anche la storia del denaro avrebbe dovuto voltare decisamente pagina. Rispetto a questa lunga, complessa storia, il capitalismo moderno – che pure con essa ha tante relazioni – è radicalmente altra cosa.
[1] Cfr. al riguardo L. Palermo, Moneta, credito e cittadinanza economica tra Medioevo ed Età moderna, in«Mélanges de l’École Française de Rome – Moyen Âge», 2013; in linea generale, per il rapporto tra fiducia, stabilità e quindi regole: La fiducia secondo i linguaggi del potere, a cura di P. Prodi, Bologna, Il Mulino, 2008; Uomini, regole, economia: una lettura storiografica, a cura di G. Todeschini, Asti, Centro Studi Renato Bordone sui Lombardi, sul Credito e sulla Banca, s.d.
[2] H. U. Vogel, Marco Polo was in China, Leiden, Brill, 2012, pp. 89-226
[3] P. Evangelisti, Il pensiero economico nel medioevo. Ricchezza, povertà, mercato e moneta, Roma, Carocci, 2016, p. 135.
[4] Etymologiae, XVI.,18.12, ed. Lindsay 1911.
[5] R. Bordone, G. Sergi, Dieci secoli di medioevo, Torino 2009, p. 396.
[6] Actus,4, 32-35.
[7] La definizione è di Evangelisti, Il pensiero economico nel medioevo,pp. 76-80 e passim.
[8] L’etica economica medievale, a cura di O. Capitani, Bologna, Il Mulino, 1974; G. Todeschini, Oeconomica franciscana. Proposta di una nuova lettura delle fonti dell’etica economica medievale,in «Rivista di storia e letteratura religiosa», II/12, 1976, pp. 15-77; Idem, I mercanti e il Tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza tra medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 2002; O. Langholm, Economics in the medieval Schools. Wealth, exchange, value, money and usury according to Paris theological tradition, 1200-1350, Leiden, Brill, 1992; J. Le Goff, La moyen Age et l’argent, Paris 2010; A. Feniello, Dalle lacrime di Sybille, Roma-Bari 2013; E.I. Mineo, Caritas e bene comune, in «Storica», 59, 2014, pp. 7-56.
[9] L’ampia e benemerita produzione scientifica di Giacomo Todeschini ha ormai da oltre un quarantennio prodotto ragguardevoli risultati: ci limitiamo a richiamare due lavori di argomento generale a buon diritto considerabili come dei “classici” nello studio del pensiero economico medievale: Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1994; La banca e il ghetto, Roma-Bari, Laterza, 2016; ma essenziali restano le sue ricerche sul pensiero francescano, gli ebrei ecc. Per quanto riguarda l’Alto Medioevo monastico, straordinariamente importante è V. Toneatto, Marchands et banquiers du Seigneur. Lexiques chrétiens de la richesse et de l’administration monastique de la fin du IV.e au dèbut du IX.e siècle, Rennes, Presses Universitaires, 2012.
[10] Dante, Inf.,XXX, 74.
[11] Idem, Par.,IX, 130.
[12] Per cui cfr. F. Melis, Fiorino, in Enciclopedia dantesca, pp. 903-4: il suo peso in oro venne originariamente concepito in modo da costituire l’esatto corrispettivo della libbra ponderale (gr. 339,452), la quale veniva tagliata in 12 soldi “di conto”; due anni prima del fiorino d’oro, quindi nel 1250, il comune di Firenze aveva emesso il “fiorino d’argento”, cioè il “grosso da soldi uno”, equivalente a 12 denari pisani. In tal modo, seguendo sempre il modulo della riforma monetaria carolingia, il fiorino d’oro era valutato pari a 20 “grossi” (cioè soldi d’argento). Questo rapporto oro-argento andò fatalmente modificandosi e divaricandosi col tempo: il catasto fiorentino del 1428 dimostra che il fiorino d’oro veniva ormai cambiato a 4 libbre d’argento, vale a dire a 80 dei vecchi “grossi” (i quali peraltro non venivano più coniati dal 1296), il quadruplo del valore originario.
[13] Palermo, Moneta, credito e cittadinanza economica; Credito e cittadinanza nell’Europa mediterranea dal medioevo all’Età Moderna, Asti, Centro Studi Renato Bordone sui Lombardi, sul Credito e sulla Banca, 2014.
[14] Cfr. La “Casa di San Giorgio”: il potere del credito, a cura di G. Felloni, Genova 2006.
[15] Cfr. p.es. F. Franceschi, I mercanti-banchieri fiorentini del Quattrocento, in Denaro e bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità, a cura di l. Segregondi e T. Parks, Firenze 2012
(Videoconferenza in data sabato 17.11.2018 in occasione dell’incontro tenutosi in Palazzo Mazzola, sede dell’Archivio Storico del Comune di Asti, in memoria e in onore di Renato Bordone: Asti in Europa. Il racconto dei mercanti astesi tra storia del credito e storia della città)
Ich schaffe, was ihr wollt, und schaffe mehr (Goethe, Faust, II, 4, v 4927)
Alla memoria di Renato Bordone
Signore e Signori, cari Colleghi,
nel ringraziarVi per l’immeritato onore che mi conduce a rivolgermi adesso a Voi, e nello scusarmi per la forma involontariamente disagiata in cui sono obbligato a farlo, comincio con il dichiarare esplicitamente il Vostro e il mio disincanto. Mi trovo, infatti, nella paradossale condizione di chi, incompetente, si rivolge a un pubblico di competenti, tra i quali anche alcuni Maestri, per esporre problemi e considerazioni suggeritigli in grandissima parte dalla lettura dei loro scritti. So bene che stasera il mio parlar da “fiorentino” a dei “lombardi” – nel senso storico-economico del termine – equivale a un portar vasi a Samo e nottole in Atene. Ma la cortesia dell’invito, il mio desiderio vivissimo di attestare ancora una volta l’ammirazione per l’indimenticabile Renato Bordone e la fraterna amicizia che a lui mi legava mi hanno indotto a porre da canto un pudore che sarebbe stato doveroso e ad accettare un forse troppo impegnativo invito.
Comincio quindi ringraziando non solo i presenti, ma in generale gli studiosi nei confronti dei quali tutti noi abbiamo contratto un immenso debito e che, nella loro gran maggioranza, sono peraltro in vario modo collegati al Centro Studi sui Lombardi, sul Credito e sulla Banca. Dal momento che alcuni di loro sono presenti, ad evitare involontarie omissioni non li menzionerò per nome, salvo alcuni ai quali dovrò direttamente riferirmi nel corso della mia esposizione. Mi limito a un “grazie” collettivo. Un esplicito e riconoscente pensiero vorrei, tuttavia, rivolgere a cinque Maestri che non sono più fra noi, che ho avuto l’immeritato privilegio di frequentare e che benemeriti sono stati nel campo di studi che qui c’interessa adesso e non solo in quello. Roberto Sabatino Lopez, Federigo Melis, Jacques Le Goff e Ovidio Capitani, ai quali vorrei associare un altro fraterno amico al pari di Bordone immaturamente scomparso, Marco Tangheroni.
All’inizio del secondo atto della pucciniana Turandot, uno dei tre consiglieri imperiali (i più aderenti fra tutti i personaggi dell’opera all’ispirazione gozziana della “Commedia dell’Arte”) parla di certe “monete di carta dorate”, elemento indispensabile del décor festivo cinese tradizionale al pari delle lanterne rosse. L’allusione, in apparenza tra il folklorico e il fantastico, è sul piano storico più pertinente di quanto non possa sembrare. Ce lo conferma uno dei capolavori fondamentali della letteratura europea, il Faustdi Wolfgang Goethe. Nel primo atto della “Seconda Parte” del grande poema, edita fra 1827 e 1828, la scena dedicata al “Giardino di Svago” (Lustgarten) ci presenta i prodigiosi effetti della cartamoneta approntata dal dèmone Mefistofele e, almeno in apparenza, atta a risolvere tutti i problemi finanziari di un imperatore che ha tutta l’aria di un monarca asburgico. Si tratta di una moneta “a corso legale”, che i sudditi accettano sulla fiducia dovuta al loro sovrano. Fiducia: questa è forse la parola-chiave fondamentale dell’oggetto del nostro discorso.[1]
Ma è, nel contesto goethiano, una fiducia mal riposta. In esso si denunzia, con l’alibi della satira, quell’esperimento introdotto nell’economia moderna dal banchiere scozzese John Law nel 1716, durante la “reggenza” del regno di Francia: ma appena quattro anni dopo, nel 1720, drammaticamente fallito. Il poeta di Weimar, che aveva conosciuto gli “assegnati” circolanti nell’Europa della Rivoluzione e dell’impero napoleonico senza nutrire in essi la minima fiducia, attribuiva, nel suo capolavoro, al diavolo Mefistofele l’invenzione di quella moneta cartacea che si poteva moltiplicare arbitrariamente sino all’infinito e produceva illusori prodigi quali quello di far scomparire provvisoriamente i debiti. Eppure non c’è dubbio che il naufragio dell’esperimento del Law facesse pur parte degli esiti di un evento fondante della Modernità: l’apertura, fin dal 1609, della Borsa di Amsterdam.
