martedì, aprile 01, 2025

 Come tutti portiamo nel sangue il seme del peccato originale, così abbiamo il presentimento dei giorni felici «quando gli uomini vivevano senza agitazioni nell’animo, senza miserie nel corpo, con la sicurezza perenne di non poter peccare e di non poter morire, senza la prova della fatica, del dolore e della morte, quale sarà, dopo questa triste esperienza, nella riacquistata immortalità della carne».

Possiamo avvicinarci a quei giorni, offrendo a Cristo agitazioni e miserie, a Lui che il Padre mandò sulla terra per riallacciare il patto, a prezzo di Sangue.

I santi pregustano la felicità che fu, la felicità che tornerà ad essere come una nostalgia guaribile di giustizia, d’integrità, d’immortalità.

Cristo è venuto al mondo come essenza di dolore, e tutta la sua vita, sostanziata di lavoro e di pena, si è conclusa sul Calvario, monte di Passione e di Sangue. Ecco perché il dolore dev’essere considerato sacro: un dono inestimabile che ci affrancherà dal male.

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«Per un uomo il peccato è entrato nel mondo e per il peccato la morte, e così la morte si trasmette in tutti gli uomini perché tutti hanno peccato».
La triste eredità che San Paolo acutamente spiega ai Romani, da lui stesso riceve il crisma della rigenerazione consolatrice: «Giacché, come per la disobbedienza di un solo uomo — Adamo — molti sono stati costituiti peccatori, così per l’obbedienza di un solo — Cristo — molti sono costituiti giusti».

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Non è presunzione, a patto che serviamo le leggi eterne, sentirsi partecipi della natura umana e divina di Cristo. Noi parliamo, infatti, secondo la natura fisica quando diciamo con Lui: «Ho sete... l’anima mia è triste» mentre partecipiamo della natura metafisica quando sentiamo in noi l’anelito alla Resurrezione e all’eternità: presentimento che non è negato a creatura umana cui il Creatore infuse l’alito dell’immortalità.

5 gennaio 1947

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