Cento anni fa nasceva Pomilio genio e gentilezza abruzzesi
Intellettuale attraversato da passione politica, studioso di Pirandello e Manzoni
L’Abruzzo ha in questi giorni un’occasione da non perdere per celebrare la propria presenza nella cultura del Novecento, ricordando lo scrittore Mario Pomilio, nato da famiglia abruzzese a Orsogna nel gennaio 1921 e poi trasferitosi ad Avezzano, a Pisa e a Napoli, dove insegnò nelle scuole superiori e poi come cattedratico di Letteratura Italiana al Conservatorio di San Pietro a Majella.
Morto nella città partenopea ad aprile del 1990, Pomilio espresse una personalità artistica e una levatura intellettuale così peculiari che è difficile tracciarne le coordinate in una breve rievocazione, sicché converrà partire da una domanda sulla quale tutti convengono, al di là della varietà di risposte: perché al nome di Mario Pomilio, pur oggi che non è tanto ricordato, elogiativamente si sollevano tutte le sopracciglia, in segno di ammirazione? Per la sua attualità: fu un intellettuale attraversato dalla passione anche politica – fin dagli esordi nell’antifascismo letterario a metà degli anni Quaranta, quando studiava alla Normale di Pisa, e fu sorpreso qui in Abruzzo dall’8 settembre 1943; sicché riversò questa passione in uno dei romanzi più dolenti del dopoguerra, ambientato a Teramo, “La compromissione” (1965), apprezzato sia da sinistra sia da destra, vincitore del Premio Campiello, con tema l’Italia tradita dal partitismo nei suoi ideali di resistenza e tratteggiò nel protagonista, un professore di provincia, l’incomponibile rapporto tra ideali e ideologia, coscienza e militanza.
Ma anche – viene da rispondere – perché in Mario Pomilio si riconosce un’autenticità di interrogazione sul senso della vita e sulla fede cristiana ispiratrice di vari suoi romanzi; per questo viene di solito ascritto ai romanzieri cristiani del Novecento sebbene le etichette siano sempre riduttive, in quanto indagò il mondo laico con scandaglio mai moralistico, didascalico o confessionale.
Oppure l’ammirazione per lui nasce da uno stile elegante e limpido, come una partitura di rare melodie e armonie, in cosciente contrapposizione agli sperimentalismi nati nei primi anni Sessanta, destinati ad affliggere lingua e letteratura nostrane – e che lui sempre avversò anche quale critico, insieme con scrittori napoletani coetanei come Rea, Compagnone, Prisco –; limpidezza e nitore di scrittura che gli venivano dall’amore per il verismo italiano (pubblicò saggi su Verga), per la scena (fu studioso di Pirandello) e soprattutto dal suo amore per Alessandro Manzoni, alla cui moglie Enrichetta Blondel dedicò “Il Natale del 1833”, solo romanzo abruzzese insignito dello Strega (nel 1983), dopo “Tempo di uccidere” di Ennio Flaiano (nel 1947). Bisogna fermarsi qui coi meriti e coi premi di Pomilio, passando in secondo piano quanto fu amato dai lettori; pubblicato e tradotto all’estero a ogni uscita, in molte edizioni (con numeri altissimi, specie per il suo romanzo forse più famoso, attraversato dalla tematica cristiana, “Il quinto evangelio”; ma anche per “Il Cimitero cinese” e per lo stesso “Natale del 1833” che furono long seller, non solo best seller).
Di un aspetto non può tuttavia rimanere privo un ritratto di Mario Pomilio: la gentilezza. Pomilio fu uomo straordinariamente garbato, amabile e per questo da rimpiangere oggi, in tempi nei quali il narratore, l’intellettuale devono praticare la cifra urlata, aggressiva per avere cittadinanza nei media.
Appartenne alla rara compagine degli intellettuali ecumenici per superiorità; immergersi in un suo romanzo significa lasciarsi avvolgere da un’affabulazione complice, quasi affettuosa, che rapisce; ma significa anche entrare in un mondo nel quale le stesse disarmonie, le brutture, che denunciò, si elevano a rappresentazione di contrasti senza tempo dell’animo umano, di cui fu grande scrittore e descrittore. Appartenne all’inquietudine, anche personalmente irrisolta sotto l’aspetto politico e religioso: ma che lo portò ad ospitare il contributo altrui, pur se idealmente remoto, in vista di una superiore composizione nella grazia dei toni e dell’apertura al dialogo.
Lo provano le sue interviste televisive, che trasferiscono l’immagine di una grande anima abruzzese, nutrita di sofferta sensibilità e sorridente nel rapporto con gli altri; forte della coscienza del proprio valore e gentile nel non farlo pesare.
Morto nella città partenopea ad aprile del 1990, Pomilio espresse una personalità artistica e una levatura intellettuale così peculiari che è difficile tracciarne le coordinate in una breve rievocazione, sicché converrà partire da una domanda sulla quale tutti convengono, al di là della varietà di risposte: perché al nome di Mario Pomilio, pur oggi che non è tanto ricordato, elogiativamente si sollevano tutte le sopracciglia, in segno di ammirazione? Per la sua attualità: fu un intellettuale attraversato dalla passione anche politica – fin dagli esordi nell’antifascismo letterario a metà degli anni Quaranta, quando studiava alla Normale di Pisa, e fu sorpreso qui in Abruzzo dall’8 settembre 1943; sicché riversò questa passione in uno dei romanzi più dolenti del dopoguerra, ambientato a Teramo, “La compromissione” (1965), apprezzato sia da sinistra sia da destra, vincitore del Premio Campiello, con tema l’Italia tradita dal partitismo nei suoi ideali di resistenza e tratteggiò nel protagonista, un professore di provincia, l’incomponibile rapporto tra ideali e ideologia, coscienza e militanza.
Ma anche – viene da rispondere – perché in Mario Pomilio si riconosce un’autenticità di interrogazione sul senso della vita e sulla fede cristiana ispiratrice di vari suoi romanzi; per questo viene di solito ascritto ai romanzieri cristiani del Novecento sebbene le etichette siano sempre riduttive, in quanto indagò il mondo laico con scandaglio mai moralistico, didascalico o confessionale.
Oppure l’ammirazione per lui nasce da uno stile elegante e limpido, come una partitura di rare melodie e armonie, in cosciente contrapposizione agli sperimentalismi nati nei primi anni Sessanta, destinati ad affliggere lingua e letteratura nostrane – e che lui sempre avversò anche quale critico, insieme con scrittori napoletani coetanei come Rea, Compagnone, Prisco –; limpidezza e nitore di scrittura che gli venivano dall’amore per il verismo italiano (pubblicò saggi su Verga), per la scena (fu studioso di Pirandello) e soprattutto dal suo amore per Alessandro Manzoni, alla cui moglie Enrichetta Blondel dedicò “Il Natale del 1833”, solo romanzo abruzzese insignito dello Strega (nel 1983), dopo “Tempo di uccidere” di Ennio Flaiano (nel 1947). Bisogna fermarsi qui coi meriti e coi premi di Pomilio, passando in secondo piano quanto fu amato dai lettori; pubblicato e tradotto all’estero a ogni uscita, in molte edizioni (con numeri altissimi, specie per il suo romanzo forse più famoso, attraversato dalla tematica cristiana, “Il quinto evangelio”; ma anche per “Il Cimitero cinese” e per lo stesso “Natale del 1833” che furono long seller, non solo best seller).
Di un aspetto non può tuttavia rimanere privo un ritratto di Mario Pomilio: la gentilezza. Pomilio fu uomo straordinariamente garbato, amabile e per questo da rimpiangere oggi, in tempi nei quali il narratore, l’intellettuale devono praticare la cifra urlata, aggressiva per avere cittadinanza nei media.
Appartenne alla rara compagine degli intellettuali ecumenici per superiorità; immergersi in un suo romanzo significa lasciarsi avvolgere da un’affabulazione complice, quasi affettuosa, che rapisce; ma significa anche entrare in un mondo nel quale le stesse disarmonie, le brutture, che denunciò, si elevano a rappresentazione di contrasti senza tempo dell’animo umano, di cui fu grande scrittore e descrittore. Appartenne all’inquietudine, anche personalmente irrisolta sotto l’aspetto politico e religioso: ma che lo portò ad ospitare il contributo altrui, pur se idealmente remoto, in vista di una superiore composizione nella grazia dei toni e dell’apertura al dialogo.
Lo provano le sue interviste televisive, che trasferiscono l’immagine di una grande anima abruzzese, nutrita di sofferta sensibilità e sorridente nel rapporto con gli altri; forte della coscienza del proprio valore e gentile nel non farlo pesare.
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