martedì, giugno 15, 2010

Vivo Altrove

Vivo Altrove: "

Claudia Cucchiarato, Vivo Altrove. Bruno Mondadori, 2010, 228 pp. 18€



La categoria degli “italiani all’estero”  di tanto in tanto, vuoi per vicende elettorali, vuoi per il suo essere cartina al tornasole vera o presunta di molti malesseri, richiama a fasi alterne l’attenzione dei media e degli studiosi. Raramente si è però cercato di dare una voce alla sua versione più recente e nascosta, impersonata da quai giovani sotto i trent’anni che lasciano l’Italia nel periodo degli studi universitari o immediatamente dopo. Le loro testimonianze le si ritrova disperse nei blog, nelle lettere ai quotidiani, in qualche documento video. In tal senso il libro di Claudia Cucchiarato, Vivo altrove, è un utile spaccato, che si raccomanda per la scrittura asciutta, la mano leggera, la discrezione nel raccogliere narrazioni intime e sofferte; e si lascia perdonare una certa inclinazione al pathos. L’autrice, collaboratrice de l’Unità, è essa stessa expat a Barcellona da diversi anni. In tutti i casi narrati assistiamo a piccole epiche della conquista e della crescita, con passaggi obbligati: il viaggio con un biglietto di sola andata in tasca, gli inizi difficili, il caso, l’amore, i traslochi, la solitudine, l’affermazione professionale; e lungo il tragitto lo spazio di libertà conquistata, lo sguardo critico sull’Italia, la sensazione che nel Paese d’origine un percorso come quello che si è fatto non lo si sarebbe mai potuto fare, non alle condizioni che ormai si giudicano irrinunciabili.


Vorrei invitare a riflettere sul potere di attrazione di queste narrazioni epiche. Direi che questo potere deriva in parte da una concettualizzazione ancora carente dello spostarsi oltre confine. Si parla di “emigranti” per chiunque vada a vivere o lavorare oltre confine, ma andare a lavorare a Parigi, Barcellona, Londra o Berlino non è oggi, nel ventunesimo secolo, emigrare. Emigra o espatria chi sceglie di attraversare l’Atlantico o di andare a Dubai o Shangai. L’Europa di Schengen, quella dell’EURO e financo l’Unione allargata non dovrebbero più essere considerate come un luogo di “emigrazione” per gli italiani. La differenza rispetto all’emigrazione antica o lontana sta in parte nel quadro normativo: la cittadinanza europea, la non necessità del permesso di soggiorno, la moneta unica, il trasferimento dei contributi previdenziali, i trattati contro la doppia tassazione, la possibilità di muoversi senza controlli. In parte, naturalmente, contano il proliferare dei voli low cost e la caduta verticale dei costi di comunicazione – telefonare da Parigi a Roma costa come farlo da Ostia. Gli ultimi due fattori, economici, hanno ampia risonanza nei media, ma sono i primi a rendere possibile una vita normale a chi si sposta in cerca di impiego. Cucchiarato parla di questi fattori; ma mi sembra che delle conseguenze assai poco timide potrebbero venir tratte dal fatto che per un torinese è altrettanto se non più semplice andare a vivere a Parigi che a Napoli, al di là delle considerazioni sull’offerta di lavoro. L’Europa, o una delle Europe sopraccitate, è oggi non tanto un ideale sopranazionale, ma la soluzione pragmatica all’esigenza di mobilità dei suoi cittadini, e in particolare di quelli che si affacciano al mondo del lavoro.


La rivoluzione concettuale cui si deve lavorare è allora quella che ci permette di ridefinire gli emigranti intraeuropei essenzialmente come persone che effettuano una mobilità; per loro alla categoria dell’emigrazione va semplicemente sostituita quella della mobilità. Anche per il discusso voto degli italiani all’Estero questa sostituzione avrebbe la sua importanza: chi dall’Italia si muove in Europa dovrebbe avere il diritto non tanto di votare per il Parlamento Italiano, ma di votare per il Parlamento del Paese in cui si è spostato. Dopotutto – rovesciando un argomento amato dai detrattori del voto estero – è lì che paga le sue tasse. Una classe politica avvertita potrebbe cominciare a ragionare sulla possibilità di dare un quadro europeo a questo diritto, quantomeno un quadro che incoraggi rapporti bilaterali in tal senso. Su tutt’altro fronte, imprenditori avvisati potrebbero cominciare a ragionare sulla possibilità di consorziarsi per offrire pacchetti che includano un job per il partner di chi intendono assumere, sulla falsariga di quanto avviene negli Stati Uniti persino nel mondo accademico.  E la previdenza potrebbe cominciare a tener conto delle particolari condizioni di precarietà di chi è in mobilità, e studiare reti di sicurezza specifiche per chi si trova a vivere altrove. In un paese come l’Italia in cui la famiglia è l’incarnazione del principio di sussidiarietà, sapere che i propri genitori in patria sono seguiti in maniera consona e degna dal sistema sanitario e previdenziale non è un dettaglio indifferente per chi si muove. La lista è lunga. Va affrontata, altrimenti ci troviamo nella situazione moralmente non ineccepibile di avere un esercito di persone mobili ma prive di tutele.


L’epica delle storie raccolte da  Claudia Cucchiarato non è quella dell’emigrazione, così  prossima alle grandi narrazioni dell’esilio. È piuttosto l’epica dell’uscita di casa, dell’indipendenza conquistata. Riconfigurare le storie di Vivo altrove come storie di mobilità permette di vedere di quale difficoltà italiana esse in fondo raccontino. È la difficoltà di muoversi in Italia ad essere il tema nascosto del libro. Uscire di casa, cercare un’indipendenza a venti, a venticinque anni, non è agevole in Italia. La mobilità europea è semplicemente la soluzione al problema delle insufficienti condizioni per la mobilità italiana.

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