Minima Cardiniana 128
Pubblicato il 26 giugno 2016
Domenica 26 giugno 2016 . San Vigilio vescovo e martire
BREXIT: E POI?
Ecco: questa è la vita. A settantacinque anni già quasi trascorsi, ti accorgi non solo che – come diceva Eduardo – gli esami non finiscono mai, ma soprattutto che non s’impara mai abbastanza. Quando credi che il senso della storia, almeno quello, sia quasi a portata di mano, ecco l’Augenblick di Goethe, l’Imponderabile di Pareto, l’Evento di Braudel che ti arrivano addosso e scompigliano le solide conquiste di “lunghe” e “brevi” durate.Ecco: questa è la storia. Un paio di giorni fa, nella fatidica notte del 24 giugno scorso – la solstiziale Notte di San Giovanni, che nel folklore europeo è quella “delle streghe” come l’Halloween (che poi, a sua volta, è la venerabile notte di Ognissanti) – ho vegliato febbrilmente attaccato all’apparecchio TV seguendo passo passo le notizie che arrivavano dall’Inghilterra. A tarda notte l’affermazione del Bremain era netta, sia pur di un’incollatura: e Nigel Farage, il leader della UKIP dall’improbabile albionica cravatta rosa, dichiarava con mesta fierezza che in fondo era solo una battaglia perduta, che la guerra continuava e che il partito sarebbe cresciuto comunque. D’altra parte, un annunzio trionfale da parte delle Borse informava che le piazze continentali avevano guadagnato 190 miliardi e che la sterlina volava. Ma la notte era giovane…
Di primissimo mattino, ubriaco di stanchezza e senza troppo credere a quel che stava accadendo e che avevo visto con i miei increduli occhi, vale a dire l’affermazione del Brexit, sono uscito a caccia di cappuccino, cornetto e carta stampata. E mi sono d’un tratto sentito molto più vecchio di quanto non sia: mi sono reso sul serio conto che sono un relitto dell’altro secolo, quello splendido e terribile delle due guerre mondiali, dei totalitarismi, degli stadi, delle sale cinematografiche piene del fumo azzurrino di migliaia di sigarette, del calcio e del ciclismo, delle rotative e della carta stampata. Tutto questo mondo è irrimediabilmente finito: il web ha polverizzato le rotative; informatica e telematica hanno distrutto l’impero temibile della stampa, quello a suo tempo magnificato da Humphrey Bogart (“Questa è la stampa, baby; e tu non puoi farci niente…”). Crollo definitivo di un mondo: ch’era, che resta il mio.
Nella luce dell’alba estiva, quel 24 giugno, ho fatto sadomasochistica incetta dei giornali ancora odorosi d’inchiostro, che recavano in evidenza titoli come: “Farage ammette la vittoria dell’UE” oppure “Le Borse volano, trionfo dell’Europa”. Quotidiani febbrilmente scritti nottetempo, usciti un’ora prima e già carta straccia: tutte le TV e tutti i nostri computers ci parlavano un linguaggio ben diverso. Con disorientamento di noialtri europeisti e gioia facinorosa di tutti i contras. A Londra gli ultraconservatori e i laburisti del mio amato Jeremy Corbin, improbabili alleati nel sostenere molto tiepidamente il Bremain, si trovavano spiazzati. Ma più in crisi ancora erano quelli che alla fine, dopo lunga esitazione, si erano adattati all’idea di una vittoria del Remain sul Leave sia pure per un’incollatura: valga per tutti l’esempio di Beppe Grillo, che proprio la sera prima aveva abbandonato antichi e recenti bollori antieuro per pubblicare sul suo blog il messaggio che “il Movimento Cinque Stelle si sta battendo per trasformare l’UE dall’interno”, aperto magari all’idea di un’Europa a due velocità con alcuni paesi accodati all’egemonia germanica e ancor più privati di sovranità economico-finanziaria e altri aggruppati secondo princìpi di più blanda conduzione.
