E’ scomparsa Paola Bonzi. Pubblichiamo questo articolo del 2015 di Costanza Miriano.
Siamo contro le quote rosa, perciò candidiamo Paola Bonzi al Quirinale. Le quote rosa vorrebbero per legge far affermare le donne in un mondo del lavoro tutto maschile e sostanzialmente nemico delle relazioni, a patto che mettano almeno un po’ da parte i loro affetti; Paola Bonzi invece è una donna vera, che ha messo le relazioni al centro della sua vita, e non nonostante, ma proprio grazie alle sue doti femminili – ascolto, accoglienza, capacità di fare spazio – ha salvato dalla morte diciassettemilaquattrocentottantasei bambini a oggi (ma forse il dato nel momento in cui leggete è già da aggiornare di nuovo). Chi in questo paese – ma anche nel mondo, forse – può dire di avere svolto il suo lavoro con altrettanta produttività e successo? Quante altre persone hanno salvato quasi trentaseimila vite (quelle dei bambini e quelle delle loro mamme)? Chi offre maggiori garanzie come Presidente della Repubblica?
Paola Marozzi Bonzi è un’elegantissima signora milanese con due splendidi occhi chiari, che però purtroppo non vedono più. È diventata cieca a 23 anni, oggi ne ha 71. È stata una bambina che si doveva arrangiare sempre da sola. Da sola tornava a casa dall’asilo – sì, asilo: rabbrividiamo, noi mamme ansiose che accompagniamo i pupi finché non ci cacciano via loro, e copriti attento non cadere non sudare – e da sola dopo l’asilo si arrampicava sulle sedie nei gabbiotti delle portinerie nei palazzi intorno al suo, gabbiotti nei quali aveva il permesso di rifugiarsi a patto che stesse ferma e zitta fino a sera, che non si muovesse dalla sedia, lei bambina vivacissima. Paola impara da piccola a riconoscere quando le lancette sono nella posizione magica, le sette e un quarto, l’ora in cui finalmente torna la mamma e si sale a casa. Neanche lì però c’è nessuno con cui giocare, perché la mamma è impiegata tutto il giorno da una modista del centro; quanto al babbo, fra un po’ è lui a pagare per lavorare, e non c’è proprio da mangiare per altri figli. Per tre anni vivono in una camera da letto affittata da un’altra famiglia, e quando alla fine conquistano una casa popolare i Marozzi prendono con sé una nipote, perché se c’è un po’ di spazio va dato a chi non ce l’ha, e vedremo quanto questa scuola sia poi servita al nostro candidato Presidente.
A 22 anni sposa il fratello della sua migliore amica, un giovanissimo commercialista, e a 23 le nasce Cristiana. Dopo pochi mesi Paola, per una malattia di cui ancora non si conosce la causa, perde completamente la vista. A forza di farmaci la recupera a tratti, ma durante la cura scopre di aspettare già un altro bambino. Stefano nasce quando lei ha 25 anni, e nasce anche se qualcuno le aveva prospettato una soluzione “per non rischiare” che il cortisone danneggi il bambino: strano modo di non esporre a malattie, uccidere. Non c’era la 194, ma le donne abortivano in un altro modo (“oggi non ci sarebbero i tre bambini di mio figlio, ti rendi conto?”, sospira intenerendosi come ogni normale nonna che non può immaginare il mondo senza quei nipoti). Per otto anni continua a lavorare – insegna religione – pur vedendo poco più che ombre, poi, persa completamente la vista, rimane a casa. Sono gli anni del referendum sulla 194. Paola si impegna in vari modi per la difesa dei bambini, non può lasciare che tanti di loro vengano uccisi nel posto più sicuro del mondo, sotto il cuore della loro mamma.
Le chiedo perché questo impegno. “Per me è stato un compimento del mio battesimo” – dice – “niente di più, niente di straordinario”. Eppure quello che fa un po’ straordinario lo è. Fonda in via Tonezza un Centro di aiuto alla vita, ma non le piace troppo come funziona. Lei non vuole tanto discutere di questioni di principio: il suo pallino è parlare con le mamme che vogliono abortire.
Più volte cerco di trascinarla sul piano delle idee – la mentalità contraccettiva, la pillola del giorno dopo, la 194, l’instabilità delle relazioni, l’eterologa – ma questa non è la sua guerra. “Ascolta – tronca alla fine – Genesi 3 è già stata scritta. Non ho niente da aggiungere. L’uomo è veramente libero, e Dio rispetta la sua libertà, perché non dovrei farlo io? Chi sono io per dare la ricetta per vivere bene?” Non è che non abbia opinioni, è che non ha tempo di combattere su quel fronte, lei vuole solo salvare quella vita che si trova davanti e che è in pericolo imminente di morte. Lei, e non l’Harvey Keitel di Pulp Fiction, è il vero Wolf. È lei che risolve i problemi, anche se non lo ammette, e quando le dici che ha salvato migliaia di bambini lei risponde che sono state le loro mamme a salvarli. Non si attribuisce meriti, non vuole poteri, vuole solo raccogliere fondi per salvare un’altra vita. Il paradosso è che quelli che vogliono il potere spesso sono proprio i meno meritevoli di averlo: io con lei al Quirinale mi sentirei più tranquilla.
