domenica, giugno 01, 2025

Fuga dalla vita

Il suicidio di un giovane ventenne in uno dei nuovi bar di Milano (leggi tabarino) ha provocato una «lettera milanese» in cui si disserta sui locali ultramoderni e su quelli ottocenteschi della capitale lombarda.

Strana coincidenza. Mentre il giovane si uccideva nel nuovo locale di gran lusso (pare sia costato 38 milioni pochi mesi fa, e perciò ne costerebbe oggi 50), si iniziavano poco distante i lavori di demolizione di uno dei più vecchi bar milanesi, situato in un palazzo di stile veneziano a Largo San Babila, che chiunque sia stato a Milano ricorda.

Cinquant’anni, e anche meno, son bastati a sconvolgere i cervelli a tal segno che, al posto dell’indaffaratissimo personaggio frequentatore del vecchio bar di San Babila, ecco sulla scena il perdigiorno novecento, già stanco della vita a vent’anni, che, dopo una telefonata clandestina, si tira un colpo di rivoltella alla tempia. Prima aveva provato l’arma per assicurarsi che funzionava. Stile Novecento!

Che sia scomparso, con la demolizione del bar vecchio stile, anche quel bontempone trafelato che pigliava l’aperitivo in piedi, tra una corsa e l’altra? — si domanda preoccupatissimo il brillante cronista. E che, mentre il frequentatore dell’Ottocento e passa non aveva tempo da perdere, e ci teneva a mostrarlo, ce n’è tanto oggi di tempo da buttar via che ci si può togliere persino la vita per perderlo tutto di un colpo? Sta proprio tutta qui la differenza?

«Non bisogna essere pessimisti — commenta Orio — ma qualcosa se n’è andato che bisogna sostituire con qualcosa di simile».

Ecco, perfettamente; se n’è andata la fede nella vita, e non in questa vita soltanto. Niente, però, da sostituire; bisogna restituirla, la fede, semplicemente. E non è cosa da poco.

Quel personaggio che s’incontrava un po’ dappertutto, che non aveva tempo da perdere, che pigliava l’aperitivo in piedi, trafelato, e mentre il barista glielo mesceva trovava però due minuti per telefonare a casa; quel personaggio non è del tutto scomparso — grazie a Dio — anche se è ignorato dai più. È della mia generazione e, direi, della mia razza, tanto la generazione d’oggi sembra staccata dal nostro stesso sangue.

Oh, non è questo il solito nostalgico richiamo del tempo che fu, che si ripete sistematicamente di padre in figlio, fino a diventar di maniera! Questo rimpianto nasce dal profondo, s’inquadra in un mondo spirituale che gli uomini hanno rovesciato con gioia sadica, giorno per giorno, ora per ora, fino a sentire intorno a sé gelo e disperazione. L’aperitivo oggi si gusta seduti su certi trespoli da cicogne o negli angoli più remoti dove tutto riluce — specchi, tavoli, pareti, cristalli — fuorché i volti pallidi, ma non pensosi, fuorché gli occhi insonni di ben altra insonnia che fu per noi quella del fecondo studio. In quegli occhi già lontani, in quegli occhi senza sguardo che riveli una vita interiore, l’anima non c’è più, l’anima è morta. Ed allora è naturale che il corpo non le sopravviva. I fantasmi non hanno diritto di cittadinanza.

Taluno di quei personaggi «principio di secolo» ci accade ancora d’incontrarli, e non hanno più fretta perché la... verde età più non consente.

E sai dove? Solo davanti al Santissimo. Sono d’un’altra razza, vero? Di quelli che anche a vent’anni (quando non s’aveva la fortuna di possedere una cappelletta in famiglia) il primo saluto, voltato l’angolo, lo portavano in Chiesa.

— Buon giorno, Gesù!

E Gesù rispondeva — oh, se rispondeva!

- Ce ne accorgevamo appena fuori di Chiesa, che la strada s’illuminava tutta, anche col vento e col gelo, e i piedi intirizziti sembrava che avessero le ali.

— Buon giorno, Gesù!

Non s’aveva proprio tempo di pensare alla morte allora, perché già pensavamo alla Vita.

 

Benigno

26 ottobre 1947

 

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