Il mutamento aveva proceduto lento ma inesorabile, dalla notte all’alba, sull’onda dei fusi orari. Giappone e Cina, allorché il sole cominciava a sfiorare i loro orizzonti, si erano solo lentamente resi conto che qualcosa stava cambiando. Ma quando l’alba era giunta ad arrossare i cieli di Milano e di Parigi, il malanno si era ormai compiuto. Un terremoto. Giù la sterlina, oltre i limiti storici; su il dollaro; alle stelle il bene-rifugio per eccellenza, l’oro. Almeno sarà un bene per le esportazioni, si mormorava sull’altra sponda della Manica. Magra consolazione, anche perché l’Inghilterra non esporta più granché. Tragedia invece per le importazioni e per i salari. E soprattutto incertezza. Che ne sarebbe stato, che ne sarà, del destino di tanti europei non-inglesi, addormentatisi la notte del 23 ancora concittadini dei britannici e svegliatisi all’alba del 24 ormai stranieri, uno spagnolo e un italiano e un polacco ormai no citizen esattamente al pari di un senegalese? Che ne sarà del confine di Calais, soggetto forse quanto meno a una necessaria ridefinizione ora che non è più coperto dal partenariato di due membri dell’Unione?
Certo, se Atene piange può anche darsi che rida Sparta: ma non è detto, e soprattutto non si sa per quanto tempo. Il 24 giugno ha segnato per le destre francesi la fine d’una lunga inimicizia che datava dal medioevo e che, attraverso san Luigi e la guerra dei Cent’Anni era arrivata fino a Napoleone e oltre: Marine Le Pen ha adornato festosamente il suo blog di una bella Union Jack mentre nell’aggrondata Edinburgo, dove i vessilli unitari britannici sono sempre stati scarsi, le bandiere azzurro-stellate dell’UE sono rimaste a lungo al loro posto, accanto a quelle decorate dalla bianca croce di Sant’Andrea. Matteo Salvini si è affrettato a parafrasare il motto dei fratelli Rosselli con uno stentoreo “Oggi in Inghilterra, domani in Italia”.
Ma intanto l’ondata recessiva è certa: e i fautori del Brexit hanno un bel dire che si tratta di un fenomeno fisiologico anziché patologico e che sarà di contenuta intensità. Certo, si aspetta con apprensione – ma qualcuno ci spera – l’Effetto Domino. Che cosa succederà in un’Europa nella quale il fronte antiunitario si va allargando mentre l’incerta Slovacchia si appresta ad assumere il suo semestre di presidenza? Intendiamoci: la questione non è emozionale, tanto è vero che il problema dei migranti, che senza dubbio è stato una delle componenti della vittoria del Brexit, è sentito con maggiore riguardo nei confronti degli europei che non degli asiatici (molti, ma spesso provenienti dai paesi del Commonwealth) o degli africani (che non sono troppi). Ora, più che un’uscita dei singoli paesi dall’Unione, si teme una serrata sequenza di riposizionamenti. Il movimento spagnolo di Podemos, ad esempio, poggia le basi del suo successo non sulla suggestione del Brexit bensì sulla disoccupazione giovanile ormai ascesa al 60%. Anzi, possiamo dire che il fronte antieuropeista ha largamente influenzato l’opinione pubblica britannica, mentre questa non ha influito su quello se non come riprova della necessità di un cambio di rotta. E non senza discriminazioni. In Austria, ad esempio, all’indomani delle elezioni del 22 maggio che avevano segnato la sconfitta dei “neonazi-antieuro” della FPŐ si era timidamente parlato di brogli elettorali: ma subito all’indomani del 24 giugno il problema è stato riesumato, e da parte di personaggi di sinistra insospettabili di simpatìe hitleriane.