D’altronde, il fatto che il coprotagonista della scena goethiana fosse un sia pur imprecisato “imperatore” ci aiuta a individuare un “precedente” che l’aveva ispirata e che era testimoniato in un testo di un buon mezzo millennio precedente: nel quale agiva un altro imperatore, non asburgico ma sino-mongolo, il Gran Khan Qublai della dinastia Yuan del quale ci parla il Milione. Eppure, il veneziano Marco Polo, visitando la Cina del suo tempo nella quale esisteva una gran varietà di oggetti usati come monete – dal sale alla porcellana alle conchiglie – non mostrava soverchia sorpresa dinanzi alla circolazione di carte accettate con fiducia nel corso di compravendite.[2]Ci troviamo qui dinanzi a uno dei tanti “corti circuiti” della storia: un pezzo di carta, magari munito di firme e di sigilli, non appare né strano né pericoloso a un europeo due-trecentesco abituato alle “lettere di cambio”, mentre si mostra carico di rischi e di minacce per un europeo del Sette-Ottocento. Possiamo trarre dal confronto di questi due remoti episodi qualche considerazione utile per i tempi nostri?
Veniamo, dunque, al denaro nonché nelle sue varie forme e funzioni durante il lungo periodo che, sia pure tra ricorrenti perplessità, abbiamo convenuto di definir “medioevo”: senza dimenticare che, come ben ha scritto Paolo Evangelisti, è necessario mantener sempre chiara «la differenza che sussiste tra ciò che il denaro è come oggetto fisico e ciò che la moneta rappresenta come istituzione e mediazione valoriale».[3]
Oggetto, istituzione e mediazione che si presentano peraltro strettamente uniti sul piano simbolico. La moneta è notoriamente mezzo di scambio, misura di valore e riserva di ricchezza. Ciò è espresso, per quanto riguarda i pezzi metallici a corso evidentemente reale e fondati sul bimetallismo aureo-argenteo (il che ha già di per sé un denso valore simbolico), dall’irreprensibile formula di Isidoro di Siviglia: «In numismate tria quaerentur: metallum, figura et pondus».[4]Nelle monete medievali noi costantemente troviamo sul “dritto” (ma talvolta invece sul “rovescio”) una figura che rimanda a un elemento sacro – divino o santorale che sia –; sul “rovescio” (o viceversa) un’immagine allusiva al potere che emette e legittima il pezzo. Se a ciò aggiungiamo la qualità del metallo coniato, abbiamo una perfetta presentazione di quella dottrina trifunzionale che, significativamente, fu enunziata in quello che allora era il cuore della Cristianità latina, il “paese dei Franchi”, da alcuni vescovi nello snodo tra X e XI secolo: e secondo la quale la società si distingueva nei tre ordines degli oratores (il clero), dei bellatores (le aristocrazie laiche alle quali competeva il governare e il mantenere con le armi la giustizia e la pace) e dei laboratores, chiamati a mantenere con la loro operosità sé stessi e gli altri. Ma, se la concreta sostanza del denaro era il metallo prezioso in quanto soggetto, frutto e garanzia del lavoro che materialmente sosteneva la società, nella storia di longue durée della moneta si presenta un inquietante paradosso. Pensiamo alla nostra ancora corrente espressione “testa o croce”, che come sappiamo evoca l’immagine della monetina metallica lanciata in aria e della “fortuna” (un altro key word nella storia del denaro) che presiede all’esito del rito. Se la “croce” rimanda ancor oggi agli oratores, la “testa” ai bellatores e ai rispettivi sistemi di valori, il prezioso intrinseco del quale la moneta metallica “a corso reale” era costituita, in quella “a corso legale” (peraltro ormai quasi esclusivamente cartacea) non c’è più. Eppure, il mondo moderno – e a fortiori quello contemporaneo, nel quale il denaro è una potenza così forte e diffusa (salvo il costante rischio della sua vanificazione, dai processi di svalutazione fino alle innovazioni che giungono al “denaro virtuale” come il bit coin) – è dominato dall’economia e dalla finanza, vale a dire dagli eredi di élites nate all’interno di quell’ordo ampio e indifferenziato (ma costituito soprattutto da subalterni piegati al lavoro dei campi, dei boschi e delle brughiere), che Adalberone di Laon e Gerardo di Cambrai avevano definito laboratores. Sappiamo che fra X e XVIII secolo quel “Terzo Stato” si era progressivamente articolato e differenziato; e che alla fine del Settecento la élite dei suoi rappresentanti pretese “uguaglianza” rispetto agli altri due mentre, però, all’interno di esso, si allargava progressivamente la forbice della disuguaglianza.
Ora, a differenza di quanto anche in un passato recente avveniva, oggi, dalla rappresentazione tradizionale della moneta, lo statuto simbolico degli eredi delle élites del “Terzo Stato”, di coloro cioè che attualmente sono sul serio i “patroni del mondo” è assente. Quello della globalizzazione attuale, quello dei Soros e dei signori che ogni anno si riuniscono a Davos, è un mondo nel quale le élites dirigenti effettive appaiono refrattarie alla rappresentazione simbolica, che continua semmai a interessare i loro “comitati d’affari” politici e mediatici. Il nostro è un mondo nel quale il cielo è vuoto e i veri padroni non hanno volto, sono dei “Superiori Sconosciuti”.
Se riteniamo questo panorama proprio dell’attuale fase della cosiddetta “globalizzazione”, ed essa a sua volta processo di lungo periodo presentatosi magari a già maturo livello con quella che nella convenzione del racconto storico definiamo “età moderna”, ci rendiamo conto che essa è l’esito attuale della Modernità.
Naturalmente, “età moderna” e “Modernità” non sono sinonimi. Con questo secondo termine intendiamo – e qui gioco a carte scoperte: Fromm, Rifkin, Stiglitz, Chomsky, Bauman – il processo e la dimensione del sia pur problematico affermarsi dell’individualismo, del processo di secolarizzazione e del primato mondiale di economia, finanza e tecnologia su altre dimensioni dell’essere e dell’agire umano (principalmente della politica). Se ciò è plausibile, bisogna dedurne che la Modernità è sorta ben prima dell’età moderna e trova alcuni dei suoi presupposti proprio nel “nostro” medioevo. Torna qui il buon Marco Polo, che non si stupiva affatto dell’uso cinese della cartamoneta perché a casa sua era uso a “lettere di cambio” e a documenti contabili e perché viveva negli anni stessi in cui l’innovazione che Leonardo Fibonacci pisano aveva desunto dagli arabi, as-Sifr, “lo zero”, stava rivoluzionando la matematica ma anche la contabilità e quindi il mondo del credito e degli affari dell’Occidente. Quella Modernità che appariva ancora assurda e sospetta a Goethe, il mercante veneziano l’aveva a portata di mano, quasi sulla punta delle dita.
Torniamo allora alla dinamicità economico-finanziaria del nostro medioevo: e sappiamo bene quanto essa debba a una pluralità di sperimentazioni anche spregiudicate, a un insieme di periodi caratterizzati da un elemento comune di frammentazione. A dirla con le parole di Renato Bordone e di Giuseppe Sergi, «il lungo medioevo non è da considerare come età compatta ‘di mezzo’ ma come insieme di età con meccanismi loro propri e irripetibili».[5]
Nessun cedimento, quindi, da parte mia, a tesi “continuiste” di sorta: anzi, al contrario, la massima cura – quantomeno nelle intenzioni – nel sottolineare le discontinuità, le rotture, i caratteri imprevedibili, le accelerazioni e i ristagni, magari (senza voler rinverdire qui vecchie polemiche) l’unicità dell’“evento” e il suo carattere di “emergenza” rispetto a strutture di medio e di lungo periodo, fino al recupero dell’“imponderabile” di paretiana memoria. Non mi sogno nemmeno di tentare, in pochi minuti, un’esquisse générale de l’histoire de l’argent au moyen-âge. Provo semplicemente, senza velleità alcuna di completezza, a richiamare alcuni dati di fondo. Anzitutto il fatto che la riflessione storica, filosofica e filologica più matura e aggiornata ha, ormai, fatto giustizia del vecchio luogo comune – peraltro ancor oggi duro a morire – della preconcetta e sostanzialmente insuperabile ostilità della fede cristiana (se non di tutte le sue istituzioni storiche) rispetto al denaro. Sappiamo bene su quali passi scritturali e soprattutto evangelici essa si fondi e con quanta forza (non priva peraltro di ragioni) abbia sfidato i secoli: anche a causa delle posizioni assunte al riguardo da Francesco d’Assisi. Ma sappiamo altresì che il pensiero teologico e giuridico cristiano, sia pure in mezzo e incertezze e a tensioni, ha sostenuto l’affermarsi dell’importanza del denaro, del credito e dello stesso profitto nonché delle istituzioni spesso innovative che ne hanno accompagnato lo sviluppo: e ciò sin dalle ferme posizioni di Clemente Alessandrino sulla funzione sociale della ricchezza e sulla “vera povertà” per il cristiano non già nel vivere da mendico bensì nel possedere con discrezione e con spirito di carità a vantaggio e al servizio dei fratelli; quindi da Ambrogio e