Il suicidio di un giovane ventenne in uno dei nuovi bar di Milano (leggi tabarino) ha provocato una «lettera milanese» in cui si disserta sui locali ultramoderni e su quelli ottocenteschi della capitale lombarda.
Strana
coincidenza. Mentre il giovane si uccideva nel nuovo locale di gran lusso (pare
sia costato 38 milioni pochi mesi fa, e perciò ne costerebbe oggi 50), si
iniziavano poco distante i lavori di demolizione di uno dei più vecchi bar
milanesi, situato in un palazzo di stile veneziano a Largo San Babila, che
chiunque sia stato a Milano ricorda.
Cinquant’anni,
e anche meno, son bastati a sconvolgere i cervelli a tal segno che, al posto
dell’indaffaratissimo personaggio frequentatore del vecchio bar di San Babila,
ecco sulla scena il perdigiorno novecento, già stanco della vita a vent’anni,
che, dopo una telefonata clandestina, si tira un colpo di rivoltella alla
tempia. Prima aveva provato l’arma per assicurarsi che funzionava. Stile
Novecento!
Che
sia scomparso, con la demolizione del bar vecchio stile, anche quel bontempone
trafelato che pigliava l’aperitivo in piedi, tra una corsa e l’altra? — si domanda
preoccupatissimo il brillante cronista. E che, mentre il frequentatore
dell’Ottocento e passa non aveva tempo da perdere, e ci teneva a mostrarlo, ce
n’è tanto oggi di tempo da buttar via che ci si può togliere persino la vita
per perderlo tutto di un colpo? Sta proprio tutta qui la differenza?
«Non
bisogna essere pessimisti — commenta Orio — ma qualcosa se n’è andato che
bisogna sostituire con qualcosa di simile».
Ecco,
perfettamente; se n’è andata la fede nella vita, e non in questa vita soltanto.
Niente, però, da sostituire; bisogna restituirla, la fede, semplicemente. E non
è cosa da poco.
Quel
personaggio che s’incontrava un po’ dappertutto, che non aveva tempo da
perdere, che pigliava l’aperitivo in piedi, trafelato, e mentre il barista
glielo mesceva trovava però due minuti per telefonare a casa; quel personaggio
non è del tutto scomparso — grazie a Dio — anche se è ignorato dai più. È della
mia generazione e, direi, della mia razza, tanto la generazione d’oggi sembra
staccata dal nostro stesso sangue.
Oh,
non è questo il solito nostalgico richiamo del tempo che fu, che si ripete
sistematicamente di padre in figlio, fino a diventar di maniera! Questo
rimpianto nasce dal profondo, s’inquadra in un mondo spirituale che gli uomini
hanno rovesciato con gioia sadica, giorno per giorno, ora per ora, fino a
sentire intorno a sé gelo e disperazione. L’aperitivo oggi si gusta seduti su
certi trespoli da cicogne o negli angoli più remoti dove tutto riluce —
specchi, tavoli, pareti, cristalli — fuorché i volti pallidi, ma non pensosi,
fuorché gli occhi insonni di ben altra insonnia che fu per noi quella del
fecondo studio. In quegli occhi già lontani, in quegli occhi senza sguardo che
riveli una vita interiore, l’anima non c’è più, l’anima è morta. Ed allora è
naturale che il corpo non le sopravviva. I fantasmi non hanno diritto di
cittadinanza.
Taluno
di quei personaggi «principio di secolo» ci accade ancora d’incontrarli, e non
hanno più fretta perché la... verde età più non consente.
E
sai dove? Solo davanti al Santissimo. Sono d’un’altra razza, vero? Di quelli
che anche a vent’anni (quando non s’aveva la fortuna di possedere una
cappelletta in famiglia) il primo saluto, voltato l’angolo, lo portavano in
Chiesa.
—
Buon giorno, Gesù!
E
Gesù rispondeva — oh, se rispondeva!
-
Ce ne accorgevamo appena fuori di Chiesa, che la strada s’illuminava tutta,
anche col vento e col gelo, e i piedi intirizziti sembrava che avessero le ali.
—
Buon giorno, Gesù!
Non
s’aveva proprio tempo di pensare alla morte allora, perché già pensavamo alla
Vita.
Benigno
26
ottobre 1947
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