Si è detto che Ilaria Occhini fu bella, e non ci voleva particolare fantasia per celebrare una divinità che in lei non si è mai voluta nascondere, nemmeno nell’estrema vecchiaia. Era lì, come un’affezione carnale dello spirito, lo splendore del viso e del corpo di Occhini. Bastava uno sguardo minimo e anche non particolarmente educato per arrivare senza mezzi termini e senza indugi al verdetto ovvio: bella, e la più bella in molti sensi. Raffaele La Capria sposo e amante di mezzo secolo non finiva mai di celebrarla, e non c’era stucchevolezza, solo evidenza, nell’infinito interminabile tributo sensuale alla sua donna. Gli amori degli altri sono abominevoli, si dice. Quello no. Era semplicemente attraente. Una storia che non ha tolto né aggiunto niente ad alcuno dei due protagonisti. Nella coppia, lui talento letterario assoluto e genio critico fresco, spontaneo, si misurava con vitalità e carattere di lei. E volontariamente ma regolarmente soccombeva all’eleganza di Ilaria, nutrita anche di una segreta perfidia, come in tutte le donne davvero luminose e ambiguamente possedute dai loro lineamenti fatali.
Si è detto anche del suo lignaggio, Barna Occhini padre, Giovanni Papini nonno materno. E dunque del suo novecentismo di fonte culturale, figlio di eventi e scrittura, dell’ambiguo e fecondo incrocio degli uni e dell’altra. Non ne fece mai uso ostentato, di questa discendenza che dà vita e tempra al carattere, togliendogli il banale individualismo dell’identità, promuovendolo a genesi o genealogia. Ilaria Occhini fu stella per il popolo, sublime oggetto di consumo per la televisione, presenza altera e misteriosa nella cultura alta e minoritaria del teatro, e inevitabilmente Musa per via della storia d’amore. Disobbedì spesso alle regole del successo predatorio, non era in quel senso una faticona, lei che lavorava per il dovere comune di piacere e un piacere nobile del dovere. Sulla patina mondana, che l’Italia dei Sessanta spalmò sulla società artistica e letteraria come definitiva sublimazione e via d’uscita dagli anni di una guerra miserabile, tremenda, la Occhini incollò una sottile e acuta passione politica e civile.
Di questo si è detto meno, peccato. Pannelliana di sangue, fu capolista della pazza avventura della moratoria sull’aborto. Ci arrivò a sorpresa, senza paura di contraddirsi, e non si contraddiceva affatto. Mise un tratto di grazia e luce laica su una campagna resa politicamente effimera dall’equivoco mediatico e ideologico, e arrivò come un regalo, inaspettato e dolce, incartato in un fiocco di sapienza, gratuito come una vocazione improvvisa. Il paese temperatamente moderno, affidato a mani esperte e a menti interessanti, era il suo. Ne amava la capacità di trasformazione, detestandone il trasformismo epidermico. In un memorabile Ferragosto intimo, nella sua casa di campagna, emersa a mezzodì da una notte difficile, angelica e matronale, ma sempre cattiva ragazza, prese a idolo un uomo di stato tra quelli che hanno chiuso il ciclo socialista e berlusconiano, un tipo di razza che le risultava insopportabile, e imprigionò il caldo salotto che la circondava in un’esclamazione perfetta: “E’ uno stronzo!”. Come fosse forte e irrevocabile la sua non eterea bellezza lo hanno saputo fino all’ultimo, e continuano a saperlo, lo sposo, la figlia e qualche ammiratore o amico.
Giuliano Ferrara
Giuliano Ferrara
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