I moderni ammiratori di G.K. Chesterton (Il profilo della ragionevolezza) ed E.F. Schumacher (Piccolo è bello) vengono talvolta accusati di voler ritornare al Medioevo, e possono essere facilmente presi in giro perché vorrebbero farlo nell’era della disponibilità immediata della medicina moderna e dei computer portatili.
Ma né Chesterton né Schumacher erano così ingenui. Invocavano un particolare tipo di progresso: verso una società più centrata sull’uomo, ma pur sempre sofisticata tecnologicamente e capace di sviluppo creativo. Entrambi realizzarono che ci sono concetti e idee particolari che erano prevalenti nel cristianesimo medievale e da cui potremmo davvero imparare proprio per rendere possibile quel progresso. Infatti i grandi movimenti culturali sorgono spesso con l’importazione di idee dal passato in un nuovo contesto sociale (il Rinascimento ne è un esempio).
Quindi cosa possiamo imparare dal Medioevo per uscire dall’attuale crisi globale?
Da simpatizzante della filosofia distributista di Chesterton, e con il recente tentativo di ravvivarla da parte dei “conservatori progressisti”, posso suggerire almeno tre spunti per incoraggiare la continuazione del dibattito.
L’importanza della famiglia
Ai tempi del Medioevo, come nella maggior parte dei tempi e dei luoghi attraverso la storia dell’umanità, l’unità basilare della società era la famiglia, intendendo con questa la “famiglia estesa” (in forma estrema la tribù o il clan). Il semplice motivo di questo è che ci riproduciamo a coppie. Inoltre la maniera migliore perché i figli vengano educati e preparati alla vita sociale è che ciò avvenga all’interno di relazioni famigliari amorevoli.In anni recenti l’ideale tradizionale di famiglia e i legami che la tengono unita sono stati sistematicamente attaccati e indeboliti, ma la distruzione della famiglia è un componente tutt’altro che essenziale nella nostra idea di progresso. È più probabile che la demolizione di questa tradizione sia la causa di una diffusa degradazione sociale e devastazione culturale. Senza dubbio ci sono modi per migliorare la famiglia, e modi in cui i suoi membri possono essere più adeguatamente protetti dagli abusi, ma la famiglia in sé è il vivaio e il crogiolo della società civile e la miglior salvaguardia della dignità umana.
Il tentativo di sradicare e astrarre le persone dalle loro famiglie (ironicamente descritto come ideale nella Repubblica di Platone) quasi certamente può sfociare in una guerra impari fra la volontà dell’individuo e quella dello Stato, una guerra che l’individuo non può vincere. Sono la famiglia e la società civile—e solo loro—che “avvolgono” l’individuo proteggendolo dai dittatori e dai tiranni. La rete di responsabilità e di diritti che spettano a una persona inserita in rapporti famigliari e civili solo in virtù di quella appartenenza non sarà ben protetta da un Bill of Rights [dichiarazione sui diritti dell’individuo] quando i tempi diventeranno duri ed entreranno in gioco potenti interessi.
Qualcosa di simile vale nel campo economico. Nel nostro mondo non dovrebbe essere ammissibile che un figlio o figlia intraprenda necessariamente un mestiere o una professione determinata dai suoi genitori, ma il passaggio di conoscenze tra la generazione precedente e quella successiva dentro una famiglia può essere un arricchimento invece di un impoverimento. Se un’azienda è posseduta e gestita da una famiglia è molto più probabile che verrà amministrata con un occhio al futuro a lungo termine (“sostenibilità”). Se la famiglia è centrale, una “economia di dono e alleanza”—nient’altro che un altro modo per descrivere la famiglia stessa—avrà la precedenza sull’economia di mercato e sul calcolo economico. Il mercato ha il suo spazio, ma non dovrebbe impadronirsi dell’intero villaggio, men che meno dell’intera civiltà.
La condanna dell’usura
Pensate per un attimo all’attuale crisi economica. A innescarla è stato il crollo del mercato immobiliare americano, che ha mandato all’aria il castello di carte globale costruito sui mutui subprime—una vasta struttura di derivati messi in circolazione senza pensare alle eventuali conseguenze e senza trasparenza. La colpa della crisi è dell’avidità dei banchieri e dell’opportunismo a breve termine dei politici, ma quel che ha reso possibile questa crescita di crediti uno strato sull’altro è stata in parte la perdita di una giusta limitazione per legge sull’interesse addebitato col prestito di denaro—un peccato condannato dalla cristianità medievale, dal giudaismo e dall’Islam con il nome di usura.Certamente l’addebito di interesse fu infine giustificato da teologi medievali come Tommaso d’Aquino come compenso per il rischio. La conseguente espansione degli istituti di credito europei rese possibile l’enorme sviluppo nel commercio, nella manifattura e nella ricchezza dopo la Riforma. Ma all’inizio l’addebito dell’interesse era stato visto come modo per vendere ciò che non dovrebbe essere mai considerato una merce: il tempo stesso.
