G. K. Chesterton, L’Ortodossia, traduz. dall’inglese e pref. di R. Ferruzzi, Roma, Casa Editrice Ausonia, 1927, pp. 205, L. 12.
Ormai è un libro noto.
Di quelli che sembran doversi leggere da quanti, più o meno modestamente, fanno professione di intellettualità. Ed ora che una buona traduzione italiana, dopo circa venti anni da che era apparso in inglese, lo volgarizza da noi, se ne parla un po’ dappertutto. Si fa notare l’umorismo dell’autore, il quale paragona se stesso ad un “yacthman inglese, che, per un lieve errore di calcolo nella sua rotta, scoprì l’Inghilterra, credendo di aver scoperto una nuova isola nei mari del Sud”, ad uno, cioè, “che ha tentato di fondare una eresia, e quando stava per darle gli ultimi tocchi, ha capito che non era altro che l’ortodossia” (pp. 2-5)
Si fa notare anche che il libro fu scritto quando il Chesterton non era ancora ufficialmente convertito al cattolicesimo, e che, nonostante il titolo, non si deve cercare nel libro una esposizione chiara e organica di idee ortodosse, come, per esempio, l’esposizione fatta dallo Stoddard, col suo Ricostituendo una fede perduta; ma una precisa orientazione verso la concezione religiosa, anzi verso “la teologia cristiana”.
Si è anche detto del singolare valore apologetico del libro, non solo per il nome dell’autore, ch’è tra i principi della letteratura inglese contemporanea, ma altresì per le acute, originali, salaci osservazioni ch’esso contiene contro il complicato e formidabile arsenale dell’ideologia moderna avversaria alla fede. E si è cercato d’afferrare una trama del libro, ma la cosa non è stata facile. C’è, intanto, una trama?
Perchè far emergere questo, o quell’altro punto, che sembra fondamentale, o spiegarne altri oscuri o paradossali, come hanno fatto alcuni, non è già cogliere il contenuto dialettico del libro. Vero è che il libro è tutta una polemica, e che le pagine dedicate ad ognuna delle principali correnti di pensiero (razionalismo, cap. II; materialismo e determinismo, pp. 20-64-68; scetticismo, 22-27; positivismo, 54; immanentismo, 85-154; naturalismo, 87; liberalismo, 150, ecc. ecc.) ed altre consacrate a precise affermazioni apologetiche (tradizione, pp. 50, 74, 126, 137, 189; ottimismo, c. III; miracolo, 151-183; suicidio e martirio, 83; Cristo, 165-178; ecc. ecc.); ma a torto, credo io, si cercherebbe nel libro una costruzione sistematica.
Perciò il libro riesce, nel suo svolgimento, tutt’altro che chiaro. Non solo l’umorismo, diffuso con elegantissima finezza, adopera tutto un apparato di allusioni, di scorci, di sottintesi, di riferimenti impliciti, che reclamano o familiarità consumata con la cultura moderna ed inglese, o un’attenzione riflessiva e sottile. Ma spesso si ha l’impressione che l’autore scrivendo una cosa voglia dimostrarne un’altra; che cioè lo scritto abbia un significato recondito secondo l’esposizione di tesi quanto mai inattesi e bizzarre. (v., per es., il cap. IV: la morale delle favole, dove con l’esaltazione del meraviglioso e fanciullesco mondo fantastico è fatta la difesa del senso comune, del criterio di necessità, di casualità e dei principi etici fondamentali del cristianesimo, ecc. ecc.)
Con questa ricerca in chiave filosofica si potrebbe estrarre, almeno approssimativamente, il valore concettuale dei singoli capitoli (I, attualità del Credo; II e III, critica del razionalismo; IV, i principi sani della logica, della metafisica e dell’etica; V, bontà dell’essere; VI, razionalità complessa del cristianesimo e sua apologia per elisione o combinazione di obiezioni contrarie; VII, progresso ed evoluzione; VIII, critica del liberalismo, materialismo e immanentismo; IX, aspetti particolari del cristianesimo).
Ma quest’indagine sarebbe contro l’indole del libro. La quale ci sembra esattamente questa: il cristianesimo è vero, perché è strano. Cioè la verità, per eccellenza dogmatica e tradizionale, è quella che risponde alle esigenze più irrequiete e spinte del cerebralismo moderno. La forma normale per antonomasia è, per la sua singolarità, la forma più capace di meravigliare. La via maestra è la più traversa di tutte. O meglio, viceversa, l’eccentricità più originale, più artistica, più libera, più feconda e più viva deve fissarsi nel centro immobile del Credo antico. Ecco la scoperta della patria, di cui parla il primo capitolo.
É quindi un libro eminentemente romantico. Ecco come si esprime l’Autore: “Questo è il sensazionale romanzo dell’ortodossia. Taluni hanno preso la stupida abitudine di parlare dell’ortodossia come qualche cosa di pesante, di monotono e di sicuro. Non c’è, invece, niente di così pericoloso e di così eccitante come l’ortodossia: l’ortodossia è la saggezza, e l’esser saggi è più drammatico che l’esser pazzi: è l’equilibrio di un uomo dietro cavalli che corrono a precipizio, che pare si chini da una parte, si spenzoli dall’altra, e pure, in ogni atteggiamento, conserva la grazia della statuaria, e la precisione dell’aritmetica” (p. 118).
Questo è il motivo che si ripete in tutto i libro. Si spiega allora come le più capricciose argomentazioni siano continuamente usate. Gli argomenti ad hominem e di convenienza, le conclusioni estreme di principii errati introdotte per assurdo, le ipotesi più sconcertanti, le similitudini più divertenti sono all’ordine del giorno, per sboccare qua e là in meravigliose ed esattissime osservazioni e in pagine di grandissimo valore artistico (p. es., p. 186). La schermaglia precede l’apologetica. Un andamento quasi distratto e svogliato, bonario e dinoccolato prende improvviso slancio verso una meta che sembrava inaccessibile: la mossa è sempre elegante e sicura. Tanto che le risorse logiche ed illogiche d’una simile argomentazione lasciano pensare a quel gioco che i fanciulli fanno con lo spago teso e complicato fra le mani, prendendoselo l’un l’altro sempre diversamente e inattesamente annodato.
Ciò potrebbe deporre per un’inferma efficacia persuasiva, e per una discutibile autenticità della sua “ortodossia”. Ma si vorrà tener calcolo dell’aspetto assai soggettivo del libro, il quale più che dal rigore logico, trae la sua forza dalla psicologia dell’autore, e più che costruire, vuole demolire i paralogismi avversari con gli stessi sistemi o procedimenti dialettici con cui furono contrapposti al cristianesimo. Si vorrà tenere calcolo, altresì, della libertà artistica che l’opera originale reclama e che certamente nessuno può incolpare in questo caso, di superficialità. E infine occorrerà scoprire nel libro un ricorso a quelle idee di senso comune, che sono patrimonio dello spirito inglese, e che, senza ricorrere alla errata sistemazione filosofica fattane dalla scuola scozzese, contengono tanta sapienza autentica ed immortale.
Accettiamo quindi ben volentieri il contributo apologetico che la traduzione di Ortodossia può portare anche fra i lettori italiani.
(g. b. m.).
In Studium, a. 23 (1927), n. 6 (giugno) pp. 338-339.
1 commento:
Caro Angelo, grazie mille!
Mi sono permesso di piazzarlo intero intero sul blog della Società.
E' molto bello ed acuto.
Ti ho anche ringraziato pubblicamente.
Ti segnalo il mio blog personale: http://marcosermarini.blogspot.com, così, tanto per gradire.
ciao a presto
Marco
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