da Agostino con le loro tesi sullo scambio economico in quanto caritas e sull’uso del denaro come dono, sul modello della primitiva Chiesa di Gerusalemme dove tutti i beni erano in comune e ciascuno riceveva secondo i suoi bisogni;[6]per giungere all’immagine del Cristo come vero mercator e alla metafora della Redenzione come negozio mercantile per eccellenza, sacrum commercium. Su questa linea e in analoga prospettiva più tardi, nell’XI secolo, speciale rilievo avrebbero avuto il Decretum di Graziano, l’attività di quello straordinario gestore e tutore dei beni ecclesiastici che fu l’avellanita Pier Damiani e il pensiero di Anselmo da Lucca che, nel 1083, conferì «contenuto legale e fondamento teorico a un diritto di possesso di beni mobili» e «di mezzi finanziari»[7]atti all’organizzazione, alla vita funzionale, alla necessità della Chiesa nella prospettiva – rigorosamente ispirata ad Agostino – di un “fisco del Cristo”, una vera e propria “borsa del Signore”. Da qui la rigorosa difesa, da parte dei riformatori ecclesiastici del secolo XI, dei beni della Chiesa in quanto patrimonio dei pauperes Dei. E il dibattito sarebbe continuato con varie e spesso discordanti voci attraverso le Sententiae di Pietro Lombardo sino alla scolastica e quindi nelle rigorose, appassionate discussioni sul iustum pretium, sul bonum commune, sulla liceità del giusto profitto e sull’usura (Alberto magno, Tommaso d’Aquino) fino al pensiero economico degli “osservanti” degli Ordini mendicanti e dei primi umanisti.[8]In questo contesto, le ricerche di Giacomo Todeschini e dei suoi allievi, collaboratori e interlocutori[9]hanno mostrato – specie attraverso lo studio delle Regulae monastiche – come il linguaggio economico della previdenza e dello scambio sia stato fondamentale nell’approfondimento del mistero della salvezza realizzata dal Cristo come valore, pregio, quindi prezzo/preziosità (fino all’adorazione del “Preziosissimo Sangue del Signore”). Al Todeschini va anche il merito di aver chiarito con una sua impegnata serie di studi – insieme con quelli di Roberto Lambertini, di Maria Giuseppina Muzzarelli e di altri – come il celebre divieto di maneggiar danaro imposto ai frati minori dalla Regula bullata del 1223 e da altri testi francescani vada, tuttavia, reinterpretato, proprio alla luce degli scritti di “spirituali” come Pietro di Giovanni Olivi e di “osservanti” come Bernardino da Siena, ai quali va aggiunta almeno la menzione del catalano Francesc Eixemenis, studiato in un bel libro di Paolo Evangelisti, fino a dimostrare la legittimità di un “uso povero” dei beni e del “circolo virtuoso” (l’espressione è, appunto, del Todeschini) che nel nome della caritas e del servizio ai poveri si stabilisce tra denaro, commercio, profitto e speranza di salvezza per quanti mettendolo a frutto fanno “vivere” il denaro (pecunia lucrosa versus pecunia mortua): e qui proprio un tema per eccellenza legoffiano, il purgatorio, ha un suo ruolo primario. A questo livello il grande tema teologico già protocristiano e patristico dell’economia della salvezza s’incontra con quello della salvezza attraverso la corretta economia.
Ciò sia detto senza, con ciò, mai perdere il senso dell’ambiguità e quindi la polarità di sentimenti e di atteggiamenti che ai primi del Trecento avrebbero indotto per esempio Dante a definire la moneta aurea della sua città ora con rispetto e reverenza «la lega suggellata del Battista»[10]– con ciò ribadendo che i falsari erano colpevoli del crimen maiestatis e meritevoli del rogo al pari degli eretici – e ora, viceversa, «il maladetto fiore»[11]colpevole di aver addirittura corrotto il soglio di Pietro. Il denaro poteva senza dubbio restare “sterco del demonio”.
D’altronde, e anche ciò è ben noto, gli snodi e addirittura le “svolte” nella storia del denaro sono tutt’altro che casuali. A presiedere sia pur imperfettamente da essa v’è sempre un elemento ben determinato, giusto o no, corretto o criminale che fosse: la volontà politica, l’esercizio del potere, che gestiscono il difficile rapporto tra circolazione monetaria, sicurezza, informazione e fiscalità dominando e regolando – sia pur non sempre in modo felice – anche quello che in genere con superficialità si denomina “il libero gioco della domanda e dell’offerta” con le sue sistole e le sue diastole, le sue fasi d’inflazione e di deflazione, d’incremento e di ristagno..
Ciò si riscontra con evidenza in alcuni grandi momenti della storia monetaria, fiscale ed economica medievale: e già da prima, fin dalla riforma del denarius argenteus da parte di Aureliano, nel terzo quarto del III secolo, che insieme con le vittorie sul limessudorientale salvò il potere d’acquisto dei salari dell’esercito e con esso la stabilità sociale dell’impero; oppure, dopo lunghi secoli di frammentazione del diritto di batter moneta nonché d’incertezza e di frammentazione monetaria, la riforma carolingia con la sanzione del diritto di conio come fatto pubblico, con la scelta del monometallismo argenteo che avrebbe retto in Occidente per oltre quattro secoli e la creazione di un sistema di “denaro di conto” che nelle sue linee di fondo avrebbe retto, adattandosi a mutamenti sostanziali, fin addentro al XX secolo. Ma è soprattutto nella vera e propria plaque tournante del mondo medievale, il grande XII secolo delle cattedrali, delle università e del rinnovamento attraverso il Mediterraneo e la penisola iberica dei rapporti tra Europa e Islam che noi vediamo sorgere, si può dire insieme, le societates ad partem lucri con il sistema della “commenda” e la proporzionale ripartizione di utili e di perdite tra i soci e, grazie alla lungimiranza dei conti che ne erano i domini loci, la nascita di quel mirabile sistema di mercato permanente regionale che furono le “fiere di Champagne” con i loro turni che duravano nel loro complesso l’arco dell’intero anno e che ponevano in rapporto, lungo un asse nordovest-sudest parallelo a quello dei pellegrinaggi tra Santiago de Compostela e Gerusalemme, le aree produttive e mercantili dell’Europa settentrionali gravitanti sulla Fiandra e quindi sul mondo anseatico e baltico con quelle mediterranee tra Italia settentrionale, Italia meridionale, Provenza e Catalogna fino a Bisanzio, alla Siria, al Libano, all’Egitto, all’Africa. Allora, la circolazione di merci e di denaro ma soprattutto d’uomini e d’informazioni si tradusse in importanti novità anche sul piano delle tecniche mercantili e finanziarie – ne sono testimoni le vicende dei cambi monetari, fondamentali nella nascita delle banche – coinvolgendo le strade, le rotte, le città e i porti e determinandone l’ampiamento e la dinamica produttiva fino all’attività mediatrice degli stessi Ordini militari, il Mediterraneo cambiò allora volto mentre, per usar la bella espressione di Roberto Sabatino Lopez, «l’Occidente tornava alla coniazione aurea» (anche approfittando di un temporaneo ribasso del costo dell’oro, soprattutto di quello africano “di pagliola”, in polvere. Al riguardo, uno dei pochi argomenti sui quali mi sono permesso di trovarmi in dissenso col mio amato Maestro Jacques le Goff era il movimento crociato. Mi sembra che il grande studioso francese si limitasse sulle crociate a un giudizio di carattere politico-militare, singolarmente restrittivo – strano in lui, così amante degli orizzonti aperti – e incline a non valutare in modo a mio avviso adeguato una serie di novità con esse o a seguito di esse introdotte. A parte quelle sul piano propriamente giuridico e canonistico, o quelle che riguardarono la letteratura, l’arte, l’informazione geopolitica, la stessa propaganda missionaria e insomma i rapporti con l’Oriente in senso generale, basti pensare per quanto qui ci riguarda al significato rivoluzionario sul piano tanto fiscale e finanziario quanto su quello istituzionale e territoriale del sistema delle decime istituito da Gregorio X; oppure al ruolo primario che nel Duecento fu assunto dall’ultima capitale del regno crociato di Gerusalemme, Acri, anche se per la verità essa trasse vantaggio piuttosto dalla sua caduta, nel 1291, quand’essa tornò emporio centrale del mondo musulmano senza tuttavia perdere il rapporto con il commercio occidentale. Vale la pena di ricordare che Acri, con la sua bella zecca dove si battevano i “bisanti sarracenali” che associavano segno della croce e iscrizioni arabe, fu con la Firenze del fiorino[12]e la Venezia del ducato uno degli hauts lieux della produzione di moneta aurea del tempo. D’altro canto, agli studi ormai “classici” sull’argomento, altri più recenti se ne sono aggiunti – ricordo uno scritto di Giovanni Ceccarelli – a ricordarci che la lettera di credito su terzi era chiamata nel mondo arabo awala, da cui l’italiano “avallo”, che suftajaera l’obbligazione scritta, che la mudarabaera la commenda e la musharakala società commerciale. E ancor oggi ci si continua a chiedere se e fino a che punto la grande rivoluzione economico-finanziaria del basso medioevo abbia avuto come suoi teatri Firenze e Bruges anziché Damasco o Alessandria in quanto la ribà (l’“usura”) fu e resta nel mondo musulmano rigorosamente proibita e perseguita laddove, nel nostro Occidente, il credito a interesse al di là di un certo segno definibile come “usura” ha avuto differenti vicende e ben diverso esito. Certo è che gli scambi economici e commerciali tra mondo cristiano e mondo musulmano, al pari di quelli filosofici, scientifici, artistici, musicali, culturali e diplomatici, hanno avuto ben più peso nell’avvicinare i due mondi di quanto le crociate non ne abbiano avuto nel renderli conflittuali.
E siamo così giunti alla grande, eroica età del Big Bang economico, commerciale e finanziario dell’Europa occidentale. A quello avviato verso la metà del Duecento – e molti prendono l’anno della coniazione del fiorino, il 1252, a suo eponimo – e grandi protagonisti del quale furono le grandi compagnie da Firenze a Siena ad Asti (i “fiorentini” e i “lombardi”), appunto – a Barcellona, a Parigi, a Londra, a Bruges e altrove, i grandi banchieri dei re e dei papi sia romani sia più tardi avignonesi. Eppure tale stagione fu in sé breve: e si concluse si può dire con un altro evento esso stesso assurto a simbolo: la sparizione di tonnellate d’oro e d’argento nella gola profonda delle guerre finanziate dai mercanti-banchieri per somme immense sul momento compensate da privilegi e da appalti mai però davvero restituite da parte dei loro regali debitori fino alla grande bancarotta dei banchieri fiorentini Acciaioli, Bardi e Peruzzi nel 1341-45, che mise definitivamente a nudo il tallone di Achille delle societates nate nel XII-XIII secolo, la responsabilità illimitata dei contraenti. Quell’età eroica dei mercanti-banchieri appare sul serio dominata da un valore che, prima che economico, è piuttosto politico e morale: la “fiducia”, quell’elemento immateriale che rendeva possibili le transazioni più ardite e che – come ha dimostrato Luciano Palermo – stava alla base del concetto di “cittadinanza economica”.[13]
È questo straordinario periodo, particolarmente adatto a essere studiato mettendo a frutto quel metodo “dell’incrocio di fonti differenziate” su cui tanto Renato Bordone insisteva; e nel quale il nesso tra politica ed economia, tra politica militare e politica fiscale dei capi politici da una parte e strategia dei prestiti dei mercanti-banchieri dall’altra risulta più chiaramente decisivo. Sul piano storico generale, è significativo – e non è affatto un caso – che la crisi economico-finanziaria andò maturando in un lungo periodo di apertura di una crisi generale ed epocale a carattere climatico, economico, sociopolitico e socioculturale: una crisi, seguita da un ristagno economico verificatasi quasi come preludio di quella che sotto il profilo climatico fu la “piccola era glaciale” in tutto l’emisfero australe tra fine Cinque ed inizio Settecento.
I mercanti-banchieri dei decenni tra fine Trecento e secolo successivo, tra svalutazioni e momenti di deflazione e nella complessità determinata dai trasferimenti internazionali di valuta, lavorarono nel nord e nel centro della penisola italica – i Medici a Firenze e il “Banco di San Giorgio” a Genova[14]ne sono esempio – a stretto contatto con il debito pubblico di governi che (a differenza di quanto fino dal Trecento avevano fatto i sovrani dei nascenti stati assoluti) non potevano sfuggire alla necessità di restituire in qualche modo le somme prese in prestito; e tesero a impadronirsi quando e nella misura in cui poterono del controllo quanto meno indiretto della cosa pubblica.[15]Si avviò così (com’è ben dimostrato dalla storia delle “prestanze” ad rehabendum e ad non rehabendum a Firenze nel Quattrocento) un processo di socializzazione dei debiti e di privatizzazione dei profitti che in qualche modo può ricordare eventi ed episodi della storia italiana e occidentale più recente. Fu, quella, un’età di grande bellezza e di straordinarie realizzazioni artistiche, ma anche di concentrazione della ricchezza e quindi di diffusione della miseria. Frattanto, il prestigio dei mercanti-banchieri italiani si andava fortemente riducendo al di là delle Alpi e del mare.
Questi argomenti, sui quali oltretutto davvero molti di loro sarebbero ben più competenti di quanto io non sia, richiederebbero più tempo per esser adeguatamente esposti. Si era, tuttavia giunti, insieme con l’era delle grandi scoperte geografiche, della Riforma e dell’avvìo dell’economia-mondo, in tempi nei quali anche la storia del denaro avrebbe dovuto voltare decisamente pagina. Rispetto a questa lunga, complessa storia, il capitalismo moderno – che pure con essa ha tante relazioni – è radicalmente altra cosa.
[1] Cfr. al riguardo L. Palermo, Moneta, credito e cittadinanza economica tra Medioevo ed Età moderna, in«Mélanges de l’École Française de Rome – Moyen Âge», 2013; in linea generale, per il rapporto tra fiducia, stabilità e quindi regole: La fiducia secondo i linguaggi del potere, a cura di P. Prodi, Bologna, Il Mulino, 2008; Uomini, regole, economia: una lettura storiografica, a cura di G. Todeschini, Asti, Centro Studi Renato Bordone sui Lombardi, sul Credito e sulla Banca, s.d.
[2] H. U. Vogel, Marco Polo was in China, Leiden, Brill, 2012, pp. 89-226
[3] P. Evangelisti, Il pensiero economico nel medioevo. Ricchezza, povertà, mercato e moneta, Roma, Carocci, 2016, p. 135.
[4] Etymologiae, XVI.,18.12, ed. Lindsay 1911.
[5] R. Bordone, G. Sergi, Dieci secoli di medioevo, Torino 2009, p. 396.
[6] Actus,4, 32-35.
[7] La definizione è di Evangelisti, Il pensiero economico nel medioevo,pp. 76-80 e passim.
[8] L’etica economica medievale, a cura di O. Capitani, Bologna, Il Mulino, 1974; G. Todeschini, Oeconomica franciscana. Proposta di una nuova lettura delle fonti dell’etica economica medievale,in «Rivista di storia e letteratura religiosa», II/12, 1976, pp. 15-77; Idem, I mercanti e il Tempio. La società cristiana e il circolo virtuoso della ricchezza tra medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 2002; O. Langholm, Economics in the medieval Schools. Wealth, exchange, value, money and usury according to Paris theological tradition, 1200-1350, Leiden, Brill, 1992; J. Le Goff, La moyen Age et l’argent, Paris 2010; A. Feniello, Dalle lacrime di Sybille, Roma-Bari 2013; E.I. Mineo, Caritas e bene comune, in «Storica», 59, 2014, pp. 7-56.
[9] L’ampia e benemerita produzione scientifica di Giacomo Todeschini ha ormai da oltre un quarantennio prodotto ragguardevoli risultati: ci limitiamo a richiamare due lavori di argomento generale a buon diritto considerabili come dei “classici” nello studio del pensiero economico medievale: Il prezzo della salvezza. Lessici medievali del pensiero economico, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1994; La banca e il ghetto, Roma-Bari, Laterza, 2016; ma essenziali restano le sue ricerche sul pensiero francescano, gli ebrei ecc. Per quanto riguarda l’Alto Medioevo monastico, straordinariamente importante è V. Toneatto, Marchands et banquiers du Seigneur. Lexiques chrétiens de la richesse et de l’administration monastique de la fin du IV.e au dèbut du IX.e siècle, Rennes, Presses Universitaires, 2012.
[10] Dante, Inf.,XXX, 74.
[11] Idem, Par.,IX, 130.
[12] Per cui cfr. F. Melis, Fiorino, in Enciclopedia dantesca, pp. 903-4: il suo peso in oro venne originariamente concepito in modo da costituire l’esatto corrispettivo della libbra ponderale (gr. 339,452), la quale veniva tagliata in 12 soldi “di conto”; due anni prima del fiorino d’oro, quindi nel 1250, il comune di Firenze aveva emesso il “fiorino d’argento”, cioè il “grosso da soldi uno”, equivalente a 12 denari pisani. In tal modo, seguendo sempre il modulo della riforma monetaria carolingia, il fiorino d’oro era valutato pari a 20 “grossi” (cioè soldi d’argento). Questo rapporto oro-argento andò fatalmente modificandosi e divaricandosi col tempo: il catasto fiorentino del 1428 dimostra che il fiorino d’oro veniva ormai cambiato a 4 libbre d’argento, vale a dire a 80 dei vecchi “grossi” (i quali peraltro non venivano più coniati dal 1296), il quadruplo del valore originario.
[13] Palermo, Moneta, credito e cittadinanza economica; Credito e cittadinanza nell’Europa mediterranea dal medioevo all’Età Moderna, Asti, Centro Studi Renato Bordone sui Lombardi, sul Credito e sulla Banca, 2014.
[14] Cfr. La “Casa di San Giorgio”: il potere del credito, a cura di G. Felloni, Genova 2006.
[15] Cfr. p.es. F. Franceschi, I mercanti-banchieri fiorentini del Quattrocento, in Denaro e bellezza. I banchieri, Botticelli e il rogo delle vanità, a cura di l. Segregondi e T. Parks, Firenze 2012
Questo articolo è stato pubblicato in MC da francocardini .
Nessun commento:
Posta un commento