Alla radice di questa intuizione resta qualcosa di valido che possiamo applicare alla situazione attuale. I prodotti che venivano commerciati e addebitati per il mercato dei derivati non erano reali nel modo in cui sono reali il vero lavoro o le proprietà tangibili. I debiti, ad esempio i mutui, non sono dei veri asset (risorse), e questo diventa evidente quando chi ha preso in prestito va in default (viene a mancare) e non c’è nessuno—tranne forse lo Stato—che paghi al prestatore ciò che, poco saggiamente, si aspettava di ricevere.
Leggi suntuarie
A lungo si è ritenuto che la crescita economica, misurata in termini di PIL o in termini di acquisti in corso, potesse e dovesse crescere indefinitamente col migliorare della nostra capacità di sfruttare le risorse naturali del pianeta (o, in mancanza di queste, del sistema solare). Ci potrebbe essere un fondo di verità, ma sembra esserci qualcosa di malsano—qualcosa che ricorda un cancro biologico—nell’idea della crescita continua e virtualmente fine a se stessa. L’impressione si rafforza quando ci ricordiamo che la crescita della produzione è spinta dalla crescita dei consumi.Il consumo non è un male, ma una necessità della vita. Il nostro sistema si basa sui bisogni umani fondamentali e richiede approvvigionamento per tali bisogni, per la creazione di nuovi beni atti a rendere la vita più ricca e più piacevole, e per lo sviluppo di nuovi mercati. Il pericolo è che questo potrebbe portare alla sistematica coltivazione del desiderio di cose nuove attraverso pubblicità manipolatrici e invecchiamento programmato.
L’incoraggiamento a prendere a prestito al di sopra delle nostre possibilità, la crescita del debito e l’avidità che abbiamo visto nel secolo passato sono legati a un atteggiamento che chiamiamo “consumismo”. Cerchiamo sempre di più di definire la nostra identità, o almeno il nostro tenore di vita, attraverso quel che acquistiamo e consumiamo. Non c’è nulla di sbagliato nel volere merce di buona qualità o uno stile di vita comodo. Ma c’è molto di sbagliato nello stancarsi di qualunque cosa che abbia più di un anno e nel vivere in un modo che danneggia gli altri o il pianeta intero. In un certo senso il “peccato” di vivere in quel modo non è quasi mai del singolo, poiché la responsabilità di questo è così largamente diffusa. È l’economia a fare pressione sulla gente per spingerla a vivere al di sopra dei suoi mezzi offrendo un credito incauto che qui è il principale colpevole. Per cui la risposta è di incoraggiare la gente a vivere con più semplicità, a limitare le loro assunzioni di prestito, o a mettere fine al loro eccesso spronandoli, nel contempo, a trovare la pace in altri modi.
In epoca medievale le leggi “suntuarie” che cercavano di regolare le abitudini di consumo attraverso restrizioni sul vestiario, sul cibo e sulle spese di lusso restavano per lo più prive di effetto, ed erano spesso usate per la discriminazione sociale. Ciononostante, qualcosa di simile a una legge suntuaria potrebbe essere necessario per mettere degli argini al consumismo attuale. Così come ci sarebbero buone ragioni per ridimensionare l’ammontare di denaro che separa il salario di un banchiere o di un manager da quello di un impiegato della stessa organizzazione—senza danneggiare l’ambizione a “salire di grado” che dà energia all’impresa—cosicché si possa limitare la parte dello stipendio di ognuno che viene spesa in beni di lusso o (se quel suggerimento sembra minacciare la nostra sacra libertà di sbagliare da soli) almeno regolamentando con più attenzione e riguardo la qualità e la longevità dei beni offerti sul mercato, come anche il loro costo reale (incluso l’impatto sull’ambiente).
Conclusione
Il neodistributismo non c’entra con un “ritorno al Medioevo”, e neanche con “tre acri e una mucca”, sebbene ci siano buoni motivi per l’autosufficienza dove possibile, e per il ritorno a comunità rurali e all’agricoltura in economie con un terziario sovrasviluppato o che sono diventate dipendenti dall’aiuto estero. Quello su cui concordano coloro che sono nella tradizione di Chesterton e Schumacher è che abbiamo bisogno di più trasparenza e giustizia nell’economia, sia a livello locale che globale. Abbiamo bisogno di radicare la nostra vita economica—come tutta la natura umana dev’essere radicata—nelle realtà della natura, sia che con questo si intendano l’ambiente naturale e le risorse del nostro pianeta, o la natura dell’essere umano come creatura capace di realizzazione attraverso il servizio amorevole e la collaborazione con altri. E infine dobbiamo essere capaci di imparare dai nostri errori e cambiare rotta.Spesso Chesterton metteva in luce l’errore che facciamo con le nostre nozioni di progresso. L’umanità non sta su due binari, dove le uniche possibilità di scelta sono di andare avanti o indietro, più veloce o più lento. Siamo più liberi di quanto pensiamo. Non stiamo correndo sui binari, ma stiamo esplorando un nuovo continente, un paesaggio a tre dimensioni. Se troviamo la strada sbarrata in una direzione possiamo prenderne un’altra.
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