Alla fine della “guerra dei Trent’Anni”,
con i trattati di Westfalia del 1648, l’Europa dissanguata in una dura e
lunghissima “guerra di religione” trovò la forza di sancire la
necessità di una mutua inter christianos tolerantia, dal
godimento della quale beninteso – e per definizione – erano esclusi
ebrei e musulmani. Sarebbe spettato più tardi al Locke, al Voltaire e ai
philosophes il riallacciarsi alle intuizioni dei sofisti e
degli stoici greci per affinare quel concetto di tolleranza come
atteggiamento disposto a riconoscere legittimità alle idee e ai
comportamenti di chicchessia, compresi quelli più remoti rispetto ai
propri. Un atteggiamento che peraltro difficilmente si compone – stoica e
poi anche cristiana – che esista un “diritto naturale” secondo il quale
alcune scelte umane sono corrette e legittime, altre aberranti e
inammissibili. D’altro canto, è stato da più parti notato quanto il
concetto di “tolleranza” sia ambiguo, sottintendendo non una convinta e
rispettosa accettazione di qualunque tipo di atteggiamento bensì una
volenterosa e benevola sopportazione – che di per sé non implica
comprensione – di quanto sentiamo profondamente alieno da noi stessi.
Sappiamo inoltre molto bene tutti che gli atteggiamenti tollerantistici
vengono spesso disattesi nella pratica da quelli stessi che se ne
proclamano teoricamente convinti: anche perché si tende a ritenere che
una tolleranza piena e assoluta sia un paradosso, anzi un ossimoro. E’
quanto in fondo si riassume nell’adynaton della massima
“vietato vietare”: che impone come perentorio dovere quello stesso
divieto che si proclama di voler eliminare ad ogni costo.
La nostra morale “laica” dipende
largamente, com’è noto, da quella cristiana: che a sua volta, pur avendo
accolto profondamente la lezione della filosofia ellenistico-romana,
poggia sulla base incrollabile di quel decalogo mosaico il cui
termine-chiave, lo, esprime in ebraico un fermo diniego,
un’irremissibile proibizione. Eppure noi non percepiamo né la morale
laica né i suoi precedenti cristiani come intollerantistici: affidiamo
semmai all’etica il còmpito di stabilire il limite tra il lecito e
l’illecito, salvo poi il chiederci se tale limite sia o meno assoluto e
se, e quando, lo si possa/debba valicare per porsi al di là da esso. In
questo senso la tolleranza si pone come concetto mediatore tra l’etica
da un alto, la libertà dall’altro. In modo analogo, sul piano sociale,
all’interno del celebre trinomio giacobino la fraternità si pone come
concetto mediatore tra l’uguaglianza da un lato, la libertà dall’altro.
L’Islam è ricco di pratiche e anche minute proibizioni, le quali peraltro – espressi nel Corano e negli Hadith del
Profeta, da dove sono passati nell’insegnamento delle varie scuole
teologico-giuridiche – non sono mai rigorosamente e definitivamente
sanciti (nemmeno quelle alimentari della tradizione halal) dato
che il mondo musulmano è privo di un’autorità in grado d’inquadrarlo in
un senso istituzionale, cioè di una Chiesa, se non in quel ch’è in
maniera esplicita proclamato dalla “testimonianza di fede”, la shahada, vale
a dire che non vi è altra divinità se non Iddio, inviato del quale è
Muhammad. I cinque princìpi di base della fede musulmana, gli Arkan al-Islam, esprimono atteggiamenti pratici (recitazione della shahada, preghiere quotidiane, digiuno del Ramadan, pellegrinaggio alla Mecca, elemosina
legale commisurata ai bisogni comunitari) che non comportano in sé un
divieto. Esso parrebbe quindi strutturalmente inadatto a ospitare
concetti e pratiche ispirate a intolleranza: eppure nel comune sentire
occidentale esso è considerato “intollerante” per varie ragioni, in
ultima analisi tutte ispirate al suo rigoroso monoteismo e al concetto
d’irreversibilità sulla via della Rivelazione, per cui a nessuno che
abbia conseguito la perfezione della fede divenendo musulmano è
consentito recedere da essa. Da ciò dipendono altre forme di divieto
concepito dai non-musulmani come “intolleranza”: esse si riassumono nel
concetto di haram, “inviolabile” e perciò “vietato”, “escluso”.
Oggi si tende, nel mondo non-musulmano, a
scorgere nell’Islam quel che, con molte variabili, è comunque presente
in qualunque religione e in particolar modo nelle tre di ceppo
abramitico, fondate sul principio dell’unicità di Dio, della Sua
irruzione nella storia e nella Rivelazione, da parte sua, della Verità
comunicata all’uomo.
Il fondamento delle religioni è
affidato alla Tradizione, che nel cristianesimo ha il suo centro nei
dogmi: vale a dire in verità indimostrabili alla luce e con gli
strumenti della ragione umana. Ma è proprio dal seno del cristianesimo
che ha gradualmente preso forma la Modernità: che è la più originale,
profonda e importante trasformazione che il mondo abbia mai conosciuto
nel corso della sua storia. La Modernità sancisce il progressivo trionfo
della ragione umana liberata da qualsiasi condizionamento, quindi il
primato della libertà e della libertà individuali, l’individualismo nel
nome del quale l’uomo moderno rifiuta in via pregiudiziale qualunque
limite, qualunque condizionamento eteroimposto. La difficile convivenza
tra Modernità e religione, di per sé antitetiche appunto nella misura
nella quale la Modernità respinge qualunque “cultura del limite”, ha
assunto la forma della diffusa coscienza “laica” nel senso non già
etimologico bensì semantico del termine: in forza di essa l’homo modernus rinunzia a opporsi frontalmente all’homo religiosus e
accetta – sia pure in modo problematico e nonostante alcune crisi anche
gravi – che le fedi religiose continuino a venir osservate da chi
voglia farlo, nella fiducia tuttavia che sarà il progresso stesso del
genere umano a sancirne – grazie alla scienza, alla tecnica,
all’esercizio della libertà individuale, al benessere – la definitiva e
necessaria estinzione. La “laicità” consiste appunto nell’accettazione
della convivenza tra il mondo moderno e le fedi religiose: tra XVIII e
XXI secolo le religioni storiche hanno gradualmente accettato, in vario
modo, tale convivenza, che pure è stata causa di ricorrenti forme di
disagio e di reazione. Una di esse è riscontrabile nel fondamentalismo,
che è del tutto moderno nella sua genesi e nella sua dinamica ma che si
presenta come concettualmente opposto alla Modernità. Tuttavia
cristianesimo ed ebraismo hanno imparato a convivere con la Modernità
che si è sviluppata principalmente in quell’ambiente occidentale che
essi conoscono e in ampia misura gestiscono: mentre l’Islam, radicato
in aree largamente per quanto non totalmente estranee o comunque diverse
rispetto all’Occidente, ha finito per assumere, anche a causa delle
vicende storiche connesse con il colonialismo, la decolonizzazione e la
successiva ricolonizzazione economico-tecnologica, un ruolo di
alterità/antinomia nei confronti di esso.
Per tale motivo la Modernità, che nel
nome dei suoi valori “laici” può evitare con facilità il conflitto con
cristianesimo ed ebraismo sino a giungere a un’almeno in apparenza
perfetta convivenza con essi (e a non contestar mai loro forma alcuna di
“intolleranza”, pur sapendo che ne esistono), ravvisa invece nell’Islam
– al di là del suo scontro recente e attuale con il fondamentalismo
jihadista – una connaturata propensione all’intolleranza che si
manifesta ad esempio in una differente concezione dei “diritti umani” la
quale sarebbe arrivata a render necessaria la proclamazione nella sede
dell’UNESCO, nel 1981, di una Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo nell’Islam che dichiara formalmente le sue differenze rispetto alla Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo nata
nel 1948 in seno all’ONU. Esse consistono in ultima analisi in un dato
che per i musulmani è religioso ma che i non-musulmani possono intendere
in senso antropologico: il concetto di una natura umana dipendente
dalla Volontà divina e che trae il suo diritto alla libertà pratica da
tale dipendenza, respingendo qualsiasi concetto di autonomia e quindi di
autosufficienza dell’uomo; respingendo quindi il principio secondo il
quale il cosmo, la vita e la stessa specie umana siano stati creati
secondo scopi che solo Dio conosce.
L’Islam ha dato luogo negli ultimi due
secoli, a contatto con la civiltà occidentale, a differenti forme
politiche e statuali nelle quali la Tradizione e il diritto musulmano
hanno sperimentato, con una notevole varietà di esiti, il livello e i
limiti della convivenza possibile tra il Din, la legge
musulmana, e la Modernità. Se tale convivenza è a livello pratico
ampiamente possibile e perfettibile, quel che resta radicalmente diverso
e inconciliabile è la rispettiva Weltanschauung: il che per i musulmani può essere un fatto religioso ma per chi ha abbracciato e costruito in toto la
Modernità è un fatto del tutto privo di motivi metafisici e ontologici,
del tutto storico e pratico, da giudicarsi quindi sotto il profilo
anzitutto antropologico.
