domenica, aprile 19, 2020

LEWIS, INDIMENTICABILE E INDISPENSABILE

Quando mi chiedono che cosa leggere per aver sul serio un’idea del cosiddetto medioevo, e di quel che tale periodo (per convenzionalmente “costruito” che sia stato a posteriori, come qualunque periodo storico, da noialtri moderni) ha davvero significato per la nostra civiltà, e che cosa abbiamo spiritualmente perduto con la sua fine, e soprattutto quando mi chiedono che cosa può capire e che cosa deve ricordare un cristiano dalla lezione del medioevo, non ho dubbi: propongo un piccolo libro di Clive Staples Lewis, L’immagine scartata, edito in italiano anni fa dalla Marietti e che, se fosse fuori catalogo, sarebbe indispensabile ripubblicare. Uno dei pochi libri indispensabili della mia ormai molto vasta biblioteca di medievista.
Clive Staples Lewis nacque a Belfast nel 1998. Non era la città migliore per nascervi cattolici, ma certo una delle più stimolanti. L’anno della sua nascita – guarda caso – era l’Anno dei portenti: quello appunto della magica “generazione del ’98” alla quale appartengono anche quella magica “generazione del ’98” che tanto profondamente ha segnato la poesia, la letteratura e la cultura del nostro secolo. Veramente, tale espressione appartiene anzitutto alla cultura e alla letteratura spagnola: il 1898 è difatti – con la sconfitta nella “guerra di Cuba” contro gli Stati Uniti – l’anno della fine dell’impero coloniale di Spagna, Ma, un po’ in tutta l’Europa cattolica quell’anno venne preso a simbolo di un tournant de siècle.
Ebbe poco successo una decina di anni fa, qui da noi, il film Shadowlands, tratto da una pièce teatrale che in Inghilterra fu invece molto apprezzato e che era splendidamente interpretato da Anthony Hopkins. In italiano, la pellicola era stata banalmente battezzata Viaggio in Inghilterra: ed era la storia – ben poco appetibile, in tal modo presentata – dell’amore d’una signora ebreo-statunitense nato a distanza per un malinconico professore inglese che vive rintanato tra i riti stereotipi d’una Oxford in apparenza sempre uguale a se stessa e che scrive fiabe per ragazzi.
Shadowlands, “le Terre dell’Ombra”. Ormai tutti conoscono John Ronald Reuel Tolkien e Il Signore degli Anelli, dopo il travolgente successo cinematografico. Ma forse solo quelli che hanno passato almeno il mezzo secolo ricordano che cosa significò, a metà degli anni Settanta, l’arrivo nel nostro paese – in ritardo – di quel capolavoro: ch’era stato pubblicato dall’Editore Rusconi su consiglio di un indimenticabile, coraggioso e raffinato intellettuale controcorrente, Alfredo Cattabiani, al quale non saremo mai grati abbastanza; come non lo saremo mai alla brava e sensibile traduttrice dell’opera, Vittoria Alliata. Ma nell’Italia di allora, provinciale quasi più di quanto non lo sia adesso, provincialismo e conformismo vestivano panni “di sinistra”: quasi tutti ignoravano che cosa Tolkien significasse altrove, dal Canada agli Stati Uniti all’Inghilterra all’Australia; e molti fingevano d’ignorare come la sua “letteratura d’evasione” fosse una delle scaturigini profonde della “rivoluzione” del Sessantotto.
Ci si allarmò allora dinanzi alle prospettive di fuga eroico-fantastica dell’immaginazione che esso pareva proporre e che sembrava in grado di turbare quell’impegno sociale e politico ch’era l’oppio soprattutto dei giovani e degli intellettuali del tempo. Shadowfax, “Mantello d’Ombra”, era il nome d’un cavallo incantato della saga di Tolkien.
Il protagonista di Shadowlands, il triste e riservato professore di Oxford, non era il gioviale e sanguigno Tolkien, bensì un suo sensibile amico: membro, come lui, d’una strana ed eterogenea famiglia – gli “Inklings”, gli “Inchiostringi” – della quale faceva parte anche l’anglicano-esoterista Charles Williams (vicino all’associazione esoterica della Golden Dawn), il domenicano medievista Gervase Matthews e Tolkien stesso. Tra gli Inklings – per quanto non del tutto identificabili con essi – un gruppo ristretto era quello dei cosiddetti Oxford Christians: cattolici o anglicani, sovente convertiti dopo un passato laico o agnostico, stretti attorno alla ricerca filologica e poetica e diffidenti nei confronti degli esiti dissacranti della Modernità.
Il protagonista di Shadowlands è uno dei maestri della “generazione del ’98”: appunto Lewis, nato in quell’anno dei portenti a Belfast e che al principio degli anni Trenta – fra l’insegnamento universitario e la quieta redazione di affascinanti racconti per ragazzi (il “Ciclo di Narnia”) – fu “sorpreso” da una crisi religiosa che sarebbe divenuta il vero tournant della sua vita. Ne sarebbero nati alcuni libri straordinari di meditazione religiosa: da The Screwtape Letters (“Le lettere di Berlicche”), un’irresistibile e impietosa presentazione del mondo moderno attraverso l’immaginaria corrispondenza tra due diavoli corruttori, fino a Surprised by Joy, una meditazione profonda sul senso della vita e delle sue prove.
Attento ai problemi della lingua e della parola, studioso di filologia e di letteratura rinascimentale inglese, Lewis dedicò nondimeno al medioevo le sue cure più attente e amorose. È molto noto il suo studio sui rapporti tra filosofia e poesia medievali, Allegoria d’amore, edito nel 1936 e arrivato in Italia tardivamente, grazie comunque alla Einaudi. Ma si deve alla genovese Marietti se anche il pubblico italiano ha conosciuto – in ristretti ambienti, perché il “muro del silenzio” della critica conformista gli ha fatto il vuoto intorno – quello ch’è forse il suo lavoro più straordinario: L’immagine scartata. Si tratta di una magistrale guida al pensiero e alla spiritualità (come si diceva una volta, con termine ormai desueto) del nostro medioevo: il modo d’intendere l’uomo e l’universo che la Modernità ha, appunto, “scartato”. Lewis c’insegna come fra XI e XIV secolo la Bibbia, i classici, la tradizione orale dei popoli celtici e germanici andarono convergendo verso un’immagine di armonia e di coerenza, di serena e forte organicità. Questo autentico prezioso “compagno di strada” per chi vada in cerca di “radici” autentiche, al di là delle speculazioni demagogiche ormai a questa parola troppo spesso collegate. Non è il libro d’un romantico o d’un nostalgico: è l’opera paziente e amorosa d’un filologo che si addentra in un modo ormai “altro” – eppure ancora vicino, possibile, libero, a misura d’uomo – d’intendere il mondo.

Fanco Cardini

Questo articolo è stato pubblicato in MC

Nessun commento: