3. Invecchiamento rapido delle conoscenze e flessibilità professionale
Nei dati sull’occupazione dei laureati, s’è registrato come una condizione frequente sia quella dei contratti atipici, ovvero non stabili.
Nei circuiti su descritti emergono costantemente conoscenze nuove che subito sostituiscono quelle precedenti: ciò che con un’espressione anch’essa forse abusata si dice “obsolescenza rapida dei saperi”. Si tratta di uno dei cambiamenti che hanno spinto un ripensamento dei percorsi formativi, in una rincorsa alla novità tra diversi luoghi del sapere. Inoltre, prevalentemente ad essa si riconduce la scelta della flessibilità professionale, che recentemente s’è tradotta nell’applicazione della cosiddetta riforma Biagi. Ma quanto effettivamente le due tendenze, mobilità lavorativa e invecchiamento veloce delle competenze, possono essere fatte derivare in maniera diretta l’una dall’altra?
Senza entrare nel dettaglio di una legge non ancora a regime e fuori dalla portata delle nostre considerazioni, la scelta della flessibilità tout court sembra avere una sua motivazione nella differenziazione dei consumi, dei servizi pubblici, e nelle specializzazione delle competenze. Sembra parimenti vero che le differenze di sapere possono essere la causa di diversità occupazionali anche tra chi già lavora: ovvero l’aggiornamento, necessario per combattere l’invecchiamento delle proprie competenze, è una condizione di vantaggio per rimanere sul mercato del lavoro quando si sia già inseriti al suo interno. L’aggiornamento peraltro è più alla portata di chi ha già una solida preparazione di base, che va in teoria sempre migliorando. Se la stabilità professionale dipende dalla capacità e possibilità di seguire i cambiamenti delle proprie conoscenze, allora la formazione permanente diviene un’esigenza per tutti.
In questo senso, la flessibilità potrebbe essere un’occasione di arricchire i curricula, crescere sotto il profilo professionale e culturale, valorizzare l’iniziativa del singolo stimolandone la creatività, cambiare percorso e dunque aggiornarsi, a costo però che i passaggi da un lavoro all’altro vengano tutelati, altrimenti chi resta ferma troppo a lungo rischia di “invecchiare” irrimediabilmente. In questo senso, essenziali sono i soggetti promotori di formazione permanente, tra i quali un candidato d’eccezione è proprio l’università. Se non sembra che la flessibilità sia nella maggior parte dei casi un’opportunità, forse ciò è da attribuire a una sua interpretazione al ribasso, tesa semplicemente al cambiamento rapido di esperienza, senza troppa attenzione ai percorsi, alle possibilità di professionalizzazione e alla qualità del lavoro offerto. Questo può dipendere tra l’altro dalla mancanza di una cultura diffusa della formazione permanente; certamente si tratta di scelte non strettamente legate all’obsolescenza rapida dei saperi.
Purtroppo il long learning, la cui importanza a fronte della flessibilità è innegabile, non sembra interessare e impegnare tutti allo stesso modo. E’ vero che le università, forti del loro ruolo, stanno cominciando a prestare molta attenzione all’argomento, ma si muovono ancora su un territorio nuovo e in fase di sperimentazione: come si diceva, l’accademia da sola non basta. Infatti, un’efficace proposta di formazione continua richiede una rete ampia di enti. Perché se essa può essere una possibilità per far ricominciare da capo molti, per riaccendere la speranza in casi sociali non felici, da un’altra parte necessita di un sistema di appoggi e strutture che consentano i momenti di rientro o di aggiornamento tanto per i giovani laureati quanto per i padri di famiglia. Sembra servire un nuovo patto formativo ispirato da un’idea di crescita economica e sociale condivisa tra università e altre agenzie formative da un lato, istituzioni dall’altro. Una partita che, come quella dell’occupabilità dei laureati alla quale s’intreccia, si gioca tutta sul territorio.
4. Università e territorio
La riforma della didattica universitaria ha contribuito a determinare radicali cambiamenti degli Atenei soprattutto per quel che riguarda la loro organizzazione, riducendone l’autoreferenzialità e generando decentramento. Ciò ha favorito un potenziamento del rapporto con il territorio e di conseguenza con il mondo del lavoro.
Un passo fondamentale per l’integrazione tra università e territorio è il riconoscimento degli Atenei come soggetti costitutivi delle realtà produttive. Questo rapporto può essere utile anche per misurare la qualità dei progetti di sviluppo locale e la stessa coesione sociale.
In questa direzione, molti sono ancora i problemi che devono essere risolti. Infatti, può accadere spesso che gli Atenei non riescano a progettare attività simili anche a causa delle scarse risorse pubbliche loro rivolte e dello scarso intervento dei privati per rimpinguare i fondi. Eppure, già in altri Paesi europei è stata avviata una sperimentazione per rinforzare il rapporto tra il mondo della produzione e quello dei saperi. Purtroppo in Italia, e soprattutto nel Sud, una possibile sinergia tra queste due differenti realtà sembra ancora poco percorsa. Ciononostante, lentamente, si sta affermando l’idea che il valore di un territorio derivi direttamente dalla capacità di collegarsi con gli ambienti accademici e aziendali, dando origine ad una vera e propria struttura a rete. Questo sembra infatti una delle vie principali per sostenere i confronti con i contesti internazionali.
Un altro problema a creare la rete di cui si parla, oltre a quello già accennato dei fondi, è la difficoltà spesso incontrata a impiegare la conoscenza prodotta all’interno degli Atenei per fini extrascientifici. All’eccellenza della produzione dei saperi si può contrapporre una scarsa relazione interna ed esterna del mondo accademico. Così, le strutture universitarie corrono il rischio di diventare monadi, non in dialogo tra di loro. Questa tendenza non sembra però determinare l’alta specializzazione di un territorio, bensì sembra incoraggiare la frammentazione del sistema e della conoscenza. Infatti, la sintonia dell’università con il territorio può essere un incentivo a superare dei rigidi confini disciplinari della didattica universitaria.
Pensando al rapporto tra università e sviluppo, si può forse procedere a un’integrazione della famosa regola delle tre “T”, coniata da Richard Florid, per descrivere il successo della ricetta americana, ovvero Tecnologia, Talenti e Tolleranza: ad essi si può aggiungere appunto un’altra “T”, quella di Territorio. Ciò non significa incoraggiare quello che è stato definito una “disastrosa clonazione” degli Atenei su scala ridotta, i cosiddetti “Atenei bonsai”, perché probabilmente si tratta di una tendenza che deriva da altre esigenze. Ma il decentramento, l’autonomia e anche la creazione di nuovi poli universitari ha rafforzato i legami con il territorio, al fine di fronteggiare le domande locali e di interagire con i programmi di ricerca europei.
Un esempio di cooperazione tra sistema di formazione e sistema economico su base territoriale è stato il già citato progetto CampusOne, promosso dalla CRUI : esso ha consentito, tramite un percorso condiviso dai diversi attori portatori di interesse su un territorio, di giungere alla definizione comune degli obiettivi di determinati corsi di laurea, calibrati anche sulla richiesta del mercato di lavoro locale.
La preparazione di percorsi formativi simili richiede ovviamente cautela: se infatti da una parte essi permettono di rispondere a precise esigenze del mercato, dall’altro si corre il grave rischio di offrire una formazione settoriale o a rapida obsolescenza. Inoltre, simili preziose sperimentazioni incontrano ancora ostacoli nella loro realizzazione: essi possono essere di tipo tecnico (a.e. ricerca fondi), di tipo organizzativo, di comunicazione, come s’è verificato nel rapporto tra atenei, pubbliche amministrazioni e le imprese che non parlano un linguaggio comune. A questo si aggiunga la disinformazione e impreparazione del mondo produttivo sulla riforma universitaria e la fatica a dialogare con alcuni ordini professionali. Insomma, molti passi avanti sono stati fatti in questa direzione, ma sembra che altrettanti ne rimangano ancora da fare.
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