Eccovi la recensione del San Francesco d'Assisi a firma del grande Paolo Pegoraro uscita su «Italia Francescana. Rivista della Conferenza Italiana dei Ministri Provinciali dei Frati Cappuccini» sul numero 1/2010.
Gilbert K. Chesterton, San Francesco d’Assisi, Mursia (Storie, Biografie, Diari), Milano 2007, 159 p., 15, ISBN 978-88-4253-900-1.
Gilbert K. Chesterton, San Francesco d’Assisi, Lindau (I pellicani 21), Torino 2008, 163 p., € 14, ISBN 978-88-7180-725-6.
Questo libro «benché piccolo di mole sembra tanto più prezioso dei grossi volumi che i servitori dell’erudizioni e i manipolatori della tradizione francescana suntuosamente prodigano per incantare il pubblico. Ci sembra che a quanti avvertono sintomi di sazietà per tutte le cose e le fiere che ci ha procurato il centenario francescano, questo libro sia consigliabile per far loro amare ancora il povero S. Francesco». A dare un giudizio tanto lusinghiero sul volume dello scrittore inglese G.K. Chesterton fu niente meno che Giovanni Battista Montini, a conclusione di un’ampia ed entusiastica recensione firmata su Studium 22 (1926 / n. 10, pp. 543-546). Parole che sembrano tagliate su misura anche per la conclusione dell’ottavo centenario della Protoregola francescana.
Nella sua trasbordante produzione, comprendente anche una decina di biografie letterarie, Chesterton scrisse solamente due agiografie: una dedicata al poverello d’Assisi (1922) e una al mendicante d’Aquino (1933). Un noto critico italiano ha affermato che in Chesterton si agitavano due anime, un don Chisciotte e un Sancho Panza, ma sarebbe più corretto dire che in lui quelle due figure letterarie presero carne e furono battezzate: da un lato san Francesco, l’allampanato e visionario uomo d’azione, e dall’altro san Tommaso, il gigantesco e concretissimo uomo di pensiero.
Ma veniamo all’opera presente, rimasta fuori commercio per diversi anni e ora disponibile nella traduzione di Barbara Mirò (Mursia) e di Giovanna Caputo (Lindau, con postfazione di Giulio Meotti), alla quale facciamo riferimento. Il San Francesco d’Assisi di Chesterton non è un’introduzione alla vita del Poverello quanto piuttosto, nota Montini, «una conclusione esplicativa e sintetica insieme». La vicenda umana di Francesco non viene raccontata per intero né ordinatamente, ma selezionando, amplificando e analizzando alcuni episodi nei quali appaiono gli aspetti più salienti della sua figura, collocata storicamente come soldato, come poeta e come santo. Deciso a conquistarsi la fama, con la penna o con la spada, Francesco si muove all’insegna della rapidità, preferendo «mosse fattive ed energiche al dubbio e all’esitazione». Ed è proprio grazie a questa sua completa apertura al reale, a questa disponibilità a ruzzolare di avventura in avventura senza preoccuparsi troppo del suo amor proprio e fino a rendersi oggettivamente ridicolo sotto ogni punto di vista, che Francesco scopre il segreto dell’esistenza: «essere il servitore e la figura secondaria». Quando l’ambizione cede le armi alla buffoneria, quando le pretese dell’io sono talmente disattese da prospettare soltanto l’autoestinzione o la risata, Francesco giunge a una condizione vicina alla spensieratezza, perché comincia a percepire ogni cosa naturale sotto una luce soprannaturale: quella della gratuità e della grazia. Sarà proprio la «scoperta di un debito infinito» a consegnargli la chiave d’oro dell’esistenza, poiché non v’è uomo – re o mendicante che sia – capace di guadagnarsi una stella o di meritarsi un tramonto. Convinto che «la vera roccaforte della realtà» sia nascosta proprio in questo senso «di immensa gratitudine e di sublime dipendenza», il Poverello abbracciò l’ascesi come un piacere e apparve ai suoi contemporanei non come uno stoico, ma, semplicemente, come un uomo felice. Aiutò la gente comune a essere tale in letizia. E se apparve come un poeta, nota ancora Montini, non fu perché ci donò versi altissimi, quanto piuttosto poiché visse poeticamente: Francesco si mosse non sotto la spinta della riflessione, ma di quella «espressione immediata dell’intuizione del reale» che è il nervo della poesia. E ancora: Francesco apparve come un cavaliere non in virtù della sua magra (e fallimentare) esperienza guerresca, ma per la sua cortesia universale. Egli non solo amava gli uomini: li rispettava. E prestava sincero interesse a chiunque, papa o accattone che fosse, come «un unico cortigiano che si muove tra cento re». E in questo servigio assoluto incluse anche il creato, senza però dissolvere i contorni delle cose come l’antico politeismo pagano: chiamò frate Foco e sorella Acqua, ma mai madre Natura, poiché «il culto della natura produce inevitabilmente delle reazioni contro natura». Chesterton tornerà a riflettere su questo punto quattro anni più tardi, nel racconto L’oracolo del cane (1926) della celebre serie di padre Brown: la natura è magnifica e tremenda, egli avverte, ma se non la si contempla alla luce del Dio fatto uomo, si finirà nuovamente per inchinarsi davanti agli idoli bestiali dell’antichità. Ci sono moltissime altre pagine che meriterebbero di essere citate da questo libretto scoppiettante e poco sistematico, eppure così ricco di suggestioni penetranti, ed espresse con immagini così indimenticabili e gioiosamente scanzonate, da essere entrato di diritto tra i grandi classici della letteratura francescana.
Paolo Pegoraro
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