Eppure, passato lo sconcerto, alcuni timidi segnali darebbero quasi a credere che la lezione inglese potrebb’essere salutare. Non bisogna affrettarsi ad attribuire la vittoria di Brexit e l’eco favorevole suscitata in certi ambienti solo a un antieuropeismo frazionistico, micronazionalista e xenofobo. C’è dell’altro: e lo si sta notando tanto in certe aree del PD, anche intorno a Renzi e nelle sue stesse dichiarazioni quanto in ambienti del Movimento Cinque Stelle alcuni esponenti del quale – al di là dell’opportunismo grillino – hanno sottolineato come la disaffezione dell’opinione pubblica per le istituzioni comunitarie sia radicata su solide e drammatiche basi economiche, fiscali, finanziarie e in ultima analisi sociali. Troppo a lungo la politica dei partiti leader europei si è omologata sui parametri del liberismo e delle privatizzazioni: troppo a lungo si è favorito, o quantomeno tollerato, l’eccessiva concentrazione della ricchezza, l’abnorme allargamento della proletarizzazione sotto forma di disoccupazione e di precariato, il preoccupante assottigliamento dei ceti medi e il loro relativo impoverimento. Per i Cinque Stelle, la “scoperta” di questo “nuovo” (?!) fronte sociale potrà sembrare la scoperta dell’acqua calda, ma potrebbe segnare il passaggio delle loro opinioni diffuse dal livello dei discorsi da Bar dello Sport a quello di una più matura coscienza politica. Sono i temi dell’austerità e della flessibilità a esser candidati a una necessaria e non dogmatica né timida verifica. Al tempo stesso, dal momento che la radice dei mali dell’Europa è non solo socioeconomica e sociofinanziaria, ma altresì politica – e non tocchiamo qui il tasto dolente e silenzioso della cultura –, si rende necessario un rilancio appunto della politica stessa, a tutto campo, non escluso (anzi, primario) lo spinoso tema della politica estera e delle alleanze internazionali: senza timore di rimettere in discussione lo stesso dogma dell’appartenenza alla NATO e delle sue condizioni (perfino Hollande è tornato a parlare di un “esercito europeo”, sia pur in termini ambigui e allarmanti). L’Europa delle élites, quella che ha crocifisso il popolo greco per salvare le banche tedesche e francesi trasformando con un gioco di prestigio i crediti in debiti e viceversa, può e magari addirittura deve esser messa finalmente in discussione: lo ammette anche un economista come Jean-Paul Fitoussi, che pure non è esattamente uno di sinistra, e che propone un atto di coraggio come un Eurobond non già in quanto misura economica bensì in quanto affermazione etica, atto di fede in un’Europa che può salvarsi se accetta di riformarsi profondamente. Ma si può sperare in una seria rinascita europeistica all’interno dell’Eurolandia, con una banca centrale Europea in mano a privati? I Cinque Stelle, uscendo dal Bar dello Sport, si vanno oggi confrontando con l’ipotesi della rinascita delle proprietà e delle gestioni pubbliche: un linguaggio che a sinistra era da tempo desueto. Ma dev’esser chiaro che senza la costruzione di una coscienza civica europea (quella che a cominciare da mezzo secolo fa le scuole dei singoli paesi aderenti avrebbero dovuto costruire) non si va da nessuna parte. E’ questo che deve capire anche Renzi, mettendo la sordina a quanto gli vanno da troppo tempo sussurrando alle orecchie i suoi consiglieri lobbisti, lasciando da parte i Chief Executive Officiers che lo attorniano con le loro false competenze e i loro masters fasulli e tornando a rilanciare la politica come centro della vita sociale. Del resto, la storia e la cultura contano sempre: possiamo anche ignorarle, ma loro si ricordano di noi. Il Brexit ha vinto anche perché in ogni buon britannico sonnecchia la solida consapevolezza di un’europeicità profonda certo, ma accompagnata (e sotto molti profili “corretta”) da un’altra appartenenza, quella al Commonwealth, che almeno dal Cinquecento è stata alla base della coscienza identitaria del Regno Unito in quanto Leviathan dominatore dei mari, contrapposto al Behemoth continentale. Non si dimentichi mai la lezione del mirabile Il Nomos della Terra di Carl Schmitt, che dovrebb’essere la Bibbia di ogni europeista cosciente di esser tale e degno di questo nome. Altrimenti si confonde l’Europa con l’Occidente e la Modernità: ch’è cosa gravissima.
A proposito. Io resto cattolico, socialista ed europeista. Resto convinto che l’Eurolandia sociofinanziaria non serve, che più che una falsa partenza v’è stato un ignobile malinteso e che è necessaria un’Europa politicamente unita e in grado di superare le pastoie degli stati nazionali. Resto persuaso che l’Europa non si salva se gli europei non capiscono di esser parte di un mondo ormai insopportabilmente segnato da un’intollerabile sperequazione, da un’abissale distanza tra i pochissimi troppo ricchi e i moltissimi troppo poveri. Questa è la radice di tutti i mali. La ridistribuzione secondo giustizia e umanità delle risorse della terra è necessaria e inevitabile, pena la rovina del genere umano. Se l’Europa unita non si assumerà il còmpito d’intraprendere di nuovo il cammino verso la giustizia sociale e la dignità umana, ogni sforzo sarà vano.
Qualcuno obietterà forse che questa è poesia, mentre il difficile momento richiede la scabra, concreta, realistica prosa delle ricette economiche. E’ vero il contrario: nei momenti di crisi, è sempre la poesia che ci salva.
Franco Cardini
dal blog dell’autore
L'articolo La Brexit vista da Franco Cardini è tratto da Blondet & Friends, che mette a disposizione gratuitamente gli articoli di Maurizio Blondet assieme ai suoi consigli di lettura.BREXIT: E POI?
Ecco: questa è la vita. A settantacinque anni già quasi trascorsi, ti accorgi non solo che – come diceva Eduardo – gli esami non finiscono mai, ma soprattutto che non s’impara mai abbastanza. Quando credi che il senso della storia, almeno quello, sia quasi a portata di mano, ecco l’Augenblick di Goethe, l’Imponderabile di Pareto, l’Evento di Braudel che ti arrivano addosso e scompigliano le solide conquiste di “lunghe” e “brevi” durate.Ecco: questa è la storia. Un paio di giorni fa, nella fatidica notte del 24 giugno scorso – la solstiziale Notte di San Giovanni, che nel folklore europeo è quella “delle streghe” come l’Halloween (che poi, a sua volta, è la venerabile notte di Ognissanti) – ho vegliato febbrilmente attaccato all’apparecchio TV seguendo passo passo le notizie che arrivavano dall’Inghilterra. A tarda notte l’affermazione del Bremain era netta, sia pur di un’incollatura: e Nigel Farage, il leader della UKIP dall’improbabile albionica cravatta rosa, dichiarava con mesta fierezza che in fondo era solo una battaglia perduta, che la guerra continuava e che il partito sarebbe cresciuto comunque. D’altra parte, un annunzio trionfale da parte delle Borse informava che le piazze continentali avevano guadagnato 190 miliardi e che la sterlina volava. Ma la notte era giovane…
Di primissimo mattino, ubriaco di stanchezza e senza troppo credere a quel che stava accadendo e che avevo visto con i miei increduli occhi, vale a dire l’affermazione del Brexit, sono uscito a caccia di cappuccino, cornetto e carta stampata. E mi sono d’un tratto sentito molto più vecchio di quanto non sia: mi sono reso sul serio conto che sono un relitto dell’altro secolo, quello splendido e terribile delle due guerre mondiali, dei totalitarismi, degli stadi, delle sale cinematografiche piene del fumo azzurrino di migliaia di sigarette, del calcio e del ciclismo, delle rotative e della carta stampata. Tutto questo mondo è irrimediabilmente finito: il web ha polverizzato le rotative; informatica e telematica hanno distrutto l’impero temibile della stampa, quello a suo tempo magnificato da Humphrey Bogart (“Questa è la stampa, baby; e tu non puoi farci niente…”). Crollo definitivo di un mondo: ch’era, che resta il mio.
Nella luce dell’alba estiva, quel 24 giugno, ho fatto sadomasochistica incetta dei giornali ancora odorosi d’inchiostro, che recavano in evidenza titoli come: “Farage ammette la vittoria dell’UE” oppure “Le Borse volano, trionfo dell’Europa”. Quotidiani febbrilmente scritti nottetempo, usciti un’ora prima e già carta straccia: tutte le TV e tutti i nostri computers ci parlavano un linguaggio ben diverso. Con disorientamento di noialtri europeisti e gioia facinorosa di tutti i contras. A Londra gli ultraconservatori e i laburisti del mio amato Jeremy Corbin, improbabili alleati nel sostenere molto tiepidamente il Bremain, si trovavano spiazzati. Ma più in crisi ancora erano quelli che alla fine, dopo lunga esitazione, si erano adattati all’idea di una vittoria del Remain sul Leave sia pure per un’incollatura: valga per tutti l’esempio di Beppe Grillo, che proprio la sera prima aveva abbandonato antichi e recenti bollori antieuro per pubblicare sul suo blog il messaggio che “il Movimento Cinque Stelle si sta battendo per trasformare l’UE dall’interno”, aperto magari all’idea di un’Europa a due velocità con alcuni paesi accodati all’egemonia germanica e ancor più privati di sovranità economico-finanziaria e altri aggruppati secondo princìpi di più blanda conduzione.
