Nel dialogo, assai stimolante, tra il cardinal Ratzinger ed lo storico Della Loggia quest'ultimo tocca, ad un certo punto, un argomento interessante, e cioè se vi sia "un'identificazione tra il concetto di vita e il concetto di persona": "l'embrione e la persona - afferma -sono due cose diverse, due cose diverse devono avere diritti, statuti diversi". Il problema, in effetti, è assai arduo, e la palla va rilanciata, perché altri, più acuti, più preparati e più autorevoli di me, continuino la discussione interrotta, a dire il vero, da secoli.
Già in epoca romana, però, una qualche percezione dell'importanza del concepito è presente nella disposizione secondo cui "conceptus pro iam nato habetur, quoties de eius commodis agitur" (il concepito è considerato come nato ogniqualvolta si tratta dei suoi interessi). Anche nel mondo cattolico la storia dello statuto dell'embrione è assai complicata e difficile, per il semplice fatto che per secoli conoscenze scientifiche vaghe si sposano a diverse teorie sui tempi dell'infusione dell'anima, e ne derivano anche, ad esempio, diverse concezioni sulla liceità o meno di eventuali aborti, specie terapeutici.
Secondo Giulia Galeotti, nel suo "Storia dell'aborto" (Il Mulino), la Chiesa già nel 1679 con bolla pontificia di Innocenzo XI afferma che il concepito è persona fin dal suo inizio. Nel secondo Ottocento la posizione della Chiesa, nel pensiero dei teologi Ballerini e Palmieri, sostiene piuttosto irrevocabilmente l'animazione immediata, con tutto ciò questo può evidentemente comportare. Che l'embrione sia già vita umana, e addirittura persona, non è cosa immediatamente comprensibile, tanto più che sino a pochi decenni fa non mancava chi presentasse non l'embrione, ma il feto, come un "semplice grumo di cellule".
Oggi, non da molto, la scienza, anche grazie alle nuove ecografie tridimensionali, ci dice che il feto, in utero, ascolta, gusta i sapori, sente i movimenti, gli odori, percepisce dolore e piacere, fors' anche sogna e ride, espressione quest'ultima, diceva Aristotele, propria solo del genere umano. Carlo Bellieni, celebre pediatra, racconta nel suo "Se questo non è un uomo" (edizioni Ancora) che è possibile fare un encefalogramma al piccolissimo prematuro di 30 settimane per verificare la sua attività cerebrale e gli stati di sonno che attraversa: si nota allora che il feto inizia a presentare una chiara differenziazione tra Sonno Quieto (sonno Nrem) e Sonno Attivo (sonno Rem).
Ma tutto questo, mi si potrebbe obiettare, sebbene dica qualcosa all'intuito, alla percezione immediata, non dimostra affatto che l'embrione sia definibile come persona. Persona, per il latino Boezio, è una "sostanza individuale di una natura razionale". L'embrione rientra in questa definizione? La scienza, oggi, ci può dire con chiarezza che l'embrione è in potenza esattamente quello che sarà in atto, in quanto possiede già totalmente il suo patrimonio cromosomico e genetico, che dal nucleo dello zigote verrà trasmesso al nucleo di ciascuna dei miliardi di cellule del corpo umano nel suo complesso. Tale patrimonio, detto genoma, è un "manuale completo di istruzioni per la fabbricazione e il funzionamento dell'intero organismo", ed è esclusivo, unico, per ciascun individuo (tanto che la prova del Dna ha valore dirimente nei procedimenti giudiziari).
Lo sviluppo embrionale è graduale, senza alcuna soluzione di continuità, senza alcun momento di passaggio intermedio che segni un netto stacco, senza alcun salto: la sua è una potenzialità il cui principio generatore non è esterno, ma interno, capace di realizzarsi da se stesso, al punto che potremmo dire che "egli è certamente un bambino, un adulto, un anziano potenziale, perché tale diventerà, ma è già un uomo in atto, perché ha già l'appartenenza biologica alla specie umana" (Mario Palmaro, "Ma questo è un uomo", San Paolo). La scienza, indirettamente, afferma dunque che ci troviamo di fronte ad un essere unico, irripetibile, con una sua chiara e specifica identità genetica, peculiare a lui solo: potremmo dire, con Boezio, ad una "sostanza individuale", che inoltre appartiene, innegabilmente, alla natura umana, che è natura razionale.
Scriveva già nel lontano 1947 il famoso biologo Jean Rostand, in "L'avventura umana dal germe al neonato", che "dal momento della fecondazione la parte più importante della costituzione fisica è determinata. Per il solo fatto che l'uovo ha ricevuto quei dati cromosomi, nulla potrebbe impedire, se esso si sviluppa, che produca un individuo di un dato sesso, con una data qualità di capelli, una data forma di cranio, un dato colore di occhi…: un pittore onnisciente potrebbe derivare l'immagine di qualsiasi individuo dal semplice esame dei cromosomi dell'uovo fecondato dal quale nascerà".
La scoperta del Dna ha evidentemente rafforzato queste convinzioni (pur con i necessari distinguo che non ci facciano cadere in un determinismo biologico). Eppure accade che proprio medici favorevoli alla fecondazione in vitro, pur negando lo statuto di persona all'embrione, dichiarino però poi di saper leggere con la diagnosi pre-impianto la vita futura, le malattie precoci e quelle tardive, il sesso dell'embrione analizzato: "come è possibile che un 'non individuo' (peraltro indiscutibilmente umano)- tale è il concepito fin al quattordicesimo giorno secondo il rapporto Warnock - abbia già un sesso?", si chiede il Palmaro nell'opera citata.
La difficoltà in cui si dibattono gli scienziati odierni che desiderano utilizzare gli embrioni come fossero vita qualsiasi, quella di una pianta o di un verme, è tale che il dottor Flamigni, massimo esperto italiano di Fiv, di fronte alla domanda che ha introdotto il nostro articolo, non risponde da scienziato e da medico quale egli è, ma glissa elegantemente, affermando che "la riflessione filosofica laica tende a rimuovere la discussione sullo statuto ontologico dell'embrione dal terreno della biologia e ad affrontarlo su quello della filosofia" ("La procreazione assistita", Il Mulino).
E' lecito che un autore di fecondazione in vitro, con il massacro di embrioni che essa comporta, non affronti il problema di cosa sia l'embrione dal punto di vista biologico, ma si muova nel campo, più ampio e arioso, della filosofia, solo per poter arrivare, in qualche modo, a non rispondere? Infatti a ben vedere si può girare il nostro quesito, assai difficile, sull'essenza dell'embrione, in questo modo: la tecnica della fecondazione in vitro, che sacrifica gli embrioni a centinaia, lo fa forse dopo aver scientemente negato loro lo statuto di vite umane o quello di persone? Assolutamente no: Flamigni arriva a dire che "il problema è filosofico e non biologico". Ma, filosoficamente, in quale momento porre l'inizio della persona, se biologicamente è appurato non esistere nessuna discontinuità all'interno dello sviluppo dell'embrione? Esiste in questo progredire biologico un punto di passaggio tra la non persona e la persona, un momento, un segno, una causa di questo passaggio? Che il ragionamento alla Flamigni non stia in piedi lo dimostra il fatto che le varie teorie secondo cui l'embrione non sarebbe persona finiscono per essere estremamente fragili, aleatorie, e, per questo, assai numerose e contrastanti tra loro.
Mario Palmaro, nell'opera citata, raccoglie una lunga serie di teorie sul momento in cui la vita umana diverrebbe personale, o comunque tutelabile: secondo alcuni dal quattordicesimo giorno, secondo altri dalla nascita, secondo altri ancora dalla cosiddetta nascita cerebrale (XX settimana); per altri, con conseguenze a ben vedere terribili, dalle prime manifestazioni di autocoscienza e di capacità di ragionamento (non sarebbero persone, quindi, neppure i bambini o i vecchi in stato confusionale)… Tante teorie proprio perché non esiste un solo fondamento biologico e logico alla affermazione secondo cui l'embrione non è persona sin dall'inizio: si sposta allora la linea di demarcazione a seconda delle esigenze del momento, come ad esempio il fare ricerca, o in base a posizioni puramente ideologiche. Maurizio Mori, celeberrimo bioeticista, amico e collaboratore del dottor Flamigni, ha il merito di sviluppare coerentemente la concezione secondo cui la vita umana è cosa distinta dell'essere persona. Afferma infatti che coloro che sono allo stato vegetativo non sarebbero più persone, ma solo esseri umani, per cui potrebbero "lasciare i propri resti corporei per la sperimentazione scientifica, per sperimentare nuovi farmaci…secondo me sono già morti indipendentemente dal fatto che respirino" (intervista consultabile in internet). Altrove aveva sostenuto che "un organismo è persona solo dopo aver esercitato una volta l'attività simbolica" (M.Palmaro, op.cit), e cioè l'autocoscienza e l'intelligenza: un dormiente sarebbe dunque persona, ma per la sua attività pregressa, non così l'embrione, e, a ben guardare, neppure il neonato.
Sulla stessa linea di Mori vi sono filosofi come Singer ("Animal liberation") o H.T. Engelhardt, secondo il quale gli embrioni, i feti, i neonati e gli uomini in stato vegetativo non sono persone ed hanno uno status inferiore a quello dei mammiferi adulti non umani (Manuale di bioetica, Il Saggiatore).
Dovrebbero farci terrore questi dogmatici della propria personalissima ed infondatissima opinione, che si fanno giudici della vita e della morte altrui. Di fronte ad essi mi sembra un principio di logica, di precauzione e di umanità, riconoscere che quella natura umana in evoluzione che è l'embrione, così individuale e speciale, così potenzialmente e attualmente presente, sia effettivamente persona; riconoscere che tra uomo e persona non vi è distinzione. Mi sembra infine di poter aggiungere che per una concezione materialista l'ottica sia paradossalmente la stessa: se per me, cattolico, l'infinita dignità di un embrione risiede essenzialmente nella sua anima immortale, immessa da Dio all'atto del concepimento, a maggior ragione per chi non crede nell'esistenza di un'anima immortale (e per i deterministi biologici) rimane certo che la natura dell'embrione zigote, indubbiamente umana, già geneticamente completa, è la stessa identica materia in evoluzione che si svilupperà dal bambino all' anziano. Allora, chi può stabilire diritti e statuti diversi? In base a che cosa? A partire da quale istante? Secondo quali concetti, filosofici o biologici? Per quali fini?
Francesco Agnoli, Il Foglio 2.11.2004
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