Inattualità di Newman
Newman è sempre un po’ attuale proprio perché non lo è e non lo è stato mai definitivamente. Cosa può suggerirci oggi, dopo esattamente 150 anni? L’università italiana si trova da oltre decennio coinvolta un processo di riforma, iniziato tra la fine degli anni '80 e i primissimi anni '90, con il riconoscimento agli atenei dell'autonomia statutaria e regolamentare (legge 9 maggio 1989, n. 168) e dell'autonomia finanziaria o budgetaria (legge 24 dicembre 1993, n. 537).
Passando agli interventi legislativi più recenti, (con il Decreto 509, del 3 novembre 1999), si sono introdotte rilevanti novità:
1. i nuovi titoli: laurea, dopo tre anni; laurea specialistica, dopo altri due anni, la specializzazione, il master ed il dottorato;
2. il titoli vengono acquisiti attraverso l’accumulazione di crediti, (che corrispondo alla quantità di lavoro di cui è capace in media uno studente).
Anche le riflessioni di Newman nascono in un contesto di riforma. Nel Regno Unito per tutta la prima metà del diciannovesimo secolo erano sorte critiche, sia in Parlamento che sulla stampa popolare, nei confronti delle due università tradizionali: Oxford e Cambridge. Due erano i rilievi sostanziali che venivano generalmente avanzati: l’astrattezza dei curricula rispetto alla vita professionale ed il loro esclusivismo religioso, legato all’anglicanesimo, specialmente a Oxford. Queste sono in fondo le stesse grandi tematiche che Newman pone al centro delle riflessioni: il rapporto tra formazione e bisogni sociali, il ruolo della religione nel curriculum ed il suo rapporto con lo Stato. Non bisogna dimenticare i grandi cambiamenti che stavano avvenendo a livello sociale: il processo di industrializzazione che aveva il suo centro in Inghilterra, la conseguente nascita del movimento operaio, dei sindacati, la riforma della legge elettorale. Aumentavano le richieste delle nuove classi di entrare pienamente nel mercato e nei processi decisionali e l’ammissione al sistema educativo veniva ad assumere una importanza crescente per l’inserimento sociale. Malgrado le professioni venissero ancora apprese non nelle vecchie università ma attraverso sistemi di praticantato, acquistavano sempre più importanza nel curriculum le discipline utili, in particolare l’economia politica; di qui la crescente richiesta di inserirle nel percorso accademico.
Newman si esprime largamente a favore di un’educazione che privilegi le arti cosiddette liberali rispetto alle nuove materie. Egli propone un’educazione di gentiluomini, non di professionisti. Non disprezza la ricerca dell’utile ma ritiene che non debba essere il fine ultimo dello studio.
E se proprio bisogna assegnare un fine pratico alle istituzioni accademiche, che esso sia l’educare buoni membri della società. La sua arte è l’arte della vita sociale e il suo fine l’essere adatti al mondo. Da un lato esso non limita le sue prospettive a professioni particolari, dall’altro non crea eroi o inspira geni. … Un’università non è una culla per poeti o autori immortali, per fondatori di scuole, capi di colonie o conquistatori di nazioni. Non promette una generazione di uomini come Aristotele o Newton, Napoleone o Washington, Raffaello o Shakespeare, per quanto in passato ha ospitato tra le sue mura questi miracoli di natura. Né si accontenta d’altra parte di formare il critico o lo sperimentatore, l’economista o l’ingegnere, per quanto anche questi rientrano nel suo campo d’azione. Ma l’educazione universitaria è il grande mezzo ordinario per un fine grande ma ordinario: mira ad elevare il tono intellettuale della società, a coltivare lo spirito pubblico, a purificare il gusto nazionale, a fornire principi veri all’entusiasmo popolare e scopi definiti alle aspirazioni popolari, a dare ampiezza e sobrietà alle idee dell’epoca, a facilitare l’esercizio del potere politico e a raffinare i rapporti della vita privata. (VII, 10)
(continua)
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