Il riuscito innesto in un bambino talassemico di due unità di sangue placentare, ottenute al momento del parto di due sue sorelline, ha suscitato concitate reazioni. Alcune sono di plauso per il brillante esempio di terapia cellulare; altre di critica per la selezione degli embrioni che ha portato alla nascita delle due sorelle sane e candidate per la donazione. Non sono poi mancate le polemiche contro la legge 40/2004 sulla fecondazione in vitro e contro lo stesso ministro della Salute che la difende. Questo insieme però rischia di confondere la realtà e di non tenere conto ragionevolmente di tutti i suoi fattori. Proviamo a identificare tre elementi che possono aiutare un giudizio sereno e argomentato.
Anzitutto, l'indubbio merito di chi è stato in grado di effettuare una terapia cellulare della talassemia ricorrendo all'espansione in laboratorio di cellule di tipo staminale presenti nel sangue placentare di due sorelle del piccolo paziente, senza provocare alcuna lesione né nelle neonate né nella madre. Ciò ha mostrato con inequivocabile lucidità che alcune cellule staminali non di tipo embrionale sono in grado di essere usate per curare malattie genetiche gravi. Di certo, noi sappiamo che con le cellule staminali della placenta è possibile già oggi curare malattie come la talassemia. Al contrario, sinora nessun paziente talassemico è mai stato curato con cellule staminali embrionali o derivate da esse. Non si può escludere che ciò avvenga in futuro, ma ostinarsi ad affermare che vietando la ricerca sulle staminali embrionali si priva della possibilità di una terapia cellulare i talassemici ed altri pazienti appare irragionevole. Perché distruggere embrioni umani per ricavare cellule staminali di tipo embrionale quando quelle ottenibili, senza danno ad alcuno, dal sangue cordonale o da tessuti dell'adulto - come il midollo osseo - possono essere usate per fruttuose ricerche e terapie?
Anche a detta dell'équipe che ha eseguito l'intervento, un risultato biologi camente e clinicamente identico sarebbe stato possibile pur se le sorelle fossero state concepite naturalmente e non in vitro. La raccolta e l'espansione del sangue placentare è indipendente dalla modalità con cui è stato concepito il neonato. La selezione degli embrioni che sono stati trasferiti nell'utero della madre ha solo aumentato la probabilità della nascita di un donatore HLA-compatibile con il fratello malato. Ma tale probabilità - che dipende dalla genetica del sistema HLA - è già di ca. il 19% tra i fratelli non gemelli omozigoti. Se si estende poi la ricerca alle unità di sangue placentare in biobanche di adeguate dimensioni (e ciò sarà possibile grazie al rapido sviluppo delle donazioni al momento del parto) la percentuale di successo sale considerevolmente. E invece per la nascita delle due sorelle del piccolo paziente sono stati selezionati tre embrioni su dodici: perché distruggere deliberatamente nove esseri umani all'inizio del loro sviluppo?
Un ultimo ma non meno importante elemento di giudizio. Ciò che è stato compito nella clinica di Istanbul va ben al di là della selezione degli embrioni "sani" da impiantare per la nascita e di quelli "malati" da eliminare (il che, pur moralmente inaccettabile, avvicina tuttavia questa procedura alla diagnosi prenatale e all'aborto dei feti affetti da malattie congenite). Gli embrioni selezionati, da cui sono nate le gemelle, non solo erano "geneticamente sani" (cioè non talassemici) ma erano anche esclusivamente quelli che presentavano un HLA compatibile con quello del fratello malato. In questa procedura, infatti, tra gli embrioni eliminati non figurano solo quelli "malati" ma anche quelli "sani" ma non candidabili come donatori a motivo della loro costituzione genetica. Se questa non è eugenetica, come possiamo chiamarla? È qui evidente un uso meramente strumentale della vita di un essere umano, la cui dignità ed il cui valore viene fatto unicamente risiedere in una particolare "qualità genetica" che lo fa servire ad fine terapeutico estrinseco ad esso. Su questo anche un filosofo "laico" come Kant avrebbe molto da obiettare.
Roberto Colombo, Avvenire 9 settembre 2004
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