martedì, maggio 02, 2006

Tesi congressuali FUCI Titolo Primo 1

La didattica e il sapere che cambia

1. 1 La didattica tra vecchio e nuovo ordinamento

Prima di scendere nello specifico dei fenomeni di cambiamento che stanno caratterizzando il mondo universitario in merito all’organizzazione didattica, è necessario ripercorrere brevemente le tappe salienti che hanno portato a un ripensamento dell’impianto didattico e a un suo aggiornamento.
La situazione attuale è il risultato di un percorso di cambiamento avviato nel 1999 dal decreto ministeriale 509 che aveva l’obiettivo di ridefinire l’architettura dei percorsi di formazione superiore.
Già negli anni precedenti, la legge Ruberti n. 168/89 aveva disegnato un impianto fortemente dualistico, istituendo il cosiddetto Diploma di Laurea come un percorso professionalizzante e la Laurea come quel percorso votato ad una formazione di base e di lunga durata. Del cosiddetto “quadrifoglio Ruberti” è però interessante recuperare l’art. 6 e l’art. 8 che, oltre all’autonomia finanziaria e organizzativa, afferma l’autonomia della didattica, prevedendo che ogni università e ogni ente di ricerca si dia un proprio ordinamento e un proprio statuto. In ordine di tempo si sono poi susseguite la “bozza Martinotti”, del 9 dicembre 1997, che proponeva l’idea di un’organizzazione del percorso universitario in tre sezioni (diploma, laurea e post-lauream); e la Bassanini 2, ovvero la legge n. 127 del ’97 che ha avviato in concreto il piano di attuazione della autonomia didattica attraverso un processo di snellimento legislativo.
La 509 voleva rispondere ad alcune questioni lasciate in sospeso dall’ordinamento precedente. In particolare si è ribadita l’autonomia didattica di ogni ateneo di poter differenziare l’offerta formativa dei singoli corsi di laurea. Allo stesso tempo, la riforma ha voluto articolare l’offerta formativa con la costituzione di nuovi corsi di laurea che potessero interpretare i cambiamenti del mercato del lavoro. Inoltre, la riforma aveva l’obiettivo di reagire al fenomeno dell’abbandono degli iscritti e all’elevata età media dei laureati. Infatti, negli anni successivi di applicazione generalizzata della riforma si è registrato un aumento costante degli iscritti che negli ultimi anni si sono stabilizzati intorno alle 350 mila unità.
Di pari passo all’aumento della domanda formativa va l’aumento dell’offerta, ovvero quel fenomeno apparentemente incontrollato della proliferazione di nuovi corsi di laurea. Sono 4.539 i corsi attivati in Italia, di cui circa 80 del vecchio ordinamento. Il numero di corsi di laurea del nuovo ordinamento è ulteriormente aumentato nel 2003/04 di 44 unità (erano 3.024 nel 2002/03 ed è aumentato a 3.068 nel 2003/04). Nonostante i tentativi a livello centrale di semplificazione del quadro dell’offerta formativa, che appariva un po’ ridondante, nell’A.A. 2003/2004, quasi un corso su cinque era di nuova istituzione. I settori, o meglio, le classi disciplinari che risultano avere attuato il maggior numero di nuovi corsi sono quelli psicologico, geo-biologico e dell’insegnamento, mentre rimangono più stabili quelli medico e giuridico. I corsi di studio si distribuiscono in modo differenziato tra i programmi delle lauree triennali (3.358 corsi), specialistiche a ciclo unico (178) e specialistiche biennali (1.247). Esiste allora un rapporto numerico per cui per 100 corsi triennali e esistono 39 corsi di specializzazione.
Tale fenomeno si inserisce certo nelle intenzioni del legislatore di diversificare sempre più un’offerta didattica legata ad un sistema ormai non più attuale, ma disattende quella che era la visione di un percorso formativo compiuto che riuscisse ad esaurire le esigenze di formazione dello studente prima e del mercato del lavoro poi. Infatti, la maggior parte degli studenti in possesso del titolo di studio di Laurea triennale decide di proseguire il percorso universitario iscrivendosi a una laurea specialistica. E’ una scelta spesso dettata da una mancata sinergia con il mondo del lavoro che non sempre è preparato a accogliere il “prodotto” di un sistema formativo non ben noto (ad esempio alcuni ordini professionali hanno ritardato l’adattamento dei propri albi alla riforma). Oppure lo studente non “si sente ancora pronto” per entrare nel mondo del lavoro e sceglie allora di proseguire attraverso i master, che comportano una spesa onerosa e che spesso rischiano semplicemente di rimandare il problema senza costituire una soluzione reale.
I dati citati fanno riferimento alla situazione attuale dell’Università Italiana che dovrà affrontare un ulteriore assestamento in seguito all’approvazione del decreto ministeriale 270/04, firmato dal ministro Moratti. Tale decreto prevede un nuovo stravolgimento organizzativo del percorso formativo definendo una struttura cosiddetta ad “Y”, in cui, di volta in volta, lo studente deve scegliere la “tipologia” di offerta formativa. Il decreto infatti prevede un anno, corrispondente a 60 crediti formativi, comune a tutti i corsi di laurea della classe disciplinare, al termine del quale lo studente compirà una scelta di tipo “metodologico” o di tipo “professionalizzante”. In entrambi i casi si giunge al conseguimento della laurea triennale: nel primo caso si potrà proseguire con il biennio per ottenere la laurea magistrale (già laurea specialistica) e nel secondo si entra direttamente nel mondo del lavoro. Le attività didattiche previste per il primo anno in comune devono essere intese come una ricerca di orizzontalità in un percorso apparentemente rigido e verticale; allo stesso fine sono istituite delle “occasioni” per passare da un biennio all’altro, definite “passerelle”, per evitare la rigidità di un sistema che altrimenti risulterebbe costringente nella sua irrevocabilità. Notiamo però quanto si insista sulla separazione netta tra formazione alla professione e formazione al metodo, distinguendo i due percorsi, frammentando le conoscenze e disorientando sulle relative prospettive future.
I provvedimenti legislativi che abbiamo brevemente richiamato sono frutto di una vivacità intrinseca al mondo universitario che sa e deve sempre tendere ad un rinnovamento costante. Questi provvedimenti hanno poi trovato attuazione grazie al lavoro degli attori in causa: i rettori, i docenti e gli studenti. La CRUI ha avviato sin dal 1999 progetti per tradurre meglio in atto la riforma, tra cui CampusOne, con l’obiettivo di delineare un progetto di management didattico non delineato a priori ma in base all’esperienza e alle esigenze reali. Gli obiettivi generali di tale progetto, ormai a regime in diversi atenei, è di proporre un sistema formativo innovativo con attenzione particolare: al raccordo tra i contenuti dei programmi universitari e le esigenze del mercato del lavoro; allo sviluppo delle competenze strumentali informatiche e linguistiche; allo sviluppo di attività trasversali, favorendo occasioni di lavoro in gruppo, esperienze relazionali ecc.; incentivando la familiarizzazione con il mondo dell’ICT, Information and Communication Technologies.



1. 2 Saper fare, interdisciplinarietà e flessibilità dei percorsi
L’università sta radicalmente riorganizzando la didattica anche in virtù di un ripensamento più ampio del suo ruolo all’interno della società. Non si tratta quindi semplicemente di rinnovare metodi e gestione dei singoli corsi di laurea, ma di un cambiamento più profondo che interessa la proiezione delle agenzie formative in un contesto di dimensioni globali e di interconnessioni complesse. Infatti, assistiamo a un continuo delinearsi di nuove forme di cittadinanza che superano i limiti geografici e culturali imposti dagli stati nazionali per partecipare alla società planetaria: è necessario quindi guardare all’altro, alle storie “altre” e alle culture transnazionali aprendosi al confronto e al dialogo.
In passato l’organizzazione del sapere era fondata su due ipotesi fondamentali: la stabilità della cultura legata a territori e categorie ben definite, e il continuo riferimento all’individuo “medio”, alla standardizzazione dell’interlocutore. Oggi è necessario sapersi porre dei problemi di interesse globale calibrando la didattica non più sull’ obiettivo dell’omologazione, ma sulla produzione di linguaggi omogenei che sappiano codificare e tradurre culture sempre più frenetiche.
Nel concreto l’università ha dovuto affrontare alcuni concreti fenomeni: l’aumento degli iscritti, l’incremento delle funzioni relative all’ingresso (orientamento) e all’uscita (jobplacement), e, infine, l’attività sempre più necessaria del fund raising e della sponsorizzazione. Si va sempre più delineandosi un modello di ateneo legato aflessibilità, autonomia e competitività. Queste tre caratteristiche sono interconnesse: infatti, non è possibile garantire una flessibilità che diversifichi i corsi di laurea se non esiste autonomia della didattica; quest’ultima è garantita dall’autonomia finanziaria che dipende dal grado di competitività dell’ateneo in confronto agli altri. Ma la competizione si manifesta a più livelli: nel contesto locale e in quello globale; a livello nazionale e a livello internazionale, misurandosi su più ambiti: l’attrattività dei corsi di laurea, l’atteggiamento dialogico con gli interlocutori territoriali, la capacità d’nnovazione degli strumenti e la produttività della ricerca.
Il parametro della competizione è legato a una cultura tecnologica all’insegna della performance, unico termine di giudizio, che sposta l’attenzione dai processi ai risultati, ai prodotti. In realtà questa è una dinamica acquisita dal mondo del lavoro che può e sa remunerare solo un prodotto e non un processo.
In questa direzione, l’università ha finora seguito un’impostazione della didattica che procede per funzioni, generando cioè le figure professionali richieste dal mondo del lavoro. Tale modello, però, può risultare inadeguato perchè deriva da un contesto in cui l’attività della didattica era fondamentalmente più ristretta, i suoi referenti pochi e più omogenei, il grado di autonomia degli atenei inferiore rispetto al presente, gli obiettivi in larga parte autoreferenziali e i vincoli meno definiti. Quello che si cerca di perseguire oggi è un modello organizzativo della didattica che non sia articolato per funzioni, più o meno rigidamente compartimentate, ma che si basi su un modello trasversale di lavoro gestito per obiettivi e per processi; un sistema di riferimento che filtri le diversità formative dell’individuo, creando interconnessioni tra esse, rielaborandole e integrandole.
Procedendo per funzioni ci si basava sull’idea di una Università-contenitore, che potesse cioè custodire e trasmettere il sapere in modo enciclopedico. In realtà ci accorgiamo come sempre di più il sapere venga declinato al plurale: i saperi sono sempre più frammentati e filiformi, e risulta difficoltoso il tentativo di catalogarli per contenerli. Una visione del sapere convergente appartenente al passato lascia il posto all’idea di un sapere divergente, risultato non dall’accumulazione di più informazioni, ma della moltiplicazione: si tratta di una “cultura rigenerante” che sa aggiornare le conoscenze acquisite attraverso la pratica del dubbio metodico che può favorire nuovi saperi.

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