Il mutamento aveva proceduto lento ma inesorabile, dalla notte all’alba, sull’onda dei fusi orari. Giappone e Cina, allorché il sole cominciava a sfiorare i loro orizzonti, si erano solo lentamente resi conto che qualcosa stava cambiando. Ma quando l’alba era giunta ad arrossare i cieli di Milano e di Parigi, il malanno si era ormai compiuto. Un terremoto. Giù la sterlina, oltre i limiti storici; su il dollaro; alle stelle il bene-rifugio per eccellenza, l’oro. Almeno sarà un bene per le esportazioni, si mormorava sull’altra sponda della Manica. Magra consolazione, anche perché l’Inghilterra non esporta più granché. Tragedia invece per le importazioni e per i salari. E soprattutto incertezza. Che ne sarebbe stato, che ne sarà, del destino di tanti europei non-inglesi, addormentatisi la notte del 23 ancora concittadini dei britannici e svegliatisi all’alba del 24 ormai stranieri, uno spagnolo e un italiano e un polacco ormai no citizen esattamente al pari di un senegalese? Che ne sarà del confine di Calais, soggetto forse quanto meno a una necessaria ridefinizione ora che non è più coperto dal partenariato di due membri dell’Unione?
Certo, se Atene piange può anche darsi che rida Sparta: ma non è detto, e soprattutto non si sa per quanto tempo. Il 24 giugno ha segnato per le destre francesi la fine d’una lunga inimicizia che datava dal medioevo e che, attraverso san Luigi e la guerra dei Cent’Anni era arrivata fino a Napoleone e oltre: Marine Le Pen ha adornato festosamente il suo blog di una bella Union Jack mentre nell’aggrondata Edinburgo, dove i vessilli unitari britannici sono sempre stati scarsi, le bandiere azzurro-stellate dell’UE sono rimaste a lungo al loro posto, accanto a quelle decorate dalla bianca croce di Sant’Andrea. Matteo Salvini si è affrettato a parafrasare il motto dei fratelli Rosselli con uno stentoreo “Oggi in Inghilterra, domani in Italia”.
Ma intanto l’ondata recessiva è certa: e i fautori del Brexit hanno un bel dire che si tratta di un fenomeno fisiologico anziché patologico e che sarà di contenuta intensità. Certo, si aspetta con apprensione – ma qualcuno ci spera – l’Effetto Domino. Che cosa succederà in un’Europa nella quale il fronte antiunitario si va allargando mentre l’incerta Slovacchia si appresta ad assumere il suo semestre di presidenza? Intendiamoci: la questione non è emozionale, tanto è vero che il problema dei migranti, che senza dubbio è stato una delle componenti della vittoria del Brexit, è sentito con maggiore riguardo nei confronti degli europei che non degli asiatici (molti, ma spesso provenienti dai paesi del Commonwealth) o degli africani (che non sono troppi). Ora, più che un’uscita dei singoli paesi dall’Unione, si teme una serrata sequenza di riposizionamenti. Il movimento spagnolo di Podemos, ad esempio, poggia le basi del suo successo non sulla suggestione del Brexit bensì sulla disoccupazione giovanile ormai ascesa al 60%. Anzi, possiamo dire che il fronte antieuropeista ha largamente influenzato l’opinione pubblica britannica, mentre questa non ha influito su quello se non come riprova della necessità di un cambio di rotta. E non senza discriminazioni. In Austria, ad esempio, all’indomani delle elezioni del 22 maggio che avevano segnato la sconfitta dei “neonazi-antieuro” della FPŐ si era timidamente parlato di brogli elettorali: ma subito all’indomani del 24 giugno il problema è stato riesumato, e da parte di personaggi di sinistra insospettabili di simpatìe hitleriane.
Eppure, passato lo sconcerto, alcuni timidi segnali darebbero quasi a credere che la lezione inglese potrebb’essere salutare. Non bisogna affrettarsi ad attribuire la vittoria di Brexit e l’eco favorevole suscitata in certi ambienti solo a un antieuropeismo frazionistico, micronazionalista e xenofobo. C’è dell’altro: e lo si sta notando tanto in certe aree del PD, anche intorno a Renzi e nelle sue stesse dichiarazioni quanto in ambienti del Movimento Cinque Stelle alcuni esponenti del quale – al di là dell’opportunismo grillino – hanno sottolineato come la disaffezione dell’opinione pubblica per le istituzioni comunitarie sia radicata su solide e drammatiche basi economiche, fiscali, finanziarie e in ultima analisi sociali. Troppo a lungo la politica dei partiti leader europei si è omologata sui parametri del liberismo e delle privatizzazioni: troppo a lungo si è favorito, o quantomeno tollerato, l’eccessiva concentrazione della ricchezza, l’abnorme allargamento della proletarizzazione sotto forma di disoccupazione e di precariato, il preoccupante assottigliamento dei ceti medi e il loro relativo impoverimento. Per i Cinque Stelle, la “scoperta” di questo “nuovo” (?!) fronte sociale potrà sembrare la scoperta dell’acqua calda, ma potrebbe segnare il passaggio delle loro opinioni diffuse dal livello dei discorsi da Bar dello Sport a quello di una più matura coscienza politica. Sono i temi dell’austerità e della flessibilità a esser candidati a una necessaria e non dogmatica né timida verifica. Al tempo stesso, dal momento che la radice dei mali dell’Europa è non solo socioeconomica e sociofinanziaria, ma altresì politica – e non tocchiamo qui il tasto dolente e silenzioso della cultura –, si rende necessario un rilancio appunto della politica stessa, a tutto campo, non escluso (anzi, primario) lo spinoso tema della politica estera e delle alleanze internazionali: senza timore di rimettere in discussione lo stesso dogma dell’appartenenza alla NATO e delle sue condizioni (perfino Hollande è tornato a parlare di un “esercito europeo”, sia pur in termini ambigui e allarmanti). L’Europa delle élites, quella che ha crocifisso il popolo greco per salvare le banche tedesche e francesi trasformando con un gioco di prestigio i crediti in debiti e viceversa, può e magari addirittura deve esser messa finalmente in discussione: lo ammette anche un economista come Jean-Paul Fitoussi, che pure non è esattamente uno di sinistra, e che propone un atto di coraggio come un Eurobond non già in quanto misura economica bensì in quanto affermazione etica, atto di fede in un’Europa che può salvarsi se accetta di riformarsi profondamente. Ma si può sperare in una seria rinascita europeistica all’interno dell’Eurolandia, con una banca centrale Europea in mano a privati? I Cinque Stelle, uscendo dal Bar dello Sport, si vanno oggi confrontando con l’ipotesi della rinascita delle proprietà e delle gestioni pubbliche: un linguaggio che a sinistra era da tempo desueto. Ma dev’esser chiaro che senza la costruzione di una coscienza civica europea (quella che a cominciare da mezzo secolo fa le scuole dei singoli paesi aderenti avrebbero dovuto costruire) non si va da nessuna parte. E’ questo che deve capire anche Renzi, mettendo la sordina a quanto gli vanno da troppo tempo sussurrando alle orecchie i suoi consiglieri lobbisti, lasciando da parte i Chief Executive Officiers che lo attorniano con le loro false competenze e i loro masters fasulli e tornando a rilanciare la politica come centro della vita sociale. Del resto, la storia e la cultura contano sempre: possiamo anche ignorarle, ma loro si ricordano di noi. Il Brexit ha vinto anche perché in ogni buon britannico sonnecchia la solida consapevolezza di un’europeicità profonda certo, ma accompagnata (e sotto molti profili “corretta”) da un’altra appartenenza, quella al Commonwealth, che almeno dal Cinquecento è stata alla base della coscienza identitaria del Regno Unito in quanto Leviathan dominatore dei mari, contrapposto al Behemoth continentale. Non si dimentichi mai la lezione del mirabile Il Nomos della Terra di Carl Schmitt, che dovrebb’essere la Bibbia di ogni europeista cosciente di esser tale e degno di questo nome. Altrimenti si confonde l’Europa con l’Occidente e la Modernità: ch’è cosa gravissima.
A proposito. Io resto cattolico, socialista ed europeista. Resto convinto che l’Eurolandia sociofinanziaria non serve, che più che una falsa partenza v’è stato un ignobile malinteso e che è necessaria un’Europa politicamente unita e in grado di superare le pastoie degli stati nazionali. Resto persuaso che l’Europa non si salva se gli europei non capiscono di esser parte di un mondo ormai insopportabilmente segnato da un’intollerabile sperequazione, da un’abissale distanza tra i pochissimi troppo ricchi e i moltissimi troppo poveri. Questa è la radice di tutti i mali. La ridistribuzione secondo giustizia e umanità delle risorse della terra è necessaria e inevitabile, pena la rovina del genere umano. Se l’Europa unita non si assumerà il còmpito d’intraprendere di nuovo il cammino verso la giustizia sociale e la dignità umana, ogni sforzo sarà vano.
Qualcuno obietterà forse che questa è poesia, mentre il difficile momento richiede la scabra, concreta, realistica prosa delle ricette economiche. E’ vero il contrario: nei momenti di crisi, è sempre la poesia che ci salva.
Franco Cardini
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