Interazione università, mondo del lavoro e ricerca
1. Una fotografia a bassa risoluzione
1.1 La società della conoscenza e l’università
“L’Europa della Conoscenza è ormai diffusamente riconosciuta come insostituibile fattore di crescita sociale ed umana e come elemento indispensabile per consolidare ed arricchire la cittadinanza europea, conferendo ai cittadini le competenze necessarie per affrontare le sfide del nuovo millennio insieme alla consapevolezza dei valori condivisi e dell’appartenenza ad uno spazio sociale e culturale comune.” (Dichiarazione di Bologna, 19 Giugno 1999)”.
Così il testo della Dichiarazione di Bologna, il documento che ha definito più dettagliatamente l’impegno assunto dai Ministri dell’Istruzione dei Paesi dell’Unione, nel ‘98 a Parigi, con la carta di Sorbona, di armonizzare i diversi sistemi nazionali di formazione per creare uno spazio comune europeo del sapere (spinta alla stagione delle riforme che ha interessato l’università italiana). L’Europa della conoscenza: un passaggio importante per l’affermazione dell’identità europea, che non poteva basarsi esclusivamente sull’euro e sugli accordi economici. Ma anche segno di un’attenta lettura dei tempi, perché l’affermazione di un’Europa della conoscenza riflette la consapevolezza di vivere all’interno di una società della conoscenza.
Al pari di “rivoluzione dei saperi”, anche “società della conoscenza” sembra esser diventata un’espressione consumata dall’uso, dal significato non facilmente afferrabile, pur avendo ispirato scelte importanti in diversi ambienti, e avendo messo d’accordo tutti, persino parti sociali spesso in contrasto. Ma di quale conoscenza si parla? Non è solo quella dei libri, dei banchi di scuola, delle istituzioni tradizionali della formazione, sembra più nomade: semplificando, essa ha a che fare con la materia prima della produzione, è anche il capitale umano fondamentale nei circuiti economici e nella coesione sociale, è fattore di sviluppo dei territori e un dato indicativo della qualità di una democrazia. Si tratta di concetto ancora fluido: possiamo legarlo alla nuova e diffusa cultura del saper fare cui si accennava? Allo stesso tempo è un dato di fatto: i percorsi produttivi crescono più velocemente se riescono ad assorbire strutturalmente al loro interno questo sapere.
Una società di questo tipo interroga l’università, europea: e come sta reagendo il sistema accademico italiano a questo cambiamento? Ad esempio con un’attenzione accresciuta all’occupabilità dei laureati e al ruolo della ricerca come motore di sviluppo, secondo quanto prescritto anche dal processo di Bologna. Cambia quindi anche in parte la mission dell’accademia? Di sicuro, si fa largo un’esigenza, cui una vecchia concezione della cultura, alta ma da aggiornare, legata alla società delle professioni, non avvertiva: quella di abbassare il rischio di dispersione del capitale umano che una formazione superiore costituisce. Oggi, un disoccupato laureato significa sempre mancanza di rispetto per la persona, ma, meno idealisticamente, non è forse anche un’occasione perduta di crescita economica e sociale della propria comunità?
In quest’ottica, proviamo a leggere alcuni dati incrociati (MIUR, CRUI, Almalaurea) per cercare di capire a che punto sono le risposte dell’università. Si tratta di una fotografia in stile amatoriale, a bassa risoluzione per diversi motivi. Alcuni strutturali: infatti, stiamo vivendo una fase di transizione dovuta alle riforme del sistema accademico. Allora, un’indagine sull’occupabilità sarà complicata dall’esistenza di profili di laureati sostanzialmente diversi e non confrontabili tra loro: quelli pre-riforma e quelli post-riforma (all’interno dei quali peraltro sono ancora poco indicativi coloro i quali hanno conseguito una laurea specialistica). L’istantanea, dunque, verrà mossa. Inoltre, consapevoli di non avere le stesse competenze di chi ha raccolto questi dati, ci limiteremo a tentare una lettura che potrà risultare parziale. Essa sarà forse viziata dalla nostra prospettiva di studenti e non addetti al lavoro, e dalla percezione di quello per noi è un problema. Ma anche la percezione può divenire dato.
1.2 L’occupazione dei laureati
Sembrano di non agevole comprensione le tendenze sull’occupazione dei laureati. Per quanto già detto a proposito della transizione tra ordinamenti, infatti, i dati relativi devono tener conto di un target variegato e di conseguenza sono complicati da numerose ma necessarie cautele statistiche, che aumentano la sensazione di trovarsi in una fase di sperimentazione e di fatto difficile da vivere prima ancora che da interpretare.
Di sicuro, per effetto della riforma, risultato in linea con il processo di Bologna, il numero dei laureati è in continua crescita (L’università in cifre, www.miur.it). Sembra in accordo a quanto richiesto dalla società della conoscenza anche il dato che “all’aumentare del titolo di studio diminuisce il tasso di disoccupazione” (Ib.). Ma a fronte di questa verità lapalissiana, è più difficile stabilire comprensivamente a quanto ammonti la dispersione del capitale umano nel passaggio dall’università al mondo del lavoro. Comprensivamente, perché bisognerà sempre distinguere i laureati tra pre e post riforma per qualsiasi tipo di considerazione. Due dati accomunano queste categorie: migliora la regolarità dei percorsi di studio (diminuiscono cioè i fuoricorso) e l’età media, 27-28 anni per entrambi (dati Almalaurea ).
Se prendiamo il profilo destinato a crescere di più, oggi un laureato di primo livello ha tre strade davanti: dedicarsi esclusivamente alla prosecuzione degli studi, iniziare subito a lavorare, studiare e lavorare contemporaneamente. Le percentuali di quelli che si iscrivono alla Laurea specialistica e di quelli che trovano occupazione è quasi identica (54,4%). Ma non si può giudicare il tasso dei laureati di primo livello occupati, quasi uguale a quello dei laureati pre riforma dello stesso anno, senza tener conto che molti continuano gli studi. Tra i laureati di primo livello, 41 su cento non s’iscrivono alla specialistica e tra questi l’80% trova lavoro già a un anno di distanza dalla fine degli studi.
Ma valutare l’ingresso nel mercato del lavoro delle due categorie ed eventualmente confrontarle non è ancora operazione facile perché tra gli operatori del mercato non è sufficientemente nota la riforma universitaria. Sempre distinguendo, l’occupazione dei laureati pre riforma ad un anno dal conseguimento del titolo è 53,7% (in diminuzione rispetto agli anni passati), ma cresce col passare del tempo. Che cosa fa la rimanente parte? Alcuni non hanno un lavoro e non lo cercano, ma sono pochissimi, molti altri ovviamente sono disoccupati. L’Italia è ancora lontana dagli obiettivi di occupazione di Lisbona , mentre già mancato è quello di Stoccolma, che prevedeva un’occupazione dei laureati pari al 67%: l’Italia sta sotto di quasi 14 punti ed è tra i cinque paesi in Europa più deboli su questo fronte . Se il laureato è meridionale la situazione peggiora: gli Atenei del Sud fanno registrare modesti tassi di occupazione.
Ma molti, non solo i laureati con nuovo ordinamento, preferiscono completare la loro preparazione con un tirocinio, corso di lingua e/o informatica, stage in azienda, collaborazione volontaria. Ed è un altro dato significativo: la formazione post laurea continua a riguardare due terzi dei laureati, sebbene non tutti i percorsi premino alla stessa maniera (cfr infra). Lo stesso MIUR dichiara questo settore in forte espansione . E’ un dato da correlare alle difficoltà a trovare lavoro o è indicativo di un deficit di competenze apprese all’università?
Certo, col trascorrere del tempo e con la fine delle esperienze post laurea, la situazione degli occupati, pure più vecchi, migliora: dopo tre anni 84 su 100 lavorano stabilmente. Ma permangono le differenze territoriali fra quanti cercano lavoro, con un Sud meno generoso di occasioni professionali e che spinge alle migrazioni intranazionali.
Il passaggio al mondo del lavoro, oltre che da tempi lunghi, come s’è visto, è per la maggior parte dei casi segnato anche da difficoltà di diverso genere: l’area di residenza, le esperienze di lavoro compiute durante gli studi, la scelta del settore pubblico, che diviene più accessibile del privato solo dopo diversi anni. Inoltre, esiste un problema di canali d’ingresso: quello più percorso risulta ancora la rete parentale e personale. A evidenziare quanto è lasciato alla fortuna e all’abilità di autopromozione del singolo.
Sono invece fattori di vantaggio nella ricerca del lavoro la disponibilità al trasferimento di sede e l’ambito disciplinare tecnico-scientifico (in forte calo di iscrizioni tanto da richiedere un intervento ministeriale). Inoltre, anche le esperienze di studio all’estero aiutano nell’occupazione, in una migliore retribuzione e, intuibile, nella mobilità internazionale. Eppure, questa carta vincente non viene giocata dagli studenti italiani: solo 11 su 100 tra i laureati del 2004 è partito per l’Erasmus o progetti simili. Ed la percentuale tra i ragazzi del nuovo ordinamento, con ritmi più frenetici, è in ulteriore ribasso. Una chimera sembra rivelarsi il master, sul quale scommettono sempre più giovani (23.000 secondo il MIUR, il 13% dei laureati): ma il mercato del lavoro riserva la stessa accoglienza ai laureati che non lo abbiano frequentato. Al contrario, fortemente apprezzato sembra lo stage, ancora poco diffuso, ma che produce un valore aggiunto in termini occupazionali, svolto sia prima che dopo la laurea. Squadra vincente non dovrebbe esser riconfermata?
Che abbiano proseguito la loro formazione o che non l’abbiano fatto, nella maggior parte dei casi i neo dottori effettuano la prima esperienza lavorativa dopo la laurea: questo periodo allora non può che caratterizzarsi per cambiamenti frequenti e per una posizione professionale non alta. Solo dopo cinque anni, si ha un aumento di possibilità per una corrispondenza tra titolo conseguito e sbocco professionale (a tre anni dal conseguimento del titolo quasi un terzo dei laureati fa un lavoro per il quale non era richiesta una laurea, fonte MIUR). Si tratta quindi di un periodo di sperimentazione ma anche di ricerca di stabilità: ma per analizzare questo aspetto bisogna tener conto di attraversare una congiuntura di transizione per l’entrata in vigore della cosiddetta legge Biagi. Ad ogni modo, a un anno dalla laurea, hanno un contratto che assicuri un’occupazione stabile solo 39 laureati su 100 (tendenza in diminuzione). Per gli altri esistono diverse possibilità, tra cui anche il contratto atipico, in crescita (a un anno dalla laurea interessa il 48,5% dei giovani).
I laureati occupati a un anno dalla laurea non hanno uno stipendio particolarmente elevato: in media quasi 1000 euro (e infatti “la remunerazione è il fattore di minor soddisfazione per i laureati, dati MIUR). La cifra lievita di poco dopo tre e cinque anni; guadagnano di più i laureati giovani e del Nord, possibilmente impiegati nel privato, più generoso.
Questa una scelta dei dati relativi all’occupabilità dei laureati. L’impressione potrebbe essere quella di una presa molto difettosa tra il mondo del lavoro e della formazione, aggancio che se non fa cadere l’acrobata certo procura un brivido al pubblico: tra i due mondi sembra esistere una regione frastagliata, lunga da percorrere e non rassicurante. Ma si può pensare che il problema sia tutto da localizzare in un’accademia incapace di rispondere alla società? Si tratta di problema complesso e come tale, ricordava Bloch a proposito di ogni avvenimento storico, molteplici sono i fattori in causa (conoscenza tra i due mondi, periodi di transizione, distanza di idee tra i diversi attori dell’istruzione, rapporto pubblico privato, carente cultura della progettazione…). Forse non si tratta di individuare responsabilità ma di disegnare l’incrocio dei diversi fattori.
Nessun commento:
Posta un commento