E quando pensi che il fondo sia stato toccato, e che più in giù non sia materialmente possibile scendere, ecco che arriva qualcuno a scavare. Ecco che il compagno Nichi ottiene un figlio mediante l’utero in affitto.
Nichi ottiene il figlio per soldi, usando l’utero in affitto, pudicamente detto in neolingua “maternità surrogata”, peraltro in quell’America in cui il sistema sanitario, se sei un proletario, ti lascia morire poiché indaffarato a fabbricare figli per ricchi.
Il bambino è una merce, la donna un mero corpo da sfruttare. E Marx è morto un’altra volta, ucciso dai sedicenti sinistri al servizio del capitale vincente, della reificazione dilagante e del classismo globale.
Da nobile pratica di emancipazione universale dal classismo, il comunismo diventa, ora, acquisto di bambini e affitto di donne, il meglio che la civiltà dei consumi possa offrirci.
Diciamo una cosa di sinistra, come si sarebbe detto una volta: da un punto di vista marxiano e gramsciano, l’utero in affitto è una pratica abominevole, perché usa le donne povere come merce disponibile e considera i bambini come oggetti-merce, come articoli di commercio on demand, prodotti su misura (con possibili derive eugenetiche) dal consumatore egoista portatore di illimitata volontà di potenza consumistica.
Non v’è nulla di emancipativo in questa pratica abominevole, che segna il trionfo del capitale sulla vita umana, dell’economia sulla dignità. Chi la accetta o la difende, è connivente con il classismo e con l’abietta riduzione dell’umano a merce.
Sarebbe, invece, interessante e degno di un giornalismo serioe all’altezza del suo compito andare a intervistare la donna che ha “affittato” il suo utero per migliaia di euro al compagno Nichi: capire per quali ragioni l’ha fatto, se per filantropia a pagamento, o se perché costretta dalla sua condizione economica disagiata. Se, cioè, per arrivare a fine mese si è vista costretta ad affittare il grembo al compagno Nichi.
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