Di Salvatore Mazza
Ho letto ieri di Giovannino, il piccolo di 4 mesi abbandonato alla nascita dai genitori perché affetto da una malattia rara e incurabile. E mi è tornata alla mente qualcosa accaduto tanti anni fa, e che ha sempre al centro Torino e il Cottolengo.
Una storia incredibile, ma verissima, la più bella che mi sia capitato di raccontare in quasi quarant’anni di giornalismo, e che ancora mi buca il cuore ogni volta che ci ripenso. E che vorrei lasciare a Giovannino come buon augurio. Era il 1990, e dopo alcuni giorni di tira e molla, dal Cottolengo ottenni il permesso di visitare il “Padiglione degli Angeli” , la parte della Piccola Casa della Divina Provvidenza che ospitava i bambini nati con handicap e malformazioni gravissime, i “mostri”, quelli che i genitori abbandonavano per la vergogna, o per l’impossibilità di prendersene cura, o per la disperazione.
Arrivando a Torino ancora non sapevo che cosa avrei scritto. Una suora, di cui non ricordo purtroppo il nome, mi accompagnò al padiglione, dove vidi tanti piccoli e meno piccoli puliti, ordinati, curati e amati. Finito il giro, la suora mi chiese: «Ha tempo per incontrare una persona?». Certo. Mi lasciò in un salottino, dove qualche minuto dopo rientrò accompagnata da una signora di oltre settant’anni, piccolina, minuta, i capelli tutti bianchi, e un gran sorriso. «Ecco, questa è la signora Laura, forse sarebbe interessante per lei ascoltare la sua storia».
Una storia iniziata una quindicina di anni prima, esattamente il giorno che la signora Laura era andata in pensione dopo aver lavorato più di quarant’anni alle poste. Né marito né figli, il suo programma era di permettersi, con i risparmi di una vita e la liquidazione, il lusso di qualche viaggio. Il primo fu un pellegrinaggio, in pullman. C’erano anche due suore, con le quali iniziò a parlare del più e del meno. Quando venne fuori che lei, Laura, suonava il pianoforte, le chiesero se qualche giorno le sarebbe andato di suonare «per i nostri bambini». Rispose di sì, ma tutto si sarebbe aspettato tranne che di ritrovarsi, un paio di giorni dopo, tra gli “angeli” del Cottolengo. «Sul momento fu uno choc terribile», mi confessò. Però riuscì a suonare, e suonò per più di un’ora.
Prima di andare via - «Torni quando vuole, e grazie», le dissero le suore – passò a salutare i bambini e, in un lettino, ce n’era uno di forse nove anni, cieco e praticamente senza faccia, nato così. Si «fece coraggio» - usò proprio questa espressione – e allungata la mano gli sfiorò i capelli con una carezza. «Chi sei?». «Mi chiamo Laura». «Io sono Mario. Tu sei mia mamma». Non era una domanda, era un’elezione, un’investitura.
E in effetti sarebbe tornata, Laura, tra quelle mura. Sempre più spesso, fino a farlo tutti i giorni. Oramai “mamma Laura” per tutti, andava lì ad accudire il Mario, lo aiutava a fare i compiti, le passeggiate la domenica e poi d’estate qualche giorno di vacanza insieme… no, mamma Laura non riuscì mai a fare i viaggi che aveva sognato, i soldi servivano per pagare le complesse e costose operazioni di chirurgia plastica che provavano a restituire fisionomia al volto di Mario, e furono tante. Sempre insieme, Mario e mamma Laura, sempre, anno dopo anno.
Anche quando Mario, verso i diciotto anni, volle provare a ritrovare i suoi genitori. Non si sapeva chi fossero, l’unica cosa nota delle sue origini era che era nato in un paese del Veneto. Mamma Laura l’accompagno’, ma le ricerche non approdarono a niente. Mario allora lasciò nel libro del vangelo davanti all’altare di una chiesa una lettera con la sua storia, un numero di telefono e una domanda: per caso qualcuno mi sa dire chi sono i miei genitori? Tornarono a Torino, senza molte speranze. Ma dopo qualche mese il telefono di mamma Laura squillo’.
Era il parroco della chiesa dove Mario aveva lasciato la sua lettera. Aveva trovato la famiglia di Mario, padre madre e due sorelle, aveva parlato con loro, e anche loro volevano riabbracciarlo. Mamma Laura e Mario tornarono di corsa in Veneto, e fu una festa. Si rividero a Torino, e fissarono un terzo appuntamento che però, all’ultimo momento, saltò. Mamma Laura provò a fissarlo di nuovo, ma il telefono squillava a vuoto. Finalmente, dopo qualche settimana, le rispose la madre: «Ci abbiamo provato, ma… ».
Ora doveva dire a Mario che i suoi genitori l’avevano rifiutato un’altra volta. Indugio’ qualche giorno, poi, come quando gli aveva dato quella prima carezza, si fece coraggio: «Sai, ho parlato con tua madre…». Mario neanche la lasciò finire, aveva già capito tutto da un pezzo. Disse solo: «Tu sei mia madre». Mario trovò lavoro, si sposò e non si voltò più indietro. Sempre accanto a mamma Laura. Sua madre.
Nessun commento:
Posta un commento