domenica, novembre 30, 2025

L'appuntamento della carità

Caro Benigno,

mi è frullata per il capo un’idea, e te la mando a dire, anche perché desidero sapere da te come dovrei fare per venirne a capo. Senti: sono un semplice artigiano con famiglia, abbonato al tuo bel settimanale fin dai primi numeri; non so certo manovrar la penna come gli attrezzi del mio mestiere, ma tanto per dirti la soddisfazione provata con la vittoria della D. C. che ha salvato l’Italia, spero cavarmela.
È da questa soddisfazione che mi è nata l’idea che ora ti espongo.

Nel 1944, dopo molteplici peripezie, che non so se sia meglio ricordare o dimenticare, dopo essere stato ferito con mia figlia in Chiesa per bombardamento aereo, dopo essere stato sfollato d’autorità, e poi lontano dal mio paese e dal mio lavoro per più di un anno, sono stato danneggiato nelle mie poche cose da altro bombardamento aereo, e riconosciuti i danni, tengo ora un credito presso lo Stato, per quanto ho subito. Ora vorrei farla finita con ciò e mettere una pietra sul passato, e dare così anch’io qualche cosa all’Italia, che si è dimostrata ancora una volta cattolica, da meritarsi sempre l’amore dei suoi figli.

Vorrei insomma sapere a chi dovrei scrivere, a quale Ente o Ministero indirizzare questa mia rinuncia al credito di danneggiato di guerra.

Non so se mi sono espresso bene, ma mi vorrai scusare se, pur non essendo colto, ho osato scriverti, e se mi userai la cortesia di rispondermi, fa pure come meglio credi; ho fiducia in te tanto per restare anonimo quanto per pubblicare il mio nome.  
— Angelo Cutioni (Savona), Ceriale.

 

Caro Angelo,

1 — A chi hai indirizzato la domanda per risarcimento danni di guerra? All’Intendenza di Finanza competente? E a quella indirizza la tua nobile rinuncia, che spero sia imitata dai più «abbienti»;

2 — come vedi ti sei espresso benissimo: l’importante, del resto, è farsi comprendere. Così sapessero tanti «colti» che si danno aria di letterati e non riescono a farsi capire mentre danno ad intendere di essere «originali»!

3 — ho stampato il tuo bel nome chiaro e tondo perché le buone azioni debbono essere segnalate e controllate... e poi quando dell’anonimato si può fare a meno, tanto di guadagnato; mi ha sempre ispirato una repugnanza istintiva.

Benigno

15 agosto 1948

domenica, novembre 23, 2025

L'appuntamento della carità

 Caro Benigno,

ho letto e riletto la lettera del sacerdote G. L. (Osservatore Romano della Domenica n. 21). Mi è doveroso rallegrarmi con lo zelante parroco di Torre di Pordenone per le opere altamente sociali che egli ha istituito, e le mie felicitazioni — se lo permette — lo aiutino a dissipare il lieve velo di scoramento che accompagna le sue parole.

«Se Atene piange, Sparta non ride». Ho una parrocchia prevalentemente operaia in terra... rossa di Romagna. Il 90 per cento degli uomini e dei giovani non assiste alla Messa festiva ed il 60 per cento delle donne. Sento tutta l’amarezza per la diserzione dalla Chiesa di tanti miei parrocchiani, ed in particolare di fanciulli che, appena ammessi alla prima Comunione e Cresima, non si fanno più vedere in Chiesa.

Credo che per recuperare tutte queste pecorelle smarrite si renda urgente una decisa azione di istruzione catechistica. Il compito di insegnare la dottrina di Gesù è sostanziale nella vita sacerdotale. Ma come arrivare a quelli — e sono tanti — che non si accostano più alla Chiesa? Facciamo arrivare loro — ho pensato — una rivista illustrata catechistica, che rechi nelle famiglie le verità divine e cristiane, di cui hanno tanto bisogno.

Mi è capitata sott’occhio la rivista illustrata Vera Vita (via San Sebastiano, 48, Napoli) ed ho pensato di regalare un certo numero (20) di abbonamenti ai più poveri... di cognizioni e di vita religiosa e cristiana. Ma come giungere ai circa 200 fanciulli lontani (dai 7 ai 15 anni) quando le condizioni economiche non lo permettono?

Tra i lettori dell’Appuntamento della carità vi è qualcuno che voglia stanziare offerte per abbonamento semestrale (L. 175) od annuale (L. 350) di Vera Vita a fanciulli della mia parrocchia?

«— Chiedete e riceverete».

Don Dino Valgimigli
Parroco dei Ss. Simone e Giuda – Ravenna


Chi vorrà smentire il Verbo? «Per questo vi dico: qualunque cosa domandate nella preghiera, abbiate fede e l’otterrete».

Questo povero parroco chiede, prega per compiere un’opera di bene, un’opera santa, la più alta: far rientrare all’ovile le sue pecorelle. S’è visto dove lo smarrimento di tante pecorelle ci ha condotto e dove stava per farci precipitare.

Ecco perché, oltre all’indirizzo del sacerdote, ho messo quello della rivista. Giunga l’appello anche alla direzione di Vera Vita e ascolti questa la preghiera del «pastore», insieme a tutti i buoni che non hanno dimenticato.

«Le tempeste che sbattono la nave della Chiesa turbano il pilota... Invero, se non sedete anche voi al timone, non siete forse anche voi sulla nave?»

Il parroco dei Ss. Simone e Giuda aspetta. Che non aspetti invano!

Benigno

1 agosto 1948

domenica, novembre 16, 2025

L'appuntamento della carità

Un’anima buona mi scrive:

«Le segnalo un caso che forse potrebbe ispirarle uno scritto ed una opera di carità. Si tratta di questo: ho conosciuto per caso un povero uomo, disgraziato fisicamente, poverissimo, che tira avanti la vita lavorando da elettricista (ma è ostacolato dalle sue condizioni fisiche). Ebbene, quest’uomo è un musicista e musicologo appassionato; innamorato di Beethoven, scrive notturni e Ave Marie (ha fatto i voti di scriverne una se guarirà). È stato a Lourdes e può essere interessante ascoltarlo mentre parla del suo pellegrinaggio e della sua vocazione.

Mi pare che una segnalazione fatta con sentimento, potrebbe costituire, oltre ad un articolo interessante, un aiuto per un poveretto. Ove anch’Ella lo credesse, io Le potrei combinare un incontro.

W. V.»

L’appuntamento, anzi l’incontro, me lo sono procurato nella maniera più semplice e rapida, invitando cioè per telefono a casa mia il Sig. Bruno De Andreis, ricoverato all’Istituto dell’Immacolata (Via Monti di Creta, 4) anche perché non ho voluto farne oggetto di curiosità... gazzettiera.

Il primo incontro è forse sgradito per stomaci delicati (quando si tratta di carità. Santa Caterina aveva uno stomaco di ferro) ma poi la luce dell’anima risplende su quel volto piagato. Mentre Bruno parla si riesce a intravedere pian piano il volto del Crocifisso. Bisogna pensare a Cristo.

Adesso Bruno racconta:

Orfano in tenera età, un arresto di sangue gli procurò un «angioma» per cui fu sottoposto da una zia a cure di raggi, forse drastiche. Dopo tre anni peggiorò notevolmente. Rimasto con lo zio, si diede a coltivare la musica, ma da autodidatta, riuscendo in breve a comporre. Intanto si esercitava nel mestiere di elettricista.

A 18 anni, un grosso pezzo di lavagna staccatosi da un cornicione gli procurò la frattura della scatola cranica. Nel 1940, transitando in bicicletta, causa l’oscuramento, urtò violentemente contro un paracarro e si fratturò il femore, rimanendo anchilosato della gamba sinistra. Soffre atroci dolori per sopraggiunta sinovite. Intanto continuano le applicazioni di ogni genere nella pelle del viso, ma peggiora sempre finché i buoni frati dell’Immacolata non lo ricoverano, iniziando una cura speciale che già gli ha procurato giovamento. Guarirà.

Ho esposto freddamente il caso perché ognuno misuri quanto sia sciagurato questo giovane che tutto subisce con una rassegnazione che non esito a chiamare eroica.

Ora egli vorrebbe lavorare per aiutarsi a risalire l’abisso in cui è caduto e in cui lo respinge, soprattutto, la sua miseria fisica. Avrebbe inoltre bisogno di supernutrimento per affrontare seriamente una cura lunga e costosa. Non ha abiti, biancheria ecc. Le esigenze dell’Istituto che lo ospita sono molte: non si arriva coi mezzi scarsi di cui si dispone a lenire il male di tutti, che è grave, ostinato.

Chi non vorrà porgere una mano a questo infelice provato così duramente, procurandogli lavoro o inviandogli un’offerta che serva ad alleviare i suoi atroci patimenti fisici e morali?

Dare al povero è dare a Cristo, ma quando questo povero si chiama Bruno De Andreis? Si tratta di un puro di cuore.

Benigno

18 luglio 1948

 

venerdì, novembre 14, 2025

Government has stuck its head in the sand over birth rates

 

At a press conference last week, Finance Minister Paschal Donohoe was asked by Gript journalist, Ben Scallan, whether Ireland should adopt pro-natalist policies to raise our very low birth rate. The context was the launch of a major new report looking ahead to 2065 and the financial challenges we will face, including from a fast-ageing population. The report looks almost exclusively to immigration as a solution to this problem. Both Minister Donohoe and the Department of Finance’s Chief Economist, John McCarthy, who was sitting beside him, essentially told Scallon there is nothing we can do to increase births.

Donohoe said that the number of children people have “is a choice for families”, while McCarthy said that “pro-natalist policies have been shown to have virtually no impact” elsewhere.

The Government plainly does not want to discuss Ireland’s plunging birth rate, because doing so would invite scrutiny of the policies that have made it so difficult for young people to start families. Yet, in the same interview, both Donohoe and McCarthy confirmed that the Government seeks to make daycare more affordable in order “to help families.” This alone undermines their claim. If daycare policies can help families, then clearly public policy can influence family formation and fertility rates. The real question is which policies the Government chooses to promote.

Minister Donohoe insists family size is a “choice.” Ireland’s fertility rate is now just 1.5, well below the replacement level of 2.1. But are people truly choosing to have so few children? According to an Amarach poll from 2022 which was commissioned by The Iona Institute, 36pc of Irish adults want two children, 35pc want three, and 13pc want four. This averages out at 2.7 children each. The gap between the number of children people want and the number they actually have reveals that economic and cultural pressures, and not necessarily personal preference, are suppressing family formation.

One of the strongest economic influences on the ability to start a family is the cost of housing. A new paper Build, Baby, Build: How Housing Shapes Fertility shows that rising housing costs, particularly for family-sized homes, directly reduce birth rates. Larger families need more space, and when rents or mortgages for multi-bedroom units soar, couples delay or forego having children. The study found that building more family-sized housing is far more effective (2.3 times more) in increasing births than simply increasing the supply of small apartments. Using U.S. data and a dynamic housing-fertility model, the paper estimates that if housing costs had remained at 1990 levels, the United States would have seen 11pc more births, roughly 13 million additional children, between 1990 and 2020. In other words, unaffordable housing is a major drag on birth rates.

In Ireland, where home ownership has become a dream for many young couples, the same logic applies.  While housing availability and affordability is not the only factor pushing down birth rates, it is a significant one, to judge by this new paper.

Other social dynamics, from career focus to the postponement of marriage, also shape how people view family life, and they too require thoughtful policy and cultural engagement.

This government, like the previous one, relies on immigration to compensate for the fall in births but immigration cannot fix a collapsing birth rate, since migrants themselves are mostly coming from countries where fertility rates have dropped below replacement level, for example, Brazil and India.

When politicians dismiss the issue or hide behind the language of “choice,” they reveal a lack of moral seriousness about the country’s long-term future.

If we do not put family formation at the heart of our social and economic policies, we will discover too late that the real “choice” we made was decline.

lunedì, novembre 10, 2025

Faith on Their Own Terms: How Young People Are Redefining Religion


Britain’s overall attitude towards faith is changing, and the younger generation appears more receptive to this shift, according to a new report.

Faith is becoming less a matter of family heritage and more a personal choice, and it is increasingly viewed as a resource to improve mental health.

Since the 1970s, the steady secularisation of Western societies has often been seen as inevitable. Yet recent polling in various countries, including Ireland (see here and here), suggests that younger generations may be showing a slight renewed interest in religion compared to the previous one, indicating a possible reversal of long-term religious decline.

The new report "The Next Generation of Faith: Journeys, Meaning and Wellbeing" produced by the Institute for the Impact of Faith in Life (IIFL), explores how attitudes towards faith are changing among young adults in Britain.

It examines the experiences of those who have moved towards religion as well as those who have stepped away, offering insight into the motivations and values shaping these shifts.

The picture emerging is not one of simple decline or abandonment, but of re-evaluation. For many aged 18–34, faith is no longer something accepted by default due to upbringing or cultural expectation. Instead, they are far more likely to make decisions about religion on their own terms. Personal authenticity carries considerable weight: beliefs must align with one’s values, sense of identity and understanding of the world. If they do not, there is little sense of obligation to remain within the tradition in which one was raised. In this way, faith is becoming more intentional rather than inherited.

This emphasis on autonomy is accompanied by a shift in what faith is perceived to be for. Many young adults now approach faith less as a fixed belief system and more as a personal resource to improve their mental and emotional wellbeing, according to the report.

“40pc of 18-34s that are moving into faith/changing religions are doing so because of a desire for personal transformation or healing. This goes down to 29pc for those older than 35”, the report says.

Younger people are far more aware of their psychological health and are attentive to practices that support reflection and self-understanding. For some, faith offers these benefits, providing space for meaning and emotional regulation. For others, faith is abandoned precisely because it is felt to lack compassion or emotional relevance.

The report also finds that younger adults engage more critically with questions of social justice and global crisis. Many struggle to reconcile such urgent challenges with religious frameworks that seem detached or inadequate.
“Of all the 18-34s that feel that global events have made them feel the world is increasingly unfair, 70pc moved away from faith. Among those older than 35, this is only 48pc”, the report notes.

Taken together, these findings highlight a movement away from socially embedded, inherited religion towards forms of belief or non-belief that are more flexible, personal and self-directed. Faith, where it persists, tends to be reflective and selectively integrated into a broader framework of identity.

 


domenica, novembre 09, 2025

L'appuntamento della carità

 Due righe scritte in fretta, a quel che pare, ma che racchiudono un così cristiano monito, da convincermi a segnalarle in quest’angolo di luce come «primato missionario» da imitare a edificazione delle anime:

«La curazia di S. Nicolò del Comelico (Belluno) ha offerto alle Missioni, nella giornata missionaria 1947, lire settantamila (L. 76.004) in ragione di L. 115 “pro capite”, constando detta curazia di 570 fedeli. — Il curato Don V. De M.».

Valgano queste righe a risvegliare troppe coscienze inerti, che hanno dimenticato le parole del Maestro, quando su una montagna di Galilea — delle Beatitudini o il Tabor? — assegnò agli Apostoli la loro missione:

«Ogni potere mi è stato dato in cielo e sopra la terra. Andate dunque per tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Istruite tutte le genti, battezzando nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo: insegnando loro a serbar tutte le cose che vi ho comandate. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo: chi non crederà, sarà condannato».

E aggiunse, rivestendoli di sovrumano potere:

«Ora questi sono i segni che accompagneranno coloro che credono: nel nome mio cacceranno i demoni; parleranno lingue nuove; maneggeranno serpenti e, se avranno bevuto alcunché di velenoso, loro non nuocerà; imporranno le mani agli ammalati e questi guariranno. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla consumazione dei secoli».

Mentre la prima parte dell’investitura è abbastanza nota, meno nota è la seconda e ancor meno la seguente:

«Era necessario che il Cristo patisse e risuscitasse da morte il terzo giorno, e che si predicasse nel nome di Lui la penitenza e la remissione dei peccati per tutto l’universo, incominciando da Gerusalemme».

I 570 fedeli di S. Nicolò del Comelico hanno certo, chi più chi meno, intuito tutta l’importanza di questi passi delle Scritture coi quali Cristo istituì le Missioni. Ad esse la Chiesa lega la sua stessa esistenza, che è totale, e cioè non del solo Capo, ma di tutto il Corpo Mistico, ovverosia di ognuno di noi, battezzati nel nome del Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo.

Potrei aggiungere che è guerra perenne proprio in quella Gerusalemme donde penitenza e remissione dovevano incominciare, perché ivi è sordità e cecità maggiore.

Pure, da ogni anima riconquistata sale l’anelito di Agostino:

«O Dio, Dio mio, che miserie m’è toccato a patire! e che delusioni! Andavo in cerca di un soggetto d’amore, bramando di amare, e così odiavo la mia tranquillità e una via senza laccioli. Io dentro avevo fame di nutrimento interiore che sei tu stesso, mio Dio; ma non da quella fame io mi sentivo divorare; non avevo voglia d’incorruttibili alimenti, non perché ne fossi sazio, ma perché, quanto più n’ero digiuno, tanto maggiore ne sentivo la nausea».

Faccia ognuno di noi che si dice cristiano, che un’anima almeno si sazi delle parole di vita, le parole che non passano mai.

E questa, certo, è la Carità più grande perché vale l’eternità.

Begigno

27 giugno 1948

venerdì, novembre 07, 2025

Proclamato Dottore della Chiesa san John Henry Newman

 

di Angelo Bottone

Lo scorso 1 novembre, papa Leone XIV ha proclamato Dottore della Chiesa san John Henry Newman e lo ha anche nominato patrono dell’educazione cattolica.
Ma chi era questo porporato inglese la cui eredità intellettuale e spirituale ancora oggi ci parla con forza?

Fu teologo, educatore, guida spirituale, polemista e uomo di pensiero. Autore di sermoni, saggi storici e teologici, romanzi, poesie e trattati filosofici. Questa produzione riflette i molteplici ruoli da lui ricoperti. Ma più dei suoi scritti, è la sua vita stessa a interpellarci, segnata da un intenso e drammatico cammino di fede.

Nato a Londra nel 1801, trascorse buona parte della sua vita a Oxford, prima come studente e poi come sacerdote anglicano e accademico. Qui esercitò un’influenza profonda attraverso le sue prediche e i suoi scritti, diventando uno dei principali animatori dell’Oxford Movement, un tentativo di rinnovamento spirituale all’interno della Chiesa anglicana, incentrato sul recupero della teologia patristica e della liturgia.

Nel contesto di questo movimento, Newman difese a lungo la cosiddetta via media: la convinzione che l’anglicanesimo costituisse una posizione intermedia tra il cattolicesimo romano, percepito come appesantito da pratiche e dottrine spurie, e il protestantesimo, colpevole di aver abbandonato elementi essenziali della fede cristiana. Tuttavia, fu proprio lo studio dei Padri della Chiesa, i teologi dei primi secoli, a minare questa convinzione: Newman si rese conto che nella storia della Chiesa non si trovavano tracce di una “via media”, ma piuttosto un nucleo fedele alla verità apostolica, da cui nel tempo si erano allontanati vari gruppi.

Da qui nacque un interrogativo cruciale: come distinguere uno sviluppo autentico della dottrina da una sua corruzione? Per Newman, non si trattava solo di una questione teologica ma di una sfida esistenziale. Il suo amore per la verità lo portava a mettere in discussione la Chiesa in cui era cresciuto e che aveva promesso di servire. Le sue perplessità sul cattolicesimo non riguardavano tanto i dogmi, quanto alcune pratiche devozionali verso i santi e la Vergine.

Fu la sua riflessione teologica sulla storia a permettergli di superare queste riserve. Nel Saggio sullo sviluppo della dottrina cristiana (1845), Newman formulò sette criteri per distinguere lo sviluppo autentico da una deviazione dottrinale. Applicandoli alla storia del cristianesimo, giunse alla conclusione che solo nella Chiesa Cattolica si riconosceva la continuità con la Chiesa dei Padri e dei Concili. Questo lo condusse alla conversione: un passo doloroso, che gli costò l’abbandono della carriera accademica, l’emarginazione e la rottura di legami profondi.

Accanto al tema dello sviluppo dottrinale, Newman mise al centro della sua riflessione la coscienza, intesa sia come senso morale che ci permette di distinguere il bene dal male, sia come la voce interiore che ci chiama a fare il bene. Anche in chi non conosce la rivelazione cristiana, la coscienza rappresenta la più forte testimonianza dell’esistenza di Dio. Newman era scettico nei confronti delle prove razionali dell’esistenza di Dio basate sull’osservazione del mondo esterno, che riteneva convincenti solo per chi già crede. Al contrario, la legge morale interiore parla a tutti: essa rimanda a un legislatore, che non può essere un’idea astratta, ma una persona viva, un Maestro che ci parla nel cuore.

Per Newman, la coscienza è dunque il legame più intimo tra la creatura e il Creatore, il luogo in cui l’uomo ascolta la voce di Dio. È proprio questa fedeltà alla coscienza ad averlo guidato per tutta la vita, anche a costo di incomprensioni e sacrifici. La sua conversione al cattolicesimo non fu compresa da molti e su di lui gravò sempre un’aura di sospetto.

Molti dei suoi progetti fallirono o furono ostacolati. Ma Newman non cercava il successo: cercava la verità. Solo nel 1879, ormai settantottenne, ottenne il riconoscimento che meritava: papa Leone XIII lo creò cardinale, nonostante le resistenze di alcuni vescovi inglesi. Con questo gesto, Leone XIII rese giustizia a una vita interamente consacrata alla ricerca sincera e appassionata della verità, sempre illuminata dalla luce della coscienza.

Newman morì nel 1890, ma la sua santità fu riconosciuta solo dopo oltre un secolo. Papa Benedetto XVI, nel 2010, lo ha proclamato beato, e papa Francesco lo ha canonizzato nel 2019. Leone XIV, a conclusione di un lungo cammino, lo ha elevato al più alto grado del riconoscimento ecclesiale, dichiarandolo Dottore della Chiesa e patrono dell’educazione cattolica.

È un titolo che non solo onora la sua opera ma ne riconosce la profonda attualità. In un tempo segnato da disorientamento e da crisi di senso, Newman ci ricorda che solo chi ascolta la voce della coscienza, con umiltà e coraggio, può giungere alla verità e renderla feconda per il bene di tutti.


Meridianoitalia.tv

mercoledì, novembre 05, 2025

Another study shows greater openness to religion among young people

People used to mainly inherit their religion, like their politics, from their parents. This is no longer the case and hasn’t been for a long time. Now people often have to acquire religion (and politics) for themselves. It is a much more individualistic thing. A new report from Britain overall highlights this fact but shows younger people are sometimes attracted to religion because of its undoubted connection to improved mental and physical wellbeing.

In fact, polling in various countries, including Ireland (see here and here), suggests growing openness to religion among some young adults, especially those aged 18-24. This indicates a possible reversal of long-term religious decline.

The new report “The Next Generation of Faith: Journeys, Meaning and Wellbeing” produced by the Institute for the Impact of Faith in Life (IIFL), explores how attitudes towards faith are changing among young adults in Britain.

It examines the experiences of those who have moved towards religion as well as those who have stepped away, offering insight into the motivations and values shaping these shifts.

The picture emerging is not one of simple decline or abandonment, but of re-evaluation. For many aged 18–34, faith is no longer something accepted by default due to upbringing or cultural expectation. Instead, they are far more likely to make decisions about religion on their own terms. Personal authenticity carries considerable weight: beliefs must align with one’s values, sense of identity and understanding of the world. If they do not, there is little sense of obligation to remain within the tradition in which one was raised. In this way, faith is becoming more intentional rather than inherited.

This emphasis on autonomy is accompanied by a shift in what faith is perceived to be for. Many young adults now approach faith less as a fixed belief system and more as a personal resource to improve their mental and emotional wellbeing, according to the report.

“40pc of 18-34s that are moving into faith/changing religions are doing so because of a desire for personal transformation or healing. This goes down to 29pc for those older than 35”, the report says.

Younger people are far more aware of their psychological health and are attentive to practices that support reflection and self-understanding. For some, faith offers these benefits, providing space for meaning and emotional regulation. For others, faith is abandoned precisely because it is felt to lack compassion or emotional relevance.

The report also finds that younger adults engage more critically with questions of social justice and global crisis. Many struggle to reconcile such urgent challenges with religious frameworks that seem detached or inadequate.

“Of all the 18-34s that feel that global events have made them feel the world is increasingly unfair, 70pc moved away from faith. Meanwhile, for those older than 35, this is only 48pc.”, the report notes.

This is a bit ironic given that the Churches tend to talk about social justice and climate issues a lot.

Taken together, the findings of the report highlight a movement away from socially embedded, inherited religion towards forms of belief or non-belief that are more flexible, personal and self-directed. Faith, where it persists, tends to be reflective and selectively integrated into a broader framework of identity.

domenica, novembre 02, 2025

La carrozzella del papa

Santità,

è con l’animo gonfio di emozione che mi prostro dinanzi alla Santità Vostra per porgervi i sensi più devoti e profondi della mia filiale gratitudine per la grande opera di bene che mi avete fatto.

Voi avete ridato uno sprazzo di vita ad un povero lavoratore colpito nella sua piena maturità da una delle più tremende disgrazie che lo ha condannato per sempre ad una inerzia forzata. Sento così di poter acquistare una certa autonomia, più di potermi rendere ancora utile, sia per me per una minima percentuale, diminuendo il peso che troppo presto e tanto involontariamente sono stato costretto a dare ai miei figlioli.

Santo Padre, vogliate credere che nel ricevere il grande dono che mi avete mandato, io e la mia famiglia ed alcuni parenti ci siamo intesi stringere il cuore, inumidire gli occhi: e questo solo possiamo offrire, Padre Santo, la nostra commozione e le nostre lacrime di gratitudine.

Noi pregheremo Iddio per Voi che tanto santamente reggete i destini dei popoli, e Voi nell’accogliere la nostra anima vogliate impartirci la Vostra benedizione e vogliate intendere dal Signore onnipotente la grande mia pace serena e cristiana.

Lenci Aristide

Sfrondata del superfluo, ma intatta nel contenuto e nella stesura, questa lettera di un operaio paralizzato alle gambe, che si è rivolto al cuore del «dolce Cristo in terra» ricevendone in risposta — tramite la Pontificia Commissione di Assistenza — una carrozzella completa, costruita con i più moderni criteri dell’ortopedia, ci ha portato in redazione un’altra boccata d’aria pura.

Abbiamo pensato al momento dell’arrivo in una di quelle industrie cittadine dove le ciminiere fanno a gara coi campanili per toccare il cielo: col fumo del sudato lavoro e con le Croci innalzate fra stormi di campane.

C’è adunata, c’è festa in famiglia per l’arrivo del dono del Papa: anche i parenti arrivano da ogni dove per vedere il provvidenziale apparecchio che ridarà al babbo, al marito, al cognato, al fratello, allo zio la possibilità di muoversi, di tornare sulle strade tante volte percorse ancora giovane e sano, di rivedere la piccola chiesa e il curato che potrà d’ora innanzi somministrargli i Sacramenti dall’altare.

Ci andrà da sé in chiesa, con le sue… ruote, le ruote benedette dal Papa, che quando si muovono par che volino, che scivolano via rapide e silenziose come sospinte dagli angeli: e sono invece le stesse mani di quando era valido ad imprimergli il movimento, incallite dalla fatica.

Le mani che tornerà adesso a stringere a tutti — buoni e cattivi — per sentire il caldo dell’amicizia e il freddo dell’indifferenza o, peggio, del rancore: «Il mondo ha odiato me e odierà voi», disse il Signore, e lui ha sempre lavorato, da buon operaio, nella Vigna dai verdi tralci.

Vogliono toccarla tutti, la «carrozzella del Papa», perché sembra a più d’uno, che so, di attraversare una grande piazza abbracciata da un colonnato enorme che sembra una foresta, sormontata da una cupola immensa, e di rivedere lassù, sotto il cielo di Roma eterna, a quella finestra dove appare diafano e solo, un Uomo bianco che apre le braccia per metterle in croce e poi benedire…

Benigno

13 giugno 1948

sabato, novembre 01, 2025

Saint John Henry Newman: Doctor of the Church

Today, Pope Leo will proclaim Saint John Henry Newman a new Doctor of the Church. This is an event of immense significance for the universal Church, for educators, and for all who care about the dialogue between faith and reason. Newman’s thought, born in the intellectual ferment of nineteenth-century Oxford and matured through his years in Rome, Dublin and Birmingham, continues to speak with extraordinary vigour to our age of rapid change and fragile certainties.

To mark this occasion, I am deeply honoured to have contributed in various ways to the reflection on  Saint Newman’s legacy.

This week The Irish Catholic publishes my article “John Henry Newman: Doctor of the classroom and the soul”. The piece explores Newman’s lifelong dedication to teaching, his founding of the Catholic University of Ireland, and his vision of education as a spiritual work, a friendship of minds and hearts in the pursuit of truth.

Here below you will find the full text of that article.

I have also explored Newman’s vision in other contexts.

My article In cammino verso l’unità interiore was published in the Italian edition of L’Osservatore Romano on 30 October 2025, reflecting on Newman’s journey towards interior unity and the harmony of faith and intellect.

I have also contributed a chapter on Newman’s Engagement with Locke’s Epistemology to the new Gracewing volume "John Henry Newman the educator. His formation, philosophy and lecacy", which examines the philosophical and theological horizons of  the thought of the British cardinal.

I gave an interview to Tempi.it about Newman as “the Doctor of the Church who surrendered to truth”, later translated into Portuguese for Padre Paulo Ricardo.

A short piece, also appeared on the weekly newspaper of the Diocese of Venice, in Italy.

 

John Henry Newman: Doctor of the classroom and the soul”

It should come as no surprise that Pope Leo chose the Jubilee of Educators (1 November) as the occasion to proclaim Saint John Henry Newman a Doctor of the Church. Few figures in modern Christianity have embodied so completely the vocation of education as a service to truth and to the integral formation of the human person. Newman was a theologian, preacher and apologist, but above all an educator in the fullest sense of the word. In his journal he once confessed: “From first to last, education, in the broad sense of the term, has been my line.” His entire life can be read as a long, steady commitment to the art of educating both minds and hearts in the pursuit of truth.

For half of his life Newman lived and worked in Oxford, the intellectual heart of England. There he matured his deep reflection on the nature of education. As a tutor at Oriel College, he experienced first-hand the power of personal influence, the transformative encounter between teacher and student. He realised that authentic knowledge does not arise solely from books or lectures but from the meeting of two souls, from the living transmission of ideas, example and values. After his conversion to Catholicism in 1845, this conviction became the guiding principle of his educational work.

Newman’s first great project after conversion was the Catholic University of Ireland, inaugurated in Dublin in 1854. His aim was nothing less than to offer Irish Catholics, long excluded from the academic world, an institution that could unite intellectual excellence with a strong spiritual and moral formation. Later, in Birmingham, he founded the Oratory School, a secondary school intended to embody the same ideals in the education of boys.

The heart of Newman’s educational vision lies in his masterpiece, The Idea of a University, written in Dublin. For Newman, education could never be reduced to technical training or professional preparation. It was, rather, a journey towards wisdom, an inner growth that embraces the whole person. A true university, he wrote, does not exist to serve immediate or utilitarian ends, but to cultivate the intellect and to form in students a critical and generous mind. Its task is to shape men and women capable of thinking, discerning and acting with conscience.

Such a vision was strikingly counter-cultural in the nineteenth century, an age dominated by industrial expansion and the utilitarian creed of efficiency and profit. Newman looked with concern on a culture that prized usefulness over goodness and tended to fragment knowledge into technical specialisms. “Though the useful is not always good, the good is always useful,” he wrote. Knowledge, he argued, has value in itself and precisely for that reason it is also fruitful, because only a mind formed by truth and a heart directed towards the good can truly serve society.

At the centre of Newman’s philosophy stands a profound harmony between faith and reason. He saw them not as competing forces but as two converging paths towards the same truth. In his Dublin lectures he defended the place of theology within the circle of university disciplines: to exclude it, he argued, would be to mutilate the very idea of universal knowledge.

“If a University be a place of instruction where universal knowledge is professed,” he wrote, “and if in a certain University, so called, the subject of Religion is excluded, one of two conclusions is inevitable: either, on the one hand, that the province of Religion is very barren of real knowledge, or, on the other, that in such a University one special and important branch of knowledge is omitted.”

For Newman, the university was to be a home for all the sciences, including the knowledge of God.

This insight spoke directly to the Irish context of his time. The new Catholic University of Ireland was a bold attempt to reconcile modern intellectual life with the faith of a people emerging from centuries of religious marginalisation. Newman’s brief tenure as its first rector was not without frustration: he faced inadequate funding, political tension, and an educational system still recovering from the wounds of the Penal era. Yet the experiment left a lasting mark.

Among those who gave lustre to the Catholic University was the Jesuit poet Gerard Manley Hopkins, who taught Greek and Latin there in the 1880s. Hopkins’s sense of beauty, his sacramental vision of the world and his conviction that “Christ plays in ten thousand places” reflect Newman’s own belief that faith and culture should illuminate one another. One of the University’s most famous students, James Joyce, would later recall in his writings the complex intellectual atmosphere shaped by Newman’s influence.

A cornerstone of Newman’s educational thought is his emphasis on personal relationships. He was convinced that teaching must never become impersonal or mechanical. He criticised universities where contact between professors and students was minimal or purely administrative. During his Oxford years he developed a tutorial model grounded in friendship, dialogue and shared life. A tutor, he wrote, is not merely a dispenser of knowledge but a moral and spiritual guide, a mentor standing in loco parentis.

This belief shaped his later foundation, the Oratory School in Birmingham. The school was designed to unite intellectual formation with moral and spiritual growth in a family-like atmosphere. Among its most celebrated pupils was Hilaire Belloc, the future writer and Catholic apologist, whose wit and intellectual independence bore the stamp of Newman’s spirit. Another connection, though indirect, was J.R.R. Tolkien. He never attended the Oratory School, yet after his mother’s death he was raised under the guardianship of Fr Francis Xavier Morgan, an Oratorian priest and disciple of Newman’s first generation. Through him Tolkien absorbed that same vision of faith, learning and integrity which later infused his imagination.

At the root of all this lay Newman’s conviction that education is a spiritual work. A teacher does not form intellects alone but whole persons. He does not merely communicate ideas; he communicates a presence, an influence. True teaching, Newman believed, is an act of friendship, a sharing of life. The influence of a good teacher reaches beyond the classroom, shaping character and conscience.

For this reason Newman’s message remains remarkably fresh. In an age when technology tends to replace human interaction and education risks being reduced to measurable competencies, he reminds us that at the heart of teaching there is always a face, a voice, a testimony. The proclamation of Newman as a Doctor of the Church during the Jubilee of Educators is therefore far more than a symbolic gesture. It is a prophetic sign, inviting the Church to rediscover the spiritual dimension of education and to recognise that every genuine act of teaching is, in truth, an act of love.

For educators in Ireland and beyond, Newman’s legacy poses searching questions. How can schools and universities remain faithful to the whole person when social and economic pressures demand immediate results? How can teachers keep alive the dialogue between faith and reason in societies that often separate the two? How can Catholic education sustain its identity while serving an increasingly plural and secular public?

Newman does not offer ready-made solutions, but he does offer principles. He urges educators to place the person before the system, to value the slow work of formation over the rapid production of credentials. He calls us to recover the sense of education as a vocation rather than a job — a ministry of truth that involves heart as well as intellect. He challenges Catholic institutions to cultivate a distinctive ethos, one that integrates belief with intellectual rigour and that measures success not only by academic achievement but by the growth of faith and virtue.

Newman stands before us as both a classic and a contemporary. His thought bridges centuries because it speaks to what is perennial in the human condition: the thirst for truth, the need for meaning, the desire to be formed rather than merely informed. He reminds us that education is never neutral; it always shapes a vision of the human person and of the world.

For teachers, parents and all who care about the formation of the young, Newman’s example is an encouragement to persevere. He invites us to believe once more in the power of relationship, in the quiet influence of integrity, and in the patience required to nurture the seeds of faith and reason in the hearts of our students.

Education, for Newman, was a form of intellectual charity, an act of love that unites teacher and pupil in a shared search for truth. In recognising him as a Doctor of the Church, the Pope acknowledges not only a master of theology but a doctor of life: one whose wisdom continues to enlighten classrooms, universities and homes wherever the Gospel inspires the work of teaching.

In an era of instant information and fragile certainties, Newman’s voice invites us to recover the slow, humane and sacred art of educating the whole person. Only an education born from living relationships can truly become culture and, in the deepest sense, a leaven of humanity.

 

venerdì, ottobre 31, 2025

On the eve of St John Henry Newman being proclaimed Doctor of the Church (tomorrow), I’m delighted to have a chapter (“Newman’s engagement with Locke’s epistemology”) in a new volume, titled "John Henry Newman the educator. His formation, philosophy and lecacy". Details: https://www.gracewing.co.uk/page175.html




giovedì, ottobre 30, 2025

In cammino verso l’unità interiore

Non deve sorprendere se Papa Leone XVI ha scelto il giubileo del mondo educativo per proclamare san John Henry Newman Dottore della Chiesa. Newman ha incarnato con coerenza la vocazione educativa come servizio alla verità e alla formazione integrale della persona. Egli fu teologo e pensatore profondo, celebre predicatore, apologeta del cattolicesimo nell’Inghilterra vittoriana, ma anche poeta, romanziere, filosofo. Nei suoi diari scriveva: «Dall’inizio alla fine, l’istruzione, nel senso della parola, è stata il mio ambito». Tutta la sua vita, infatti, può essere letta come un lungo impegno nell’arte di educare.

Metà della sua esistenza si svolse ad Oxford, il cuore pulsante della cultura inglese, dove fu prima studente, e poi tutor e guida spirituale per molti giovani. Dopo la conversione al cattolicesimo, continuò a dedicarsi con passione alla formazione, fondando due istituzioni destinate a lasciare il segno: l’Università Cattolica d’Irlanda, inaugurata a Dublino negli anni Cinquanta dell’Ottocento, e la Scuola dell’Oratorio a Birmingham. Entrambi i progetti nascevano da una medesima convinzione: l’educazione non è soltanto trasmissione di conoscenze ma crescita armonica dell’intelligenza, del carattere e della fede.

Tra le figure che contribuirono a dare prestigio all’Università Cattolica di Dublino, spicca il nome del poeta gesuita Gerard Manley Hopkins, che vi insegnò greco e latino negli anni Ottanta dell’Ottocento. La sua sensibilità religiosa e la sua visione artistica, profondamente segnata dall’estetica dell’incarnazione e dall’amore per la bellezza del creato, riflettono pienamente lo spirito educativo di Newman, dove fede e cultura si illuminano a vicenda. Tra gli studenti che passarono per le aule della stessa università va ricordato James Joyce, che nei suoi scritti avrebbe lasciato tracce sottili ma riconoscibili dell’ambiente intellettuale e religioso plasmato dal prelato inglese e dai suoi discepoli.

Dopo la sua esperienza a Dublino, Newman dedicò le ultime energie alla fondazione della Scuola dell’Oratorio di Birmingham, destinata a incarnare concretamente i suoi ideali educativi. Nata come scuola cattolica di alto profilo, la Oratory School univa formazione intellettuale e crescita morale in un ambiente familiare e spiritualmente vivo. Tra i suoi allievi più noti figurò Hilaire Belloc, scrittore e apologeta cattolico, che avrebbe diffuso nel mondo la visione culturale e religiosa ispirata da Newman. Anche J.R.R. Tolkien fu legato all’Oratorio di Birmingham: pur non avendovi studiato, fu educato da padre Francis Xavier Morgan, oratoriano e discepolo della prima generazione newmaniana.

Nel suo capolavoro L’Idea di Università, concepito per dare un fondamento teorico all’Università Cattolica d’Irlanda e oggi considerato un classico dell’educazione, Newman descrive la vera università come il luogo dove l’intelletto si apre alla totalità del sapere e dove la persona viene accompagnata verso la maturità umana e spirituale. Il cuore dell’educazione risiede nel rapporto vivo tra insegnante e studente, nella influenza personale che si esercita più con l’esempio che con le parole. L’università non può limitarsi alle lezioni o alla ricerca scientifica: ha bisogno anche di comunità, di relazioni, di quella vita comune che egli aveva sperimentato nei collegi di Oxford e che cercò di ricreare a Dublino. L’insegnante, secondo Newman, deve essere non solo un professore, ma anche un consigliere, una guida. L’educatore autentico non impone, ma accompagna.

Questa intuizione, profondamente evangelica, nasceva in Newman da una fiducia nella grazia che opera nella libertà di ogni persona. La fede e la ragione, per lui, non si oppongono: entrambe sono vie alla verità. Così l’educazione diventa un cammino verso l’unità interiore, dove la mente e il cuore si incontrano nella luce di Dio. In un’epoca segnata dal predominio dell’utilitarismo e dal culto dell’efficienza, Newman difese con forza l’idea di una formazione “liberale”, cioè libera: un’educazione che non mira soltanto al successo, ma alla sapienza. «Mentre l’utile non è sempre bene, il bene è sempre utile», scriveva, capovolgendo la logica del profitto che già allora dominava l’istruzione.

Per questo la sua riflessione conserva un’attualità sorprendente. In un mondo che misura l’educazione in termini di competenze e risultati, Newman ci ricorda che educare significa innanzitutto far crescere l’uomo interiore, suscitare il gusto per la verità, la capacità di giudizio, la forza morale. Nella sua università e nella sua scuola egli sognava comunità dove il sapere fosse vissuto come servizio, dove la conoscenza conducesse alla carità. «Il collegio – scriveva – è il tempio dei nostri affetti migliori, un sostegno per la mente e per l’anima stanche del mondo».

L’educazione, dunque, per Newman è una forma di carità intellettuale: un atto d’amore che unisce maestro e discepolo nella ricerca condivisa della verità. È una visione profondamente cristiana, in cui la luce della fede illumina ogni aspetto della vita culturale e sociale. Da questa prospettiva, comprendiamo perché Papa Leone abbia voluto legare la proclamazione di Newman come Dottore della Chiesa al giubileo degli educatori: il suo insegnamento non riguarda solo l’università ma ogni ambiente in cui si formano le coscienze.

Oggi, più che mai, il suo messaggio interpella genitori, insegnanti, sacerdoti e quanti hanno a cuore la crescita delle nuove generazioni. Newman ci invita a credere nella forza della relazione educativa, nel valore della testimonianza personale, nella pazienza di chi sa attendere i frutti dello Spirito. Egli ci insegna che l’educazione non è un mestiere, ma una vocazione; non un compito amministrativo ma un atto di fede nella possibilità di ogni persona di diventare ciò che Dio sogna per lei.

Così la sua figura, al tempo stesso classica e contemporanea, ci appare come quella di un vero “dottore della vita cristiana”: un maestro che continua a parlare a chiunque desideri educare e lasciarsi educare alla libertà dei figli di Dio.

La proclamazione di John Henry Newman come Dottore della Chiesa, proprio nel contesto del Giubileo degli educatori, appare come un gesto di grande coerenza e, al tempo stesso, di profonda attualità. Papa Leone ha voluto così riconoscere non soltanto la statura teologica e spirituale del cardinale inglese ma anche la portata culturale della sua riflessione sull’educazione. Newman, infatti, non fu solo un pensatore della fede ma anche un interprete acuto della condizione contemporanea, capace di leggere le trasformazioni del sapere e dell’università in un’epoca di crisi di senso.

Attribuirgli oggi il titolo di Dottore della Chiesa significa riconoscere il valore profetico del suo pensiero: un pensiero che, pur nato nel cuore del XIX secolo, parla con lucidità al nostro tempo, segnato da frammentazione e tecnicismo. Newman aveva compreso che l’educazione, se vuole essere autentica, deve tenere insieme conoscenza e sapienza, ragione e coscienza, mente e cuore. Il suo ideale non era la produzione di specialisti, ma la formazione di persone intere, capaci di giudizio, di interiorità, di responsabilità.

In questa prospettiva, l’educatore non è un semplice trasmettitore di contenuti, ma un testimone. La sua autorità nasce dalla coerenza della vita, dalla forza dell’esempio, dalla capacità di far crescere la libertà dell’altro. Newman aveva intuito che l’influenza personale è la via privilegiata attraverso cui si comunica la verità. Nessun metodo, nessuna tecnologia, nessuna riforma istituzionale può sostituire l’incontro tra due persone che cercano insieme la luce della verità.

Il riconoscimento pontificio invita dunque a riscoprire Newman come maestro di pensiero e di vita, capace di unire profondità teologica e sensibilità educativa, spiritualità e cultura. La sua eredità intellettuale ci richiama alla responsabilità di coltivare un sapere che non separi la mente dalla coscienza, ma che le tenga in dialogo costante, nell’orizzonte di una verità che si fa persona.

Nell’epoca della conoscenza immediata e della comunicazione frammentata, la lezione di Newman rimane di sorprendente attualità: solo l’educazione che nasce dal rapporto vivo tra maestri e discepoli può trasformarsi in cultura viva e diventare fermento di umanità.


L'Osservatore Romano, 30 ottobre 2025

domenica, ottobre 26, 2025

Una madre

M’avevano detto che era vedova di guerra e in guerra aveva perduto l’unico figlio; che da principio aveva gridato, maledetta la vita, ma si era poi rassegnata e trascorreva le sue giornate tra il lavoro e l’Altare.

Nel vicolo dove abita, il sole arriva a stento e se ne va presto, sì che i suoi poveri occhi stanchi di guardare il male, sciupati dal pianto, si dilatano sul cucito.

Una scala stretta, ripida, umida: un senso di gelo, di sordido. Se non fosse la statuetta della Madonna issata sulle rampe, dove una mano pia — la sua? — dispone in un vasetto di coccio le rose di maggio, mi sentirei stringere il cuore. S’ha un bel dire che la miseria è santa...

Al rumore dei passi la Signora Bianca solleva il capo d’argento e mi guarda di sopra agli occhiali. Le spiego il motivo della visita.

— Ah, lei è giornalista?

Mi pare che nella domanda affiori un senso di diffidenza. Ci sono abituato: incerti del mestiere ciò che troppi faciloni e superficiali riducono a pettegolezzo di comari.

— Capisco: anche mio figlio ambiva a scrivere sui giornali; anzi, aveva mandato dall’Africa qualche corrispondenza ai quotidiani. Per me non è giornalista chi offende la verità, ecco, come purtroppo avviene oggi...

— D’accordo, signora: vuole dunque dirmi cosa ne pensa?...

— È semplice. Troppa gente vuole occuparsi e preoccuparsi dell’uomo, e in particolare del giovane: chi lo vuole educare di qua, chi lo vuole preparare di là: la scuola, la palestra, l’Esercito, il capo ufficio o officina, il Partito (bella roba!). Ce lo contendono, lo strappano alla famiglia — si può dire — che s’è staccato appena dal seno materno, coi bei risultati che vediamo tutti. E ognuno con uno scopo: servirsene. Farebbero molto meglio, invece, a lasciarlo di più alle madri, specialmente quando sono in grado di farlo.

— Ma lei comprende, signora, che non tutte...

— L’ho detto: e del resto, meglio una madre ignorante che un professore maligno; voglio dire, non in grazia di Dio. Perché han voglia a rigirarla: c’è solo un uomo capace di ammaestrare: il sacerdote di Cristo.

— D’altra parte, nella famiglia il giovane non può trovar tutto.

— Quel ch’è fuori delle pareti domestiche e cristiane è marcio, creda a me. Sa cosa Le dico? Sarà fissazione la mia, ma sono convinta che quanto più l’uomo s’allontana dalla madre, tanto più rapidamente cammina verso il male, la corruzione, l’odio, la guerra. Le dica, le dica queste verità sul Suo giornale: e Lei, che è anche uomo di governo, le commenti anche, da par Suo. Io non so farlo, ma Le assicuro che l’istinto d’una madre è infallibile. È inutile che «grandi» e piccoli si radunino per cercare di ridare un volto all’umanità. Abbiamo accumulato nei cuori secoli di menzogne di egoismi di colpe. Cosa vuol che esca da un consiglio di volpi? Una strage di galline, vero? Lei mi capisce. …

Commenti? Ci mancherebbe altro! Mi allontano con due pupille sbarrate dentro, mentre la Signora Bianca mi segue con un triste sorriso, guardandomi di sopra agli occhiali.

Un trattato di filosofia non mi farebbe meditare così.

Benigno

30 maggio 1948

domenica, ottobre 19, 2025

L'appuntamento della carità

Torre di Pordenone, aprile 1948

Egregio e caro dottor P.,        
oso rivolgermi a Lei per una grande carità. Ho una parrocchia operaia disgraziata dove mi ritrovo dal maggio 1947. L’80 per cento degli uomini e dei giovani non assiste alla S. Messa festiva e il 50 per cento delle donne! È una desolazione. Mi sento accasciato. Non vorrei che venisse giorno festivo. La massima parte degli operai è comunista. Dal 1903 al 1925 sono stato parroco qui e ci sono ritornato perché invitato da tutti.

Nel primo periodo ho istituito per gli operai una Unione Coop. di consumo, una Cassa Operaia, un Molino, un Forno: cooperative tuttora fiorenti; poi l’Asilo e scuola di lavoro per ragazze, un Sindacato Cotonieri, una biblioteca circolante; ho costruito un centinaio di case operaie di quattro e sei vani l’una con adiacenza di 600 o 1000 metri: sono così cento e più famiglie divenute piccole proprietarie; mi sono occupato e mi occupo di collocamento in patria e all’estero. Ho dato tutto, anche il mio modesto patrimonio lasciatomi dai genitori, casa, campi e prati. Eppure si vuole essere comunisti. Sono desolato; ho 67 anni, ma sento venir meno le forze, non già per il lavoro, ma per le amarezze. Se avessi saputo di trovare la vecchia parrocchia in questa situazione, non sarei ritornato.

Concludendo: vorrei offrire il Santo Vangelo a tutte le famiglie operaie. Sono circa un migliaio. Ho visto edizioni diverse: Società S. Paolo, Salani, Servi della Sapienza ecc. La migliore è quella Vaticana perché porta anche gli Atti degli Apostoli e preghiere. Sono certo che il libro verrebbe gradito e letto. Farei la festa del Vangelo con triduo... Ma come far fronte a tanta spesa?

Si degni Lei d’intercedere grazie presso le Opere di Religione o presso la S. Girolamo o qualche benefattore. Io posso concorrere con la congrua che incasserò in questi giorni: circa 15.000 lire. Per vivere si fa come si può: ci sono tanti modi per campare.

Mi faccia questa carità. Lei è tanto stimato e ha tante conoscenze.           

Obbl.mo

sac. GIUSEPPE LOSER

 

Chissà cosa dirà, reverendo, a veder messe in piazza tante spirituali apprensioni. Ma il dott. P. ci ha passato la Sua emersa fra una montagna di lettere che minacciano di soffocarlo e noi abbiamo pensato di rivolgerci al buon cuore di chi legge affinché possa prendere contatti diretti con Lei (Enti, Istituti, Opere — particolarmente Mons. Baldelli, Presidente della Pontificia Commissione Assistenza e dell’O.N.A.R.M.O. — nonché Case editrici e privati) e cerchi di aiutarla a ritrovare il suo gregge. Perché dalla sua lettera trapela una sola preoccupazione, un’ansia sola: riportare il gregge all’ovile. Della diserzione tanto soffrì il Buon Pastore che per una pecorella smarrita piantò in asso tutte le altre; figuriamoci Lei, Padre carissimo! Ma non è il solo, creda, a donare tutto per ricevere solo amarezze. Nei duemila anni della sua vita la Chiesa non ha fatto che profondere tesori spirituali e materiali. Se ne potrebbe ricavare un trattato che sarebbe il più voluminoso fino ad oggi apparso: il Trattato dell’ingratitudine. Basterebbe darne un... assaggio: il pontificato del Vicario regnante. Se gli uomini sapessero! Se n’è avuta una pallida idea durante la recente... ferina campagna elettorale.

A proposito, che ne pensano dei risultati quelli del suo gregge che disertarono le vie del Signore? Sarà bene che meditino le parole del Cristo: «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno giammai contro di essa». Padronissimi dunque di schierarsi con Satana; ma si ricordino: Satana è un capitano che conosce solo sconfitte o vittorie... di Pirro. Mi faccia conoscere, reverendo, l’esito di questo appuntamento.

dev. BENIGNO

23 maggio 1948

 


domenica, ottobre 12, 2025

Appuntamento della carità

Caro A. B., reduce da Mauthausen

« Non è volontà del Signore che tu nasconda agli occhi degli uomini il bene che fai, temendo di essere veduto. Se temi di avere spettatori, non avrai imitatori. Devi dunque lasciare che vedano; ma non devi operare allo scopo di essere veduto. Non in questo deve consistere il colmo della tua contentezza, non in questo la tua supremazia gioia. Sentendoti lodare, disprezza te stesso e lascia che la lode risalga a colui che ti dà la grazia per farlo. Da te viene il far male, da Dio il far bene ».

Se io dunque mi permisi di lodare il tuo gesto quando mandasti al giornale il tuo obolo in occasione del S. Natale, perché fosse devoluto a favore di un tedesco bisognoso, con l’intenzione di perdonare, non solo, ma aiutare chi, forse, ti fece del male (sono un reduce anch’io e ti comprendo), non pigliartela con me, ma con Sant’Agostino. Il mirabile passo sopra citato si trova a pagina 386-387 di « Vita Cristiana » — Società Editrice Internazionale.

Tu dici che ho fatto male perché non si deve mai lodare (il gesto o la persona? e quest’ultimo caso, chi ti riconosce attraverso la sigla?) e che in fine dei conti tante altre persone, sia nel chiostro sia nella vita civile, cristianamente fanno di più senza che nessuno lo sappia. A chi lo racconti, amico mio? E chi andrebbe mai a sollevare i veli della carità alle soglie dei monasteri o di certe case cristiane? C’è odore di santità. Io so, anche se siamo in pochi a crederlo. Ma non senti che a quelle soglie le belve scatenate fanno ressa, azzannando sbarre e gelosie?

Non sai che per un disgraziato, che la stessa Chiesa ha affidato alla giustizia, hanno tentato di trascinare nel fango la stessa Sede di Pietro, lo stesso Vicario di Cristo, quasi non bastasse aver ereditato l’odio dei farisei che seminano a piene mani nei cuori dei pavidi, degli ingenui, degli indifferenti e — diciamolo pure — di quanti non hanno una fede incrollabile, una coscienza solida?

Eh, no, amico mio, non bisogna nascondere gesti come i tuoi, specie se sublimati dall’anonimato, « poiché quale augurio si può fare agli uomini migliore di questo, che trovino simpatiche le virtù che debbono imitare? Piuttosto rettifica le lodi umane, riferendo tutto a gloria di Dio, dal quale ti viene ogni cosa che in te si loda senz’ab­baglio del lodatore ».

È sempre un atleta di Cristo che parla e che mi prega di concludere per tua tranquillità:

« Per il virtuoso è gran virtù disprezzare la gloria; perché quel disprezzo si concepisce alla presenza di Dio, senza lasciarlo trapelare allo sguardo degli uomini. Checché egli faccia dinanzi agli occhi degli uomini per mostrare il suo disprezzo della gloria, qualora si pensi che lo faccia per riscuotere maggior lode, cioè maggior gloria, non gli resta più alcun mezzo per far vedere ai sospettanti che egli è ben diverso da quello che si sospetta di lui. Ma chi non cura giudizi di lodatori, non cura nemmeno sospetti temerari ».

Ora sai che pensare nel caso che qualche sospettante ci fosse.

Mentre per le strade infuria la bufera, è bello fare di quest’angolo un’oasi di bontà da cui aliti ogni tanto un profumo di gigli.

BENIGNO

N. B. — L’obolo precedente e questi 25 marchi sono stati rimessi a Don Carlo Boyer: P. C. A., Piazza Benedetto Cairoli, 117, Roma.

D. Lo. C. (Palazzo Adriano) — Lei sfonda le porte aperte, amico mio. Non è vero che per la Chiesa esistono soltanto diritti dei genitori e doveri dei figli; è vero invece che i doveri dei genitori precedono quelli dei figli. E se lei ha sentito sacerdoti interpretare il IV comandamento in senso... reazionario, io posso affermare — e far nomi — che le mie orecchie rintronano ancora degli ammonimenti gridati dai pulpiti a genitori incoscienti. Riguardo al matrimonio, non è un preciso dovere (e diritto!) dei genitori aprire gli occhi a tanti ingenui che confondono l’Amore con la passione che accieca, e si preparano troppo spesso una vita d’inferno? Questo ha voluto, mi pare, considerare il nostro Coluccio, senza escludere che nel caso Ciaravella i responsabili dell’efferatezza siano da ricercarsi vicino e lontano.

Quanto a quelle tali famiglie cui ella accenna, sono cristiane soltanto di nome; se l’amore è santo davvero, per la Chiesa non esistono differenze sociali e non si è mai sognata di ammonire il figlio del professionista che sposa la figlia dell’operaio. Quando la donna è onesta, l’operaia vale la principessa, anzi, vale di più, assai di più se la condotta di costei... lascia a desiderare.

M. F., Ospedale al Mare (Venezia) — I cinque abbonamenti offerti da Gennaro Silveri ad altrettanti tubercolotici, in memoria del figliuolo, erano — ahimè! — esauriti prima dell’arrivo. Un’anima buona, un padre, offre tuttavia a lei un abbonamento in memoria della figliuola. Spero che l’esempio valga a scuotere tutti quei dormienti che possono praticare la carità di una sana lettura a chi si macera nell’inerzia forzata, guadagnando suffragi alle anime dei loro cari.

E ricordi Agostino: « Signore, mettimi nella fornace della tribolazione in modo che il vaso ne venga cotto e non rotto ».

BENIGNO

9 maggio 1948

domenica, ottobre 05, 2025

Appuntamento della carità

Al Sig. Direttore de « L’Osservatore Romano della Domenica » ricordo che l’arrivo del settimanale era per mio figlio una festa. Se lo divorava letteralmente. La « Poesia d’angolo » – il « Crivello » – « Legittima difesa », i commenti del Vangelo, le « ultime » vaticane, il bel paginone denso di commoventi racconti, di succose interviste, di interessanti foto, formavano il suo più gustoso passatempo, la sua gioia più pura: sì, pura, perché mai una nota stonata vi colse con la sua squisita sensibilità acuita dal male.

Una volta che un disguido (o un furtarello?) lo privarono della preziosa lettura, mi guardò con i dolci occhi pieni di una muta preghiera. Capii. Fuori infuriava il maltempo. M’intabarrai e feci per uscire. «Perdonami, babbo — disse — ma Puf... sai... m’aveva promesso... In questo numero dev’esserci di sicuro la sua risposta per le rime... ».

Gli aveva mandato pochi versi a Puf e non disperava di vederli pubblicati perché... sa... era un poeta — c’è da vergognarsi forse? — un poeta che se non aveva ancora trovato la forma d’arte per tradurre quel che gli premeva dentro lo era certo nell’anima innamorata, nella bontà indulgente, nel desiderio di fanciullo: un poeta. Le assicuro, Sig. Direttore, che avrebbe un giorno trovato la sua espressione e per il quale — chissà! — Ella stessa avrebbe forse fatto eccezione alla dura regola di non pubblicare versi.

Tornai quel giorno dal più vicino centro col giornale che egli accolse come un grande amico. La risposta di Puf c’era, ma si schermiva e... differiva la sospirata pubblicazione. Rimase un po’ male, lì per lì, ma poi si riprese subito e... « Sarà per un’altra volta — disse — certo Puf non sa che io ho fretta e non conviene dirglielo... La Poesia non vive di carità, ma la pratica ».

Capiva — il mio povero ragazzo — che di vita non ne aveva di spendere e la sete di bellezza che lo consumava la saziò tutta in Cristo, ch’è la più alta Poesia elargita agli uomini dalla divina misericordia.

Può quindi comprendere, Sig. Direttore, con quale trepido cuore io offra a nome del mio povero figliuolo morto cinque abbonamenti che vorrà destinare ad altrettanti tubercolosi...

GENNARO SILVERI

Che ve ne pare? Non sarà il caso di raccogliere un giorno tutti questi « appuntamenti » in un volumetto?

Vogliamo intanto credere che la lettera del Silveri ispiri i buoni. La carità è una pianta, sempre più rara, ma siamo fermamente convinti che fiorirà sempre sulla terra finché vi palpiti un cuore d’uomo, quell’uomo di cui il Verbo assunse la natura.

BENIGNO

4 aprile 1948

domenica, settembre 28, 2025

Cristo vive nei peccatori

Parla Marta di Magdala:

Di Gesù Nazareno avevo sentito raccontare meraviglie. S’era appena al secondo anno della sua vita pubblica e il suo nome correva su tutte le bocche, dall’un capo all’altro della terra di Galilea, dall’un capo all’altro della terra di Samaria e della Giudea che gli aveva dato i natali.

Si diceva ch’era nato in una stalla — lui, il Re dei re! — che a Gerusalemme Simeone, ripieno dello Spirito Santo, aveva rivelato che non sarebbe morto prima di vederlo, come poi avvenne; che a dodici anni i genitori, proprio in occasione della solennità della Pasqua, lo ritrovarono fra i dottori che li ascoltava e li interrogava.

Passarono molti anni, e tutto ciò che avevo saputo di lui s’era quasi sbiadito nella memoria, come una bella fiaba.

Intanto, mentr’Egli cresceva in sapienza e si fortificava, io mi perdevo per le strade della sua terra. Del mio povero corpo gli uomini fecero oggetto di lusso. Non dico questo a mia discolpa, ma la miseria era tanta in casa che non mi bastò il cuore; non seppi resistere alle dure privazioni che maceravano i volti e facevano battere i denti. Avrei dovuto servire, offrirmi serva di un desco onesto, piuttosto che signora di un attimo di amor profano: serva di pochi, non mai di tutti. Non lo feci, ma pensavo spesso a Lui. E non avevo pace.

Ed ecco che il suo nome ritorna, la sua fama dilaga. Si raccontava che a Cana — durante un banchetto nuziale cui aveva partecipato con la Madre e i discepoli, venuto a mancare il vino — fece empire d’acqua sei pile e le convertì in nettare squisito; che aveva scacciato a sferzate dal Tempio i venditori di buoi e pecore e i cambiavalute; che aveva guarito i moribondi, gl’indemoniati, i lebbrosi, ridata la vista ai ciechi, sedato bufere, risuscitato persino i morti, come avvenne della figlia di Giairo e del giovinetto di Naim. Infine, che s’era dichiarato Figlio di Dio, anzi, uguale al Padre.

Tante volte l’avevo seguito, ma giungevo sempre tardi, non ebbi mai fortuna. E non trovavo pace.

Quando quel giorno mi dissero ch’era arrivato a Magdala e si trovava a desinare in casa di Simone il fariseo, sentii dentro di me una smania che non riuscii a frenare; tremavo tutta e il pianto mi s’era annodato in gola. Di Simone, sebben lo conoscessi di nome soltanto, non avevo gran timore ed ero decisa a forzare la consegna. Temevo invece che Gesù di Nazaret mi respingesse, consapevole certo delle mie colpe, anche delle più occulte...

Sciolsi alfine i miei lunghi capelli, presi con me l’alabastro che conteneva i più rari profumi e m’avviai. Con qualche moneta mi feci largo fra i servi di Simone e giunta nella sala mi gettai ai piedi di Colui che avrei riconosciuto fra mille. Un mormorio si levò dalla mensa cui subentrò un profondo silenzio rotto dai miei singhiozzi: qualcosa di più dei singhiozzi mi si era sciolto in gola. Era l’anima che adesso inondava di lacrime i piedi di Gesù: io li baciavo e odoravano di colomba.

I miei capelli immensi, neri come la notte, che prima sentivo come serpi intorno alla gola, quei capelli che odiavo per quanto furono amati erano diventati morbidi come sciarpe di seta, ed io ci asciugavo i piedi del mio Signore, spargendoli di tutto il profumo contenuto nel vaso d’alabastro. Un olezzo da stordire riempì la sala.

Intanto Gesù conversava con Simone e qua e là riprendeva il mormorio. M’assalì il terrore d’essere scacciata, ma ebbi gran fede nella misericordia del Padre. Non era Padre anche Lui, il Figlio?

Il mio cuore batteva con violenza, ma i singhiozzi erano così forti che non riuscivo ad afferrare quel che dicevano Simone, i discepoli, il Maestro. Ci fu un attimo che disperai, ma la voce di Gesù fu più alta e forte di tutte: «...io ti dico, o Simone, che le son rimessi i suoi molti peccati perché molto ha amato. Colui che meno ama, meno gli è perdonato».

Sentii una mano dolce come ala di colomba sollevarmi, e la stessa voce, fatta suadente dall’amore, sussurrarmi: «Donna, la tua fede ti ha salvata, va’ in pace».

Da quel momento mi sento più felice del lebbroso risanato.

BENIGNO

28 marzo 1948