L’Olanda rafforza il suo triste primato in fatto di pratica legale dell’eutanasia. Il 30 agosto 2004, infatti, un’allarmante notizia è stata diffusa - sia pur brevemente - dalla maggior parte dei quotidiani e dei telegiornali italiani: l’intesa fra la magistratura olandese e la clinica universitaria di Groningen, che autorizza un protocollo di sperimentazione volto ad estendere ai bambini sotto i dodici anni, e anche ai neonati, la pratica dell’eutanasia già regolata dalla legge dell’aprile 2002.
In questi giorni, in cui tutto il mondo rabbrividisce davanti al tragico spettacolo delle atrocità commesse dal terrorismo jihadista sugli innocenti, e in particolare sui bambini dell’Ossezia, perché non pensare anche a quelle violenze nascoste, ma non per questo meno rivoltanti, perpetrate da anni e in misura crescente nelle sale asettiche degli ospedali ai danni di chi non ha voce per far valere i propri diritti?
Il mondo occidentale, infiacchito da decenni di assuefazione al crimine legale dell’aborto procurato – un autentico massacro di vittime inermi – subisce ora in Olanda la sferzata dell’eutanasia infantile e neonatale, giustificandola con il “diritto” dei bambini ad avere, come i “grandi”, una morte indolore. Una “buona morte”, come ricorda eufemisticamente la stessa parola eutanasia.
Perché di questo si tratta: di proporre una morte valutata secondo criteri “di qualità”, come un prodotto qualsiasi. In Olanda la morte per eutanasia è quasi pubblicizzata, per indurre la convinzione che, poiché la morte è inevitabile, tanto vale costruirsela a piacimento, renderla meno sgradevole e soprattutto controllarne i modi e i tempi.
Ma qui si situa una prima importante anomalia: l’eutanasia è stata sostenuta, almeno dopo la fine della seconda guerra mondiale, come eutanasia su richiesta, cioè come eutanasia consensuale. In Olanda e in molti altri paesi i fautori dell’eutanasia hanno addirittura rivisitato la definizione del termine, precisando che oggetto di un disegno di legge può essere unicamente l’eutanasia propriamente detta, cioè quella richiesta con insistenza dal paziente in determinate condizioni di prostrazione e con prognosi certamente infausta.
Con ciò si voleva tra l’altro prendere “vistosamente” le distanze dall’eutanasia nazista, che corrispondeva a un’eugenetica di stato, sopprimendo anche senza consenso ed eventualmente con l’inganno i cittadini ritenuti di minor valore, come i disabili, i malati di mente, i malati gravi e i morenti. Tutti i movimenti pro-eutanasia insistono nel sottolineare come, al contrario, l’idea “democratica” di eutanasia riconosca la centralità dell’autonomia del paziente, il quale - ci ripetono come in un ritornello - deve poter decidere i tempi e i modi della propria morte.
Invece, i moralisti attenti e tutte le persone assennate comprendono che l’anticipazione volontaria della morte come mezzo per eliminare il dolore porta facilmente ad abusi ed estensioni, rivelando il suo vero volto: non un atto di pietà per il dolore insopportabile, ma un atto di insofferenza verso il sofferente, un atto di rifiuto verso chi ci ricorda con la sua agonia, la finitezza umana, un atto di pura violenza verso i deboli in quanto deboli. E oltretutto “costosi”.
Il risultato è che la distanza delle pratiche eutanasiche olandesi da quelle naziste si è annullata di colpo, e appaiono poco convincenti le “precauzioni” messe a punto dal “protocollo rigidissimo” di cui parla il responsabile della sezione pediatrica della clinica olandese, il dottor Eduard Verhagen, come la possibilità di perseguire il medico che ha compiuto l’eutanasia in modo non ortodosso e l’obbligo di ascoltare il parere di un altro medico indipendente, oltre ai tre previsti dalla legge del 2002.
Il dottor Verhagen ammette che, nel suo paese, l’eutanasia infantile è già un dato di fatto: “Ogni anno la dolce morte ‘libera dai dolori’ circa ottocento bambini olandesi. Di questi, continua Verhagen, ‘almeno una ventina hanno un'esistenza che è talmente terribile, insopportabile, disperata da far preferire la morte’” (Andrea Tarquini, Olanda, sì all’eutanasia sui bambini, “La Repubblica”, 31 agosto 2004). Trascurando per un attimo le possibilità di controllo del dolore e di vero accompagnamento alla morte di quei venti dall’esistenza tale “da far preferire la morte”, viene da chiedersi: perché dunque vengono uccisi gli altri 780 bambini? Chi davvero “preferisce” la loro morte?
Perché non si intraprende un serio lavoro di perfezionamento e promozione delle cure palliative, che già, dove correttamente applicate, hanno eliminato quasi totalmente le richieste di eutanasia? Perché, soprattutto, non ci si dispone ad accompagnare i morenti rispondendo alle loro reali richieste, ovvero il bisogno di senso, di sicurezza, di affetto e di pazienza che nessuna iniezione letale può dare? E’ proprio la mancanza di queste risposte a gettare nella disperazione chi già soffre, oltretutto in un contesto psicologico e culturale ove si avverte chiaro il “peso” che il sofferente costituisce per chi invece lo dovrebbe aiutare ad affrontare la prova.
La radice del male, in realtà, non risiede nelle modalità con cui l’eutanasia è eseguita o nelle estensioni della pratica oltre determinati confini, ma nella pratica stessa dell’eutanasia in quanto uccisione diretta e deliberata, cioè volontaria, di un essere umano innocente. Per questo nella Lettera Enciclica Evangelium Vitae, al n. 65, il Santo Padre Giovanni Paolo II non esista a definire l’eutanasia sempre e comunque un suicidio o un omicidio, che lede gravemente la dignità dell’essere umano e riduce l’uomo, vertice della Creazione e immagine del Creatore, ad un oggetto da costruire, esaminare e scartare quando non serve più.
Un’ultima nota. Mentre all’estero la notizia è passata sotto pressoché completo silenzio, rimanendo assente dalle testate giornalistiche, in Italia ha suscitato molteplici reazioni, quasi unanimemente negative, per poi ritornare nell’ombra. Forse qualcuno sperava in un’accoglienza diversa, magari in un’opinione pubblica divisa, che potesse servire validamente la causa pro-eutanasia?
Claudia Navarini
1 commento:
Ho pensato di linkare questo post, nell'economia di un commento al caso Welby.
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