venerdì, ottobre 31, 2025

On the eve of St John Henry Newman being proclaimed Doctor of the Church (tomorrow), I’m delighted to have a chapter (“Newman’s engagement with Locke’s epistemology”) in a new volume, titled "John Henry Newman the educator. His formation, philosophy and lecacy". Details: https://www.gracewing.co.uk/page175.html




giovedì, ottobre 30, 2025

In cammino verso l’unità interiore

Non deve sorprendere se Papa Leone XVI ha scelto il giubileo del mondo educativo per proclamare san John Henry Newman Dottore della Chiesa. Newman ha incarnato con coerenza la vocazione educativa come servizio alla verità e alla formazione integrale della persona. Egli fu teologo e pensatore profondo, celebre predicatore, apologeta del cattolicesimo nell’Inghilterra vittoriana, ma anche poeta, romanziere, filosofo. Nei suoi diari scriveva: «Dall’inizio alla fine, l’istruzione, nel senso della parola, è stata il mio ambito». Tutta la sua vita, infatti, può essere letta come un lungo impegno nell’arte di educare.

Metà della sua esistenza si svolse ad Oxford, il cuore pulsante della cultura inglese, dove fu prima studente, e poi tutor e guida spirituale per molti giovani. Dopo la conversione al cattolicesimo, continuò a dedicarsi con passione alla formazione, fondando due istituzioni destinate a lasciare il segno: l’Università Cattolica d’Irlanda, inaugurata a Dublino negli anni Cinquanta dell’Ottocento, e la Scuola dell’Oratorio a Birmingham. Entrambi i progetti nascevano da una medesima convinzione: l’educazione non è soltanto trasmissione di conoscenze ma crescita armonica dell’intelligenza, del carattere e della fede.

Tra le figure che contribuirono a dare prestigio all’Università Cattolica di Dublino, spicca il nome del poeta gesuita Gerard Manley Hopkins, che vi insegnò greco e latino negli anni Ottanta dell’Ottocento. La sua sensibilità religiosa e la sua visione artistica, profondamente segnata dall’estetica dell’incarnazione e dall’amore per la bellezza del creato, riflettono pienamente lo spirito educativo di Newman, dove fede e cultura si illuminano a vicenda. Tra gli studenti che passarono per le aule della stessa università va ricordato James Joyce, che nei suoi scritti avrebbe lasciato tracce sottili ma riconoscibili dell’ambiente intellettuale e religioso plasmato dal prelato inglese e dai suoi discepoli.

Dopo la sua esperienza a Dublino, Newman dedicò le ultime energie alla fondazione della Scuola dell’Oratorio di Birmingham, destinata a incarnare concretamente i suoi ideali educativi. Nata come scuola cattolica di alto profilo, la Oratory School univa formazione intellettuale e crescita morale in un ambiente familiare e spiritualmente vivo. Tra i suoi allievi più noti figurò Hilaire Belloc, scrittore e apologeta cattolico, che avrebbe diffuso nel mondo la visione culturale e religiosa ispirata da Newman. Anche J.R.R. Tolkien fu legato all’Oratorio di Birmingham: pur non avendovi studiato, fu educato da padre Francis Xavier Morgan, oratoriano e discepolo della prima generazione newmaniana.

Nel suo capolavoro L’Idea di Università, concepito per dare un fondamento teorico all’Università Cattolica d’Irlanda e oggi considerato un classico dell’educazione, Newman descrive la vera università come il luogo dove l’intelletto si apre alla totalità del sapere e dove la persona viene accompagnata verso la maturità umana e spirituale. Il cuore dell’educazione risiede nel rapporto vivo tra insegnante e studente, nella influenza personale che si esercita più con l’esempio che con le parole. L’università non può limitarsi alle lezioni o alla ricerca scientifica: ha bisogno anche di comunità, di relazioni, di quella vita comune che egli aveva sperimentato nei collegi di Oxford e che cercò di ricreare a Dublino. L’insegnante, secondo Newman, deve essere non solo un professore, ma anche un consigliere, una guida. L’educatore autentico non impone, ma accompagna.

Questa intuizione, profondamente evangelica, nasceva in Newman da una fiducia nella grazia che opera nella libertà di ogni persona. La fede e la ragione, per lui, non si oppongono: entrambe sono vie alla verità. Così l’educazione diventa un cammino verso l’unità interiore, dove la mente e il cuore si incontrano nella luce di Dio. In un’epoca segnata dal predominio dell’utilitarismo e dal culto dell’efficienza, Newman difese con forza l’idea di una formazione “liberale”, cioè libera: un’educazione che non mira soltanto al successo, ma alla sapienza. «Mentre l’utile non è sempre bene, il bene è sempre utile», scriveva, capovolgendo la logica del profitto che già allora dominava l’istruzione.

Per questo la sua riflessione conserva un’attualità sorprendente. In un mondo che misura l’educazione in termini di competenze e risultati, Newman ci ricorda che educare significa innanzitutto far crescere l’uomo interiore, suscitare il gusto per la verità, la capacità di giudizio, la forza morale. Nella sua università e nella sua scuola egli sognava comunità dove il sapere fosse vissuto come servizio, dove la conoscenza conducesse alla carità. «Il collegio – scriveva – è il tempio dei nostri affetti migliori, un sostegno per la mente e per l’anima stanche del mondo».

L’educazione, dunque, per Newman è una forma di carità intellettuale: un atto d’amore che unisce maestro e discepolo nella ricerca condivisa della verità. È una visione profondamente cristiana, in cui la luce della fede illumina ogