L’attuale pandemia di Covid-19
si sta rivelando come una straordinaria opportunità per la diffusione di una
cultura di morte. Un’occasione colta si potrebbe dire a livello mondiale. Negli
Stati Uniti, incomprensibilmente colti “di sorpresa” dall’arrivo del virus,
diversi Stati hanno già annunciato che le cure per il Coronavirus non saranno
accessibili a tutti, e a farne le spese saranno nei prossimi giorni anzitutto
le persone disabili: in Tennessee ad essere escluse saranno le persone affette
da atrofia muscolare spinale, mentre in Minnesota la gamma dei malati che non
avranno il diritto ad un respiratore si allarga alle persone affette da
malattie polmonari, da scompensi cardiaci e addirittura da cirrosi epatica a togliere ai pazienti affetti da Covid-19 il diritto a un respiratore.
In
altri Stati come New York, Michigan, Washington, Alabama, Utah, Colorado e
Oregon, i medici devono valutare il livello di abilità
fisica e intellettiva prima di intervenire, o meno, per salvare una
vita. Il motivo di queste decisioni? Non ci sono mezzi e attrezzature per
tutti. c’è da chiedersi come sia
possibile che gli Stati uniti, dopo aver assistito fin dai primi di
gennaio al dilagare di questa pandemia, non si siano attrezzati adeguatamente
aumentando la produzione di respiratori e di altri mezzi tecnici adatti, e
predisponendo gli ospedali in modo di non far mancare l’assistenza ad alcun
cittadino.
Se da una parte sembra che quasi ogni Paese al mondo, con pochissime
eccezioni, non avesse predisposto un valido Piano Pandemico nazionale, come
suggerito fin dal 2009 dell’OMS, dall’altra non ci si è fatti trovare
impreparati per quanto riguarda i provvedimenti eugenetici da applicare nei
confronti delle persone più fragili, destinate ad essere le principali vittime
della Pandemia. Vittime niente affatto inevitabili, perché tra coloro che
sembrano non poter godere di un diritto all’assistenza, non figurano solo i
grandi anziani, gli ottuagenari, ma anche persone più giovani che tuttavia
possono essere “sacrificate”.
Lo Stato dell’Alabama ha emanato delle direttive,
un documento intitolato è il caso più
eclatante. Nel suo documento intitolato “Scarce Resource Management”, che
prevede che i “disabili psichici sono candidati improbabili per il supporto
alla respirazione”. Un modo elegante per dire che potrebbe esserci l’abbandono
terapeutico- e quindi la morte- per disabili psichici, una classificazione in
cui potrebbero rientrare moltissime persone, dai Down a persone con ritardi
mentali. Un criterio eutanasico che ricorda i progetti nazisti di eliminazione
degli “esseri inferiori”.
Anche in Europa la cultura della morte sta cercando di cogliere le
opportunità offerte dall’epidemia di Covid-19: in Olanda al fine di evitare il
sovraffollamento degli ospedali già visto in Italia e altri Paesi, le autorità
sanitarie hanno dato disposizioni ai medici di base di contattare i loro
assistiti anziani invitandoli ad esprimere le loro volontà anticipate di
trattamento rispetto alle cure intensive. Si fa capire che devono optare se
essere curati con i respiratori, oppure- nel caso prendano in considerazione il
fatto che in fondo hanno vissuto abbastanza a lungo e che non ci sono risorse
sufficienti per tutti, “spontaneamente” rinuncino a farsi curare e si facciano
accompagnare dolcemente verso la morte.
C’è poi il caso dell’Italia,
che non ha dichiarato apertamente le proprie intenzioni eugenetiche, ma dove le
testimonianze che vengono dagli ospedali dicono di una pratica adottata fin dai
primi giorni dell’epidemia: quella di non curare tutti, ma solo le persone al
di sotto dei 75 anni. Gli ospedali, specie quelli del nord, sono arrivati nel
giro di pochi giorni al limite della
possibilità di accoglienza, a causa del numero alto di casi e la scarsa
disponibilità di posti di terapia intensiva.
Pertanto, è stato fatto intendere che queste morti – magari evitabili-
erano necessarie per un “bene comune”.
Forti dosi di nazionalismo, di presunto
senso civico, hanno fatto in modo di rendere accettabile questa idea:
un’eutanasia condizionata e motivata “socialmente”, per cui sarebbe sbagliato
pretendere per sé il respiratore quando potrebbe servire a qualcuno con molti
più anni di vita davanti. Ma non si tratta solo di respiratore, bensì anche di
altre cure, sostituite dall’accompagnamento “compassionevole” alla morte.
L’abbandono terapeutico, da atto immorale, diventa così un gesto di
“generosità”, quasi un atto dovuto. Una realtà sulla quale è doveroso far luce.
Paolo Gulisano
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