Vicinanza o estraneità il problema di giusta distanza
Un vivace dibattito è in corso in Europa sul fattore religioso. Sino a che punto questo può (o deve) avere una sua "visibilità" e dunque un pubblico riconoscimento; e sino a che punto deve rimanere un fatto privato.
I termini del problema si stanno, in questo inizio di ventunesimo secolo, radicalmente spostando rispetto al vecchio ed ormai logoro dibattito sulla laicità. Allora si trattava di definire i rapporti fra "Stato" e "Chiesa" (o "chiese") e di delimitare gli spazi della reciproca autonomia, attraverso la stipulazione di accordi espressi, come nel caso dei concordati dell’Europa continentali, oppure taciti, come è avvenuto nell’area anglo-sassone; oggi occorre invece ripensare quale sia un possibile "statuto pubblico" della religione, al di là di quello "statuto privato" che tutti gli Stati di diritto hanno ormai riconosciuto, sulla base del principio della libertà religiosa.
Il mutamento di prospettiva non è di poco conto, perché il dibattito – come attestano il caso francese, le polemiche brussellesi, la vicenda spagnola – va registrando un vistoso spostamento del suo baricentro, appunto dal piano dello Stato a quello della società civile. Il problema non è più quello di valutare quale "peso" del religioso lo Stato debba "sopportare", ma quale è il ruolo del fattore religioso nella costruzione, e nel mantenimento, di una società che intenda essere automaticamente democratica.
Usi strumentali della religione si sono registrati in passato, si delineano nel presente, si prospetteranno in futuro, dato che una sorta di "male oscuro" che ricorrentemente inquina la politica è la tendenza a riaddurre tutto a se stessa; ma proprio per questo la coscienza religiosa deve costantemente vigilare per non farsi assorbire dalla politica.
Mantenere le distanze è dunque necessario, se si vuole evitare tanto l’uso politico della religione quanto la riduzione di essa a fatto intimistico e privatistico. Ma, negli attuali scenari europei, è appunto la delimitazione di questa giusta "distanza" - perché non diventi inquietante vicinanza al potere, ma nemmeno estraneità dei cristiani alla vita della città - che fa problema.
Alla più matura coscienza cristiana ripugnano ormai battaglie politiche, ed ancor più guerre, che si proclamano condotte in nome di Dio, con una ripresa di quel "Dio lo vuole" che nel Medio evo, quasi come oggi, era comune a cristiani e musulmani, anche se il nome di Dio era pronunziato e declinato in lingue diverse. Ma a questa stessa coscienza cristiana è del tutto estranea l’idea del confinamento del fatto religioso nel solo segreto delle coscienze o, al più, fra gli ammuffiti armadi delle sacrestie (come avrebbe voluto il vecchio laicismo ottocentesco). L’autentica laicità non è separatezza ma distinzione; e di distinzione si avverte un gran bisogno in questa Europa che sta incamminandosi sulla via di una nuova identità, tutta da costruire, ma che non potrà essere definita senza confrontarsi sino in fondo con quel fattore religioso che tanta parte ha avuto nella sua storia, lo si voglia o non lo si voglia riconoscere nei "sacri testi" costituzionali.
Spetta soprattutto ai credenti – a coloro, cioè, ai quali si deve se solo nella vecchia Europa cristiana, solo in questa piccola e periferica area del mondo, si è definita la distinzione fra "regno di Dio" e "regno di Cesare" – impegnarsi per edificare questa nuova laicità, fondata sul reciproco rispetto e sul comune amore per la città. È questa la più preziosa eredità che il Vecchio Continente può trasmettere ad un vastissimo "resto del mondo", quello non occidentale, ancora alla ricerca di un corretto rapporto fra religione e potere, senza commistioni e senza separatezze.
Giorgio Campanini, Avvenire 16 novembre.
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