Già dagli anni ’80 sceglie di incontrare le donne proprio dove hanno scelto di mettere fine a quella vita cominciata dentro di loro, e chiede di farlo alla Mangiagalli. Inspiegabilmente il Consiglio di Amministrazione della clinica, compreso il suo presidente socialista, vota sì alla sua proposta di fondare lì un cav – centro aiuto alla vita – e le assegna, era il 12 novembre 1984, la sacrestia della cappella della clinica. Nonostante la battaglia intorno alla legge infuriasse, erano tempi in cui fornire alle donne una possibilità di scelta non veniva percepito offensivo come oggi, per esempio in Francia dove arrestano quelli che davanti alle cliniche regalano scarpine da neonato a chi va a interrompere la gravidanza. Lo stesso paese in cui impediscono di trasmettere un video sui bambini down perché la visione potrebbe intristire le mamme che li hanno abortiti.
Ancora, negli anni ’80, erano tempi in cui almeno quella brutta legge, che all’articolo 5 chiede che vengano messi in campo mezzi ordinari e straordinari per rimuovere le difficoltà della donna, veniva presa sul serio. Erano tempi in cui medici non obiettori, quelli che tutti i giorni operavano ivg, le portavano donne con cui parlare perché “venisse allargata la loro area di libertà”. “Noi non svitiamo la testa delle donne per riavvitargliela al contrario, cerchiamo solo di dar loro la possibilità di scegliere. E se il problema è economico, cosa che negli ultimi tempi succede sempre più spesso, direi in sette casi su dieci, noi offriamo alle mamme che decidono di tenere il bambino 250 euro al mese, una busta della spesa settimanale, tutte le visite gratuite, i vestiti e i pannolini per il primo anno di vita del bambino. Abbiamo anche degli appartamenti dove ospitare chi è proprio disperato, perché sempre più spesso succede che le donne se rimangono incinta perdono il lavoro, e magari sono le uniche a portare a casa il pane. Per questo abbiamo disperato bisogno di fondi, e facciamo di tutto per raccoglierli. Veramente di tutto. Il 1 febbraio venderemo come sempre le primule alla Giornata per la vita. Ma se il 17 vedi Maroni diglielo che la Regione deve rimettere il fondo Nasko, noi non sappiamo più cosa dare a queste donne disperate”.
Altre volte il problema non è quello dei soldi. “Una signora elegantissima è venuta da me dicendomi che era solo stanca di vivere, tra i suoi viaggi e gli appartamenti di lusso. Lei e il marito si ubriacavano tutte le sere, a turno. Non l’ho giudicata, non le ho detto niente, solo ho provato a dirle che forse un bambino l’avrebbe aiutata. Non so che ne sia stato di lei. Io le ho detto quanto si sta male dopo l’aborto. Trovo terribilmente ingiusto nei confronti delle donne che non si parli loro della sofferenza cui vanno incontro. Perché siano davvero libere nella loro decisione – libertà che io rispetto – devono avere tutti gli elementi. Devono sapere che nel 90% dei casi avranno gravi problemi di depressione, problemi nelle relazioni, spesso faranno abuso di farmaci e sostanze”. Perché una donna lo sa che ha ucciso suo figlio, e non rimosso un grumo di cellule, lo sa profondamente.
Paola non giudica, non fa proclami, non colpevolizza. Lei ascolta, prima di tutto ascolta e cerca di comprendere le difficoltà. Dice a queste donne “lo capisco che è difficile, ma proviamo a cercare insieme una soluzione”. Si fa grembo perché loro diventino grembo dei loro figli, abbraccia, accoglie, tocca, riscalda. E soprattutto ascolta, ascolta davvero, e capisce, e mi chiedo se il non vedere l’abbia aiutata ad aprire altri occhi, che noi non abbiamo. “Ci si deve mettere in gioco, davvero, mettere le mani in pasta in queste vite, non in modo teorico o impersonale. Una volta è venuta da me una donna incinta che voleva tornare in Africa perché erano cinque anni che non vedeva la sua mamma. Non poteva rimanere bloccata in Italia da un neonato, e piangeva per la nostalgia della sua mamma. Non sapevo che dirle… così le ho chiesto: “senta, e una mamma italiana? La vorrebbe?” Lei mi ha sorriso e si è sciolta. Ora la sua bambina mi chiama nonna, e quando a scuola le hanno chiesto la letterina ai nonni lei ha scritto Cara nonna Paola”.
È per questo sguardo profondamente femminile sulla realtà – la capacità di vedere le persone e non fare teoria, di soffrire insieme, di rimboccarsi le maniche e cominciare a sbrogliare la matassa prima di chiedersi come mai si sia annodata tanto, di partire dal reale, di cucinare la cena con gli avanzi e di non cedere alla tentazione dello scoraggiamento, per questo suo essere motore di vita – che ci associamo alla proposta lanciata da Antonio Socci di candidarla alla Presidenza della Repubblica. Una donna che ha già cresciuto i suoi e molti altri figli, che non sarebbe costretta a sacrificare gli affetti come fanno molte – non Axelle Lemaire, che a Hollande che le proponeva un posto da ministro del suo governo ha risposto “non posso, sto dando la cena ai miei tre bambini. Io faccio politica per migliorare la vita degli altri, non per peggiorare la mia” – che ha salvato il mondo un cuoricino alla volta. Se ha fatto questo nonostante leggi e ambienti ostili, cosa farebbe col potere tra le mani?
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