Da Il Riformista di oggi
POLITICA ESTERA. VINCE LA CANZONE TURCA. CLAMOROSA DEBACLE INGLESE: «NUL POINTS»
All'Eurofestival, dove domina la geostrategia
La kermesse musicale sarà pure kitsch, ma è il foro in cui si sperimentano i futuri assetti del Vecchio Continente
Lo scorso sabato sera, quando in Italia non si faceva nulla di particolare, il vastissimo bacino dei «telespettatori nazionalpopolari» di una quarantina di altri paesi europei e limitrofi, era incollato davanti all'evento televisivo annuale più significativo del Vecchio Continente, l'Eurovision Song Contest, detto in italiano (quando mai viene nominato) «l'Eurofestival». Tre le novità di questa 47esima edizione. La vittoria della Turchia, eterno outsider della contesa, con Everyway that I can, un implausibile mix di blando Europop con ritmi e mossettine medio orientaleggianti, di Sertab Erener. Per la prima volta, inoltre, dalla sua fondazione a Lugano, nel 1956, il Regno Unito, unica iperpotenza europea della musica pop, ha registrato zero punti, o nul points, nel canonico linguaggio eurofestivalese, che continua a alternarsi in inglese e in francese. Infine, la Lettonia, paese ospitante di quest'edizione (avendo vinto quella dell'anno scorso in Estonia) ha confezionato un prodotto televisivo cosi professionale e vincente (la sua canzone quest'anno è finita terzultima) che è paragonabile in termini di pubbliche relazioni solo allo spettacolo delle Olimpiadi di Sydney.
Ricca la rassegna stampa dei quotidiani che hanno dedicato pagine intere e persino seri editoriali all'avvenimento. Il tabloid tedesco Bild ironizza con caratteristico schadenfreude sull'Inghilterra «Madrepatria del pop che non ha preso un solo voto». Il Daily News di Valletta fa autocritica, «Malta ottiene il suo peggiore risultato della storia» (la sua piccola ex-colonia mediterranea ha superato il Regno Unito da una sola posizione). L'autorevole El Mundo madrileno fa il punto politico, «Vincendo l'Eurovision, la Turchia si sente già un po' più europea», mentre Milliyet, testata popolare d'Istanbul, ha gridato la vittoria con un titolo calcistico: «Sertab ce l'ha fatta dopo 28 anni: finalmente abbiamo raagiunto la lieta fine della nostra lunghissima avventura in Eurovisione». Malizioso il commentino politico dell'australiano Sunday Times, «Poms caned in Eurovision (gli stronzi inglesi bastonati): isolamento dall'Europa sottolineato dalla mancanza di un solo voto». Su tutti i broadsheets londinesi abbondano i dettagli analitici dei fatti. Il Daily Telegraph, ha pubblicato un'accurata mappa che divideva il Vecchio Continente in «sfere di influenza» delle tre nazioni più votate (Turchia, Russia e Belgio, pensate), come ai tempi del Congresso di Vienna del 1815.
Pochi hanno negato che la canzone inglese Cry Baby non fosse granchè, anche se i Jemini sono protetti da Sir Paul McCartney in persona. Ha prevalso però uno spirito di autocommiserazione degno del peggiore vittimismo italiano: «il resto dell'Europa ce l'ha con noi per la guerra in Iraq e per l'atteggiamento defilato verso il progetto europeo». Paranoia dietrologica in salsa britannica? Non esattamente: malgrado le regole fisse dall'organizzatore, esiste una tradizione del cross-voting all'Eurofestival che è riconosciuta e condivisa da tutti. Nonostante i brutti ricordi politici, i paesi slavi e post-sovietici si scambiano i voti, lo stesso succede tra i due popoli iberici e tra i paesi scandinavi. La Germania e la Turchia si danno sempre il massimo dei punti (galeotti i gastarbeiter) come Cipro e Grecia. E per tradizione, Germania e Francia non votano mai il nemico oltre la Manica. E cosi palese il «voto simbolico» (nulla a che vedere con l'ufficiale raccolta scientifica dei voti telefonici, via internet o Sms) che il rappresentante di Cipro (che ha dato come sempre i suoi rituali 12 punti alla Grecia) ha annunciato: «negli interessi della pace… diamo otto punti alla Turchia».
Per i popoli poco politicizzati dell'Europa e dintorni, l'Eurofestival rimane, nonostante le sue pessime abitudini (oltre il voto bulgaro, le canzoni sono quasi sempre pessime, i costumi e le coreografie indicibili), forse il più impotrante momento di aggregazione culturale e sociale. Di basso livello culturale, certo, ma anche di avanguardia politica. I paesi dell'Est ne partecipano dal 1993 (ben prima di entrare in Nato e Ue), la Turchia e persino l'Israele da quasi 30 anni. Tutti i vari statarelli dell'ex Jugoslavia ci si ritrovano, e malgrado i fattacci degli anni 90, si «cross-votano».
Per chiunque voglia fare amicizia in Europea, partecipare all'Eurofestival è un imperativo geostrategico. Lo sanno bene i quattro paesi del suo «Consiglio di Sicurezza», Francia, Regno Unito, Francia e Spagna, gli unici che a causa del massiccio contributo monetario offerto dall'organizzazione, non possano esservi esclusi. Farà schifo, ma è troppo importante per mantenere i rapporti internazionali.
E pensare che l'Eurofestival nasce nel 1956 come emanazione europea del Festival di Sanremo. Foro per eccellenza del paese della canzoncina per eccellenza, che ha vinto solo due volte (Gigliola Cinguetti con Non ho l'età in 1964 e Totò Cotugno con Insieme: 1992 nel 1990), ma che ci ha sempre mandato i suoi cantanti migliori, da Claudio Villa e Domenico Modugno (Nel Blu dipinto di Blu, nel 1958, ma non ha vinto, come agli Oscar, dove spesso non vincono i migliori film) alla buonanima bagnarota la Mia Martini (tre volte). La mancanza dell'Italia diventa sempre più clamorosa. Bisogna chiedersi infatti perché il governo Berlusconi, noto anche per la simpatia verso la musica leggera e lo svago, non ne abbia fatto una priorità assoluta della sua politica estera. Come fanno i francesi con la Nato, gli inglesi con l'Euro e gli americani con Kyoto, l'Italia snobba l'Eurofestival. E ci rimette.
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