Come tutti portiamo nel sangue il seme del peccato originale, così abbiamo il presentimento dei giorni felici «quando gli uomini vivevano senza agitazioni nell’animo, senza miserie nel corpo, con la sicurezza perenne di non poter peccare e di non poter morire, senza la prova della fatica, del dolore e della morte, quale sarà, dopo questa triste esperienza, nella riacquistata immortalità della carne».
Possiamo avvicinarci a quei giorni, offrendo a Cristo
agitazioni e miserie, a Lui che il Padre mandò sulla terra per riallacciare il
patto, a prezzo di Sangue.
I santi pregustano la felicità che fu, la felicità che
tornerà ad essere come una nostalgia guaribile di giustizia, d’integrità,
d’immortalità.
Cristo è venuto al mondo come essenza di dolore, e tutta la
sua vita, sostanziata di lavoro e di pena, si è conclusa sul Calvario, monte di
Passione e di Sangue. Ecco perché il dolore dev’essere considerato sacro: un
dono inestimabile che ci affrancherà dal male.
* *
«Per un uomo il peccato è entrato nel mondo e per il peccato
la morte, e così la morte si trasmette in tutti gli uomini perché tutti hanno
peccato».
La triste eredità che San Paolo acutamente spiega ai Romani, da lui stesso
riceve il crisma della rigenerazione consolatrice: «Giacché, come per la
disobbedienza di un solo uomo — Adamo — molti sono stati costituiti peccatori,
così per l’obbedienza di un solo — Cristo — molti sono costituiti giusti».
* *
Non è presunzione, a patto che serviamo le leggi eterne,
sentirsi partecipi della natura umana e divina di Cristo. Noi parliamo,
infatti, secondo la natura fisica quando diciamo con Lui: «Ho sete... l’anima
mia è triste» mentre partecipiamo della natura metafisica quando sentiamo in
noi l’anelito alla Resurrezione e all’eternità: presentimento che non è negato
a creatura umana cui il Creatore infuse l’alito dell’immortalità.
5 gennaio 1947
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