Il regime comunista cinese è la dittatura di un uomo, il presidente Xi Jinping, che è il Partito, che è lo Stato. È una macchina di persecuzione, repressione, censura. Il fatto era già ben noto, ma in questa situazione di preoccupazione, se non di panico, a livello addirittura internazionale sta emergendo in modo sempre più chiaro.
Lo racconta bene Giulio Meotti sul quotidiano Il Foglio, lo raccontano quotidianamente le inchieste, le interviste, le testimonianze che giungono direttamente al magazine per i diritti umani e la libertà religiosa in Cina Bitter Winter, online da maggio del 2018, in cinque lingue.
Il Partito Comunista Cinese (PCC) non si tira indietro davanti agli espianti di organi illegali e forzati, agli aborti selettivi ai danni delle bambine, alla detenzione di tre milioni di cittadini di etnia uigura secondo le statistiche più aggiornate (incarcerati perché credenti, musulmani), più migliaia di altri appartenenti a minoranze turcofone, principalmente ma non solo kazaki (imprigionati per la stessa ragione), nei campi dello Xinjiang, che il regime chiama, graziosamente, “campi per la trasformazione attraverso l’educazione” e che spaccia per centri di avviamento professionale.
Certamente il Partito non si tira indietro neppure quando si tratta di stravolgere a proprio vantaggio la difficile situazione creata ormai a livello mondiale dalla pandemia COVID-19, secondo traiettorie distinte che finiscono però per intrecciarsi.
Censura e propaganda
Come d’abitudine, giornalisti, comuni cittadini e netizen hanno la bocca forzatamente cucita: il regime impone chi possa parlare, quando possa farlo, cosa sia permesso dire. Le informazioni provengono esclusivamente dall’agenzia di stampa ufficiale Xinhua e dalle conferenze stampa del ministero della Salute. Giornali e siti web non possono fare altro che riprendere tali notizie, è assolutamente vietato raccogliere interviste o parlare con i familiari dei malati in ospedale. E i dati, a quanto pare, sono artatamente calibrati per non generare panico nel Paese e celebrare le vittorie del Partito nella lotta al morbo.
È noto il caso di Li Wenliang (1986-2020), il medico, purtroppo poi deceduto per avere contratto il coronavirus, convocato, ammonito e tacitato per avere detto la verità sull’insabbiamento delle prime denunce della gravità della situazione sanitaria in Cina e del timore di un’epidemia, quale in effetti è. Ma non è stato il solo, e molte altre persone sono state imbavagliate affinché non rivelassero in patria e al mondo le responsabilità di Pechino nel nascondere per lungo tempo la realtà del contagio a Wuhan.
L’altra faccia della medaglia è quella della propaganda, che incensa Xi Jinping, leader ed eroe, novello Mao Zedong (1893-1976), uomo solo al comando, traghettatore della Cina dalla crisi della malattia alla sicurezza e alla salute. Oltre a celebrare tutte le importanti e risolutive azioni di contenimento e di cura messe in atto nel Paese grazie al pronto e provvido intervento del presidente, Pechino che è abitualmente pronta a “sinizzare” tutto, imponendo il proprio timbro a ogni aspetto della realtà, in questo caso fa la mossa contraria e “de-sinizza” il morbo, lo definisce ‒ clamorosamente ‒ “italiano” o “iraniano” o “giapponese”, ne attribuisce le responsabilità, anzi, la colpa, agli Stati Uniti d’America.
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