Il codice dei refusi
di Maurizio Assalto
Domandina: quanti refusi siete disposti a sopportare in un bestseller che non da oggi, ma da un anno, torreggia in cima alle classifiche, in Italia come nel resto del mondo, prima di considerare indecoroso il prodotto che avete per le mani? Non è quel che si dice una domanda da un milione di dollari, bensì da molto meno, 18 euro e 60 centesimi per la precisione: quanto costa, al lordo di eventuali sconti, il bestseller in questione, Il codice da Vinci di Dan Brown.
Risposta: cinque? dieci? quindici? (via, siete generosi...). Non basta: nella prima edizione italiana del bestseller di cui sopra, ottobre 2003, tra errori di stampa, trascuratezze di traduzione, disattenzioni di editing, annotando alla buona, dopo sedute di lettura di una-due ore, e quindi inevitabilmente scordando qualcosa, ne abbiamo contati una trentina abbondanti. Che su 523 pagine di testo fa più o meno una croce ogni 17 pagine. È vero che nelle edizioni successive il campo di battaglia è stato in parte sgomberato dai cadaverini, però la carneficina, ancora nell’ultima ristampa, settembre 2004, faceva impressione: venti e più i caduti.
Per esempio il parigino «Pompidou Center» (paro paro come nel testo inglese) è opportunamente ridiventato «Centre Pompidou» (come dicono in Francia, e come diciamo anche noi). L’ostico «Santo dei Santi» («Holy of Holies») si è chiarificato nella più consueta locuzione latina «sancta sanctorum», usata in italiano, stricto sensu, per designare la parte più sacra e inaccessibile di un tempio. Il preoccupante (di questi tempi) «Big Bang», in riferimento alla torre campanaria che svetta sulla fabbrica del Parlamento londinese, si è disinnescato nel più tranquillizzante (corretto) metonimico «Big Ben».
In compenso è rimasto un anglicizzante «Giovanni il Battista» («John the Baptist»; ma da noi l'articolo cade). È rimasto un improbabile «possiamo offrirle un caffè o un altro rinfresco?» («other refreshments»: «qualcos'altro da bere»). Qualche cosa addirittura si è aggiunta: nella versione italiana, separati da tre righe, due periodi cominciano con l'identica proposizione «l'uomo con le grucce aggrottò la fronte», mentre il testo inglese, almeno, aveva avuto cura di descrivere situazioni simili con diverse espressioni verbali. In un altro caso, invece, uno svarione dell'originale è stato scrupolosamente conservato: laddove del Priorato di Sion, la cui storia «copriva più di un millennio», appena tre righe sotto si informa che fu fondato nel 1099 (giova ricordare che la vicenda del romanzo è ambientata ai giorni nostri).
Spesso i deragliamenti logico-sintattici sono chiaro indizio dell'intrusione di qualche dispettoso sassolino traduttivo. Che cosa significa una frase come «non lo trovo granché in carattere»? E cosa significa che «il bruciore del proiettile nel suo petto gli sembrava qualcosa di assolutamente estraneo»? Guardare il testo inglese (The Da Vinci Code, New York, Doubleday) per capire. Non è invece necessario nessuno sforzo, se non di santa pazienza, per correggere un «aggottò» che neppure nell'ultima ristampa ritrova la sua «r» (tutto il romanzo è un compulsivo aggrottare di fronti, e stringersi nelle spalle; ma questo è un altro discorso), un «arire» (la cassaforte) che resta orfano della «p», una «regione» che non sa farsene una «ragione». Ce n'è per tutti i gusti: pronomi che non concordano con i sostantivi, parole che in fine di riga si dividono senza il trattino, frasi che dopo il punto cominciano senza maiuscola, e via martoriando. Più che sorridere, la Monna Lisa della copertina potrebbe piangere. Oppure piegarsi in due dal ridere, fate voi.
Ora, non si tratta di gettare la croce addosso al singolo editore (Mondadori), perché questa è soltanto la punta di un iceberg in crescita spettacolare nell'industria libraria (nonché nella stampa quotidiana: ma almeno i giornali, oltre all'attenuante della fretta, a differenza delle opere letterarie danno alla forma minore importanza rispetto al contenuto, e poi com'è noto il giorno dopo finiscono a incartare la verdura). Quello del Codice da Vinci è un caso (si spera) limite, tanto più esemplare in quanto coinvolge il bestseller dell'anno e la maggiore casa editrice nazionale, dai meriti culturali fuori di dubbio, con un catalogo in grado di accontentare il grande pubblico come gli studiosi più esigenti.
Ma ecco il punto: possibile che l'imperativo di tagliare i costi - dai compensi dei traduttori (per il Codice Riccardo Valla, in vari punti della sua versione capace di apprezzabile scioltezza) a quelli dei correttori di bozze (una specie in via di estinzione) - debba risolversi in una mancanza di rispetto nei confronti del pubblico, almeno di quello della narrativa di consumo? Urge fissare una soglia di refusi oltre la quale scatta il diritto automatico al rimborso integrale. Perché non ci pensa una associazione a tutela di quel particolare tipo di consumatori che sono i lettori? Nell'attesa, anche i recensori potrebbero fare la loro parte: ricordandosi di dedicare sempre almeno qualche riga all'eventuale traduzione, e dando i voti al lavoro dell'editore.
La stampa, 19 Ottobre 2004
1 commento:
Ho segnalato l'articolo sul mio blog e lanciato le refusiadi. Vieni a votare se ti va :-) (http://botteghecolorcannella.splinder.com)
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