Ora, è proprio questo che impedisce al
mondo moderno di comprendere l’Islam. Per conseguire tale scopo, sarebbe
necessario uscire da valutazioni esclusivamente e unilateralmente
occidentocentriche e, applicando l’aurea norma antropologica sancita dal
magistero di Claude Lévi-Strauss, giudicare ogni civiltà esclusivamente
iuxta sua propria principia. Il che è relatività: e nulla ha a
che fare con quel “relativismo” che di recente è sembrato divenire
obiettivo polemico di molti occidentali che amano rivestire la loro
islamofobia di valori in apparenza cristiani e nel nome di essi
protestare contro quelle che sarebbero le principali caratteristiche
delle società musulmane: l’autoritarismo dei sistemi di governo, la
famiglia “patriarcale”, il “maschilismo”, l’”inferiorità della donna”,
la diffusione nei sistemi statuali islamici della pena di morte e delle
pene corporali.
E’ ovvio che quello che sotto il profilo
antropologico è un improponibile non-senso per giunta suscettibile di
approdare a conclusioni prettamente razzistiche, cioè la
gerarchizzazione qualitativa delle civiltà assumendo come modello quella
occidentale, dipende appunto non solo da un atteggiamento
pregiudizialmente occidentocentrico, bensì anche da un grave errore di
prospettiva storica: quello di considerare la dinamica delle civiltà
alla luce di un atteggiamento arbitrariamente deterministico, secondo il
quale – e seguendo del resto quella ch’era la visione comune, in
differenti prospettive, sia all’ottimismo leibniziano sia allo
storicismo hegeliano – la civiltà occidentale è la “grande sera”
dell’avventura del genere umano e, in quanto tale, il migliore tra i
mondi possibili. Tale prospettiva, appiattendo come “naturale” e quindi
“inevitabile” il processo storico che ha condotto alle realizzazioni
occidentali, ne smarrisce in realtà il senso eccezionale: quello di una
svolta rivoluzionaria – il concetto di uomo nuovo e di libera volontà
individuale che ha aperto la strada alle scoperte e alle invenzioni,
quindi al primato del “fare” e dell’”avere” – ch’era tutt’altro che
ovvia e prevedibile. Ed è proprio alla luce di questo determinismo
occidentocentrico che molti, addirittura con intenzioni blandamente
apologetiche, invitano a “comprendere” e a “scusare” l’Islam per la sua
“arretratezza”. Se si è arrestato sulla via del progresso scientifico e
tecnologico dopo avercene pur offerto le basi, e se non ha mai concepito
gli ideali di libertà e di tolleranza, ciò dipenderebbe dal fatto che
esso non ha “mai” (o, secondo altri, non ha “ancora”) conosciuto
l’umanesimo e l’Illuminismo: come se esse fossero fasi che tutte le
civiltà sono chiamate a necessariamente attraversare, o pervenendovi in
modo originale o per attrazione ed emulazione come in realtà è accaduto
dall’avvìo del colonialismo in poi, per quanto tale processo si sia poi
per varie ragioni arrestato o corrotto. La massima concessione che si
accorda quindi alle società musulmane è quella di “maturare”, di farsi
sempre più “moderate” in modo da pervenire prima o poi a un livello
qualitativamente analogo a quello dell’Occidente: restano poi da
discutere, com’è evidente, le fasi e i caratteri di tale
occidentalizazione, conseguibile per “integrazione” multiculturalista o
per “assimilazione”, cioè attraverso i modelli rispettivamente detti del
salad bowl, dove le differenti civiltà convivono armonicamente
mantenendo però ciascuna la loro identità nei limiti consentiti dalla
convivenza (quindi cedendone ciascuna una certa quota-parte), o del melting pot, che
dovrebbe pervenire a una nuova sintesi nella quale tuttavia i caratteri
principali sarebbero conferiti dalla componente culturalmente più
forte. E’ evidente che, al di là dei molti ostacoli alla pratica
realizzazione di tali modelli, quel che resterebbe da valutare sarebbe
il fattore-tempo: quante generazioni, e sulla base di quali presupposti
socioeconomici e sociogiuridici, sarebbero necessari per rendere
commestibile l’insalata multiculturalista o la zuppa assimilazionista?
Appare evidente che il vero malinteso
alla base di questi pur diversi modi occidentocentrici di considerare il
problema – ispirati entrambi a una tolleranza teorica e dichiarata e a
una pervicace intolleranza pratica e implicita – consiste nel rifiuto di
accogliere la diversità come una ricchezza e una risorsa e nella
superba convinzione che tutto il mondo vada ridotto ad accettare o
comunque a subire i valori di una civiltà che giudica se stessa come
migliore delle e superiore alle altre. Non saranno i tentativi di
“correggere” con qualunque forma di coartazione l’intolleranza musulmana
– nemmeno quelli condotti tramite le Nazioni Unite – a rendere l’Islam
più compatibile con al nostra civiltà, bensì la pratica aperta e
continua del confronto e della discussione. E, contrariamente a quel che
molti di noi ritengono, nel mondo musulmano – nel quale la civiltà
occidentale è profondamente e capillarmente entrata per più vie, specie
al livello dei ceti dirigenti – si discute moltissimo e su tutto. Tre
fra i nostri migliori arabisti e islamologi (Paolo Branca, Paolo
Nicelli e Francesco Zannini) hanno di recente redatto un libro, L’Islam plurale (Guida),
nel quale si mostra come le società musulmane siano molto diverse tra
loro e quanto all’interno di molte di esse si discuta e addirittura si
polemizzi in modo spregiudicato: peccato che i nostri media non
c’informino quasi mai di ciò, anzi sovente sostengano il contrario.
Tutta ignoranza, che non sarebbe comunque scusabile? Colpa del principio
secondo il quale Arabicum est, non legitur? No certamente,
anche perché i musulmani scrivono spesso anche in inglese, in francese,
in spagnolo, in tedesco, in russo, insomma in lingue più o meno agibili
da parte europea. Il numero di giugno 2015 della nota rivista “Oasis”,
significativamente dedicato a L’Islam al crocevia. Tradizione, riforma, jihad, offre
un ricchissimo ventaglio di argomenti sulla crisi – che potrebb’essere
per molti versi salutare – di un mondo complesso e, a partire dalla
riforma del codice marocchino “dello statuto perdonale”, mostra come nel
mondo musulmano stiano nascendo anche varie forme di femminismo.
D’altronde, anche noi dobbiamo
sciogliere i nostri bravi nodi problematici. L’”intolleranza” del povero
operaio algerino o albanese, magari abbastanza integrato nonché bravo e
onesto lavoratore, ma che prende a schiaffoni la figlia e la segrega in
casa perché la sospetta innamorata di un ragazzo cristiano, ci urta e
ci offende dannatamente; ma ci lascia invece indifferenti quella del
principe saudita o katariota che circola tra Valencia e Porto Cervo con
la sua “barca” di lusso bevendo whisky accompagnato da belle figliole
seminude, ma nel suo paese permette anzi magari impone che le donne
stiano debitamente imbacuccate, non vadano a scuola e non guidino
l’auto, che le adultere siano lapidate e che ai ladri venga tagliata la
mano destra. Sarà che quel principe appartiene alla dinastia regnante di
un paese “sicuro alleato del Libero Occidente” nonché, magari, nostro
socio in affari e comproprietario di aziende, di banche, di alberghi, di
ristoranti, di aeroporti, di cliniche di lusso, di compagnie aeree e
perfino di società calcistiche occidentali? E che quindi un musulmano
intollerante ma ricco per noi è un ricco, mentre un musulmano
intollerante ma povero per noi è un musulmano?
Attenzione quindi a quel che è
mascherato dietro la nostra tanto aperta disposizione alla tolleranza; e
magari dietro la gretta e chiusa intolleranza altrui. Spesso le cose
sono ben diverse dalle parole. Un Hadith del Profeta,
testimoniato da al-Quashayri, narra che Muhammad riferiva come Abramo
invitò una volta a tavola uno zoroastriano: ma, scoperta la sua identità
religiosa di pagano, lo cacciò malamente di casa. Di questo
atteggiamento Dio lo rimproverò: – Perché hai agito così? -; e l’altro: –
Ma Signore, si tratta di un adoratore del fuoco! -. E Dio replicò: –
Sì, adora il fuoco fin da quand’era piccolo, e Io non gli ho mai
rifiutato il pane. Chi sei tu per negargli quel che Io gli ho sempre
concesso?”. Meditate, gente: meditate.
Franco Cardini
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