1.3 La ricerca italiana
Un dato su tutti certo preoccupa: solo lo 0.9 % del PIL italiano viene investito in ricerca. Anche per i non addetti ai lavori, la cifra sembra bassa, ma un confronto con gli altri Paesi dell’UE conferma come essa sia addirittura irrisoria: arriva a 4.5 % in Svezia, si attesta al 2.5 % per Danimarca e Germania, 2 % per Belgio e Francia. L’Italia è dietro tutti questi Paesi, sotto la media europea, tra gli ultimi posti (Dati CRUI ).
Passando dai soldi alle persone, il numero dei ricercatori italiani è la metà di quello medio a livello continentale. Per giunta, i nostri studiosi sono tra i più vecchi e i meno retribuiti. Eppure, lavorano molto e bene: nel confronto europeo, non sfiguriamo per numeri di brevetti e pubblicazioni . Anzi, secondo un recente rapporto approntato dal CIVR (Comitato Italiano Valutazione della Ricerca), nuovo organismo di valutazione, la ricerca italiana è di buona qualità (eccellente addirittura nel 30% dei casi), produce un buon tasso di brevetti e presenta una discreta performance scientifica .
Ma andando oltre i confini nazionali, la situazione si arricchisce di luci e ombre. Infatti, se si considera l’impatto della ricerca italiana all’estero, secondo un complesso criterio di valutazione che fa interagire titoli e citazioni, si rileva che l’Italia produce molte pubblicazioni che però sono poco riprese dagli studiosi di altre nazioni. Il nostro Paese presenta molti ambiti di studio che raggiungono l’eccellenza, altri in evoluzione, tuttavia la crescita complessiva della ricerca italiana secondo alcuni non è in linea con la media europea .
Trascurata, adulata, mal nutrita, ma volenterosa e brava a scuola: la ricerca italiana sembra oggi una studentessa con ottime potenzialità cui però si deve dare più sostegno e fiducia, per potersi esprimere al meglio. Anche per evitare che fugga di casa. Non è solo la cosiddetta fuoriuscita dei cervelli a preoccupare: si tratta di un fenomeno rilevante, per ovviare alla ristrettezze italiane, ma anche effetto dell’internazionalizzazione della ricerca e di una mobilità globale sempre più naturale. Il problema sembra piuttosto che l’Italia non riesca a organizzare il rientro e soprattutto che non sia un centro d’attrazione per i cervelli stranieri, al fine di rimpiazzare le perdite e inserirsi in un virtuoso circuito di scambio internazionale. Così facendo, si perde una scommessa con la crescita della società della conoscenza italiana. Inoltre, l’università ha bisogno dei cervelli anche per la trasmissione dei saperi. Non si dimentichi infatti che didattica e ricerca sono due inseparabili polmoni dell’università italiana, come da lunga tradizione e come ribadito dal processo di Bologna.
Ad ogni modo, sempre auspicando finanziamenti più sostanziosi e un intervento statale più deciso il rilancio della ricerca italiana, come affermato da più parti, sembra possibile grazie alla creazione di una rete tra università, enti di ricerca, mondo produttivo. Ma a fronte di questa possibilità, che pure in alcuni territori comincia a trovare concrete realizzazioni, per un giovane che guardi al mondo della ricerca, nell’ambito accademico, il problema sembra ancora l’accesso, ad oggi lungo, confuso e poco incoraggiante: il recente riordino della docenza universitaria non sembra aver semplificato né reso più sicuri i percorsi per divenire ricercatori. Non è un caso se poi in molti si dedicano alla ricerca in un contesto extra accademico.
2. “Dov’è la conoscenza?” Università e altri luoghi del sapere
Un dato tra quelli ricordati spinge a chiedersi: se molti laureati decidono di perfezionare la loro preparazione con percorsi extra accademici, allora l’università non fornisce tutte le conoscenze per affrontare il mondo del lavoro? Deve farlo? Dove farlo?
Nelle nostre società, l’innovazione, soprattutto quella tecnologica, accelera il cambiamento nella produzione di merci e servizi: tutto cambia in fretta e così anche il mondo produttivo deve adeguarsi. Si aggiunga poi un tasso diffuso di cultura media, caratteristica di quello che da alcuni è stato definito il “consumatore esigente”. Il lavoro dunque si specializza per seguire un mercato in continuo mutamento e le strutture cercano di divenire learning, ovvero capaci di apprendere dall’esterno e frequentemente. In questa situazione in cui “saper fare” un determinato prodotto o fornire un particolare servizio si impara quasi sul campo, è facile chiedersi dove sia quella conoscenza come su descritta che produce benessere sociale e valore aggiunto in campo economico. Non si tratta di una domanda mirata solo a capire come funzionino i canali dell’occupabilità, bensì un modo per interrogarsi sulla nuova mission del sistema universitario.
Infatti, è abbastanza chiaro che il tipo di sapere descritto si acquisisce in tempi e modi diversi tra i differenti ambiti: è necessaria l’esperienza professionale, nei territori e nelle reti internazionali, come lo è una buona formazione di base che solo agenzie formative di qualità possono fornire. Ma non si può più delegare la preparazione completa alla professione esclusivamente all’università, come a nessun altra singola istituzione. Si tratta di un concetto ormai assimilato sia da parte del mondo produttivo, che dimostra sempre più interesse per la formazione, sia da parte del mondo accademico.
La nostra università, accusata spesso in passato, e non sempre a torto, di autoreferenzialità, si dimostra oggi più estroversa, spesso in dialogo con il mondo dell’occupazione, anche per orientare la propria offerta formativa e accreditarla presso la sfera extraccademica. Non si tratta solo di superare i punti di mismatch (non incontro) tra domanda e offerta di lavoro, pure una preoccupazione etica importante, ma di proporre l’accademia come un attore dinamico nell’interpretare le esigenze della società, tentando una sua risposta dopo anni di disattenzione. Così, le università (si parla al plurale perché è un discorso legato ai territori) non inseguono il mercato o non eseguono le committenze dei soggetti portatori d’interesse nei loro riguardi, bensì siedono a tavolo con loro, collaborando in piena autonomia, individuando campi in cui orientare i programmi dei propri percorsi, costruendo un’offerta intelligibile al mondo del lavoro. Gli atenei iniziano a pensare in un’ottica di sistema. Le parole d’ordine, da entrambi i versanti, sono integrazione e interazione tra i diversi soggetti: anche per intercettare un saper fare fluido, che trova comunque il suo centro ineliminabile nell’elaborazione del singolo.
Molti possono essere i prodotti dell’integrazione: spin off, accordi su stage ed esperienze lavorative, occasioni di occupabilità, protocolli d’intesa , investimenti di privati su ricerca e innovazione. Molta strada sembra ancora da fare, anche perché bisogna superare le differenze di linguaggi tra mondo accademico e produttivo, ma al di là dei risultati concreti, l’importante è stato porsi per la prima volta il problema del ruolo dell’università nella società della conoscenza e quello della sottoutilizzazione di giovani con percorsi formativi alti. Ma l’ansia di recuperare il tempo perduto su questo campo non deve portare proposte superficiali o tempi frettolosi, né un’asimmetria nei rapporti tra gli attori in causa, rischio che richiede trasparenza reciproca e regole condivise.
L’integrazione può avvalersi di un ampio spettro di strumenti: tirocini, stage, docenze esterne. Essa passa per uno strumento previsto dalla 509, la consultazione, ovvero una condivisione, tra tutti i soggetti esterni all’accademia ma portatori d’interesse in un territorio, delle scelte in merito ai processi formativi, passati in seguito al vaglio di nuclei di valutazione ad hoc. Le esperienze già avviate in questo senso avvertono che, durante la progettazione di un percorso formativo, che ha una lunga attuazione, non si può prevedere quali saranno le esigenze del mercato del lavoro dopo cinque o dieci anni, né si può programmare il corso di studio sulle esigenze del momento, altrimenti i primi laureati di quel corso arriveranno sul mercato di lavoro con competenze già superate. Allora, di sicuro non si può appiattire l’offerta didattica sulle esigenze di mercato ma bisogna continuare a insegnare ad imparare. Niente di nuovo sotto il sole, si potrà pensare, ma non si tratta esattamente dello stesso insegnamento del passato, perché i saperi da acquisire sono diversi e fanno la differenza: esso si concretizzerà in discipline di base, altre caratterizzanti delle aeree specialistiche e occasioni per metter in campo quanto appreso (in questa linea sembra andare lo stage sempre più adottato anche nelle triennali). Oltre che luogo di rientro costante per l’aggiornamento, importante riferimento in un life long learning system, l’università dovrebbe fornire l’impostazione di studio per poter poi tornare nelle aule, ovvero il metodo per continuare ad apprendere, quando apprendere in continuazione non è più solo un atteggiamento intellettuale ma un’esigenza per non rimanere indietro sui continui cambiamenti e rischiare di rimanere esclusi dai sistemi produttivi.
E’ questo un problema che non riguarda solo il singolo ma anche le istituzioni, perché la crescita del Paese sembra legata tanto alla qualità del capitale umano prodotto quanto alla quantità che ne viene preservata. In questa direzione, sembrano ancora da risolvere importante nodi, forse resistenze a una circolazione e condivisione del sapere come su descritto: da una parte la questione degli ordini professionali, il loro atteggiamento verso le nuove lauree, che forse può portare a interrogarsi su una riforma del mondo delle professioni; dall’altra quella delle pubbliche amministrazioni, il cui accesso è regolato da concorsi sempre più rari, e che difficilmente riescono a entrare nella rete su prospettata . Ma si tratta di un discorso fuori dal sistema accademico e che non copre i segnali positivi di un’università sempre più rivolta al networking. Che è poi un modo per ammettere con umiltà e onestà intellettuale che non tutto il sapere può concentrarsi in una sola esperienza: questa sì una lezione di vita alla vecchia maniera.
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