domenica, luglio 12, 2009

Newman, classico e inattuale 5

La cultura della mente ha quindi un’utilità non immediatamente spendibile ma che si mostrerà nel corso della vita, in ogni possibile attività o professione. La polemica di Newman contro la conoscenza professionale non intende disprezzare particolari studi o vocazioni e quanti sono impegnati in essi ma piuttosto mira a proporre una formazione che sappia inserire ogni forma di sapere all’interno di un quadro più ampio.
Dicendo che la Legge o la Medicina non è il fine di un corso universitario, io non intendo dire che l’università non insegni Legge o Medicina. Cosa infatti può insegnare, se non qualche scienza particolare? Insegna tutta la conoscenza insegnando tutti i settori della conoscenza e in nessun altro modo. Io dico solo che vi sarà questa distinzione per quanto riguarda un professore di Legge, o di Medicina, o di Geologia, o di Economia politica, in un’università e fuori di essa; dico che fuori di un’università egli è in pericolo di essere assorbito e circoscritto dalla sua specializzazione e di fare lezioni che sono niente più che lezioni di un avvocato, fisico, geologo o economista politico mentre in un’università egli sa dove collocare se stesso e la sua scienza a cui arriva, per così dire, da una sommità, dopo aver avuto una panoramica di tutta la conoscenza; la rivalità con altri studi lo trattengono dalla stravaganza, egli ha guadagnato da essi una speciale illuminazione, larghezza di mente, libertà e possesso di sé e tratta di conseguenza la sua disciplina con una filosofia e una ricchezza che non appartengono allo studio in se stesso ma alla sua educazione liberale. (VII, 6)

L’educazione liberale quindi raggiunge ugualmente, anche se non in modo diretto, tanto l’utilità personale, consigliata da Locke, che quella sociale, perseguita dai redattori della Edinburgh Review, nella misura in cui insegna a ricercare e produrre il bene in sé. Ricercando il buono si avrà anche l’utile ma non viceversa, questa è la geniale risposta del Cardinale inglese ad una questione che aveva acceso aspri dibattiti.
E’ l’educazione a dare ad un uomo una chiara e consapevole visione delle sue opinioni e giudizi, un’autenticità nello svilupparli, un’eloquenza nell’esprimerli e un vigore nello stimolarli. Gli insegna a guardare le cose come sono, ad andare diritto al nocciolo, a sbrogliare pensieri confusi, a discernere ciò che è sofistico e a scartare ciò che è irrilevante. Lo prepara a ricoprire qualsiasi posto con onore e a dominare qualsiasi argomento con facilità. Gli mostra come adattarsi agli altri, come mettersi nella loro condizione mentale e come presentare la propria ad essi, come influenzarli, come intendersi con loro, come sopportarli. Egli si trova a suo agio in qualsiasi compagnia, ha un terreno comune con ogni classe, sa quando parlare e quando tacere; egli è capace di conversare e di ascoltare, sa porre una domanda pertinente e far tesoro opportunamente di una lezione quando egli stesso non ha nulla da insegnare… L’arte che tende a fare di un uomo tutto questo è nel suo fine tanto utile quanto l’arte della ricchezza e l’arte della salute, per quanto sia meno riconducibile ad un metodo e meno tangibile, meno certa, meno completa nei suoi risultati. (VII, 10)

Di fronte alle sollecitazioni provenienti dalla situazione sociale e alla domanda di adeguamento dell’università al nuovo spirito del tempo, Newman propone quindi una concezione classica dell’educazione, che più che alla tecnicità delle discipline miri alla formazione della personalità. Si noti che paradossalmente dell’Università fondata da Newman sopravvivrà solo la facoltà di Medicina, quella nella quale l’impostazione professionalizzante era prevalente.

(continua)

1 commento:

Mauro Savino ha detto...

Mi pare che Newman difenda il sacrosanto esilio eracliteo. Questa smania di andar per il mondo a predicare la filosofia nelle scuolacce italiane. L'attività accademica è improduttiva, secondo uno stilema leninista. Ma per Lenin anche Beethoven poteva essere 'rimandato' a dopo la rivoluzione. Ora a parte la vicenda, anzi la tragedia russa arcinota del comunismo-lagher, la domanda è: a che serve Beethoven? A un bel niente. Perché si vuole, parlando per esempio del filosofo, sapere da quest'ultimo a che servono lui e la filosofia? Si lascino gli studiosi alla loro attività. Poiché è tempo di chiarire che se il loro impegno da frutti, questi frutti non sono nell'oggi e nell'immanenza ma nel formantesi, nell' a-venire. Del resto, e qui Angelo, tu mi puoi seguire, non ha parlato proprio Agostino, professore di retorica, della necessità della distensio animi, come cifra del tempo? E che cos'è questa se non il tempo dello studium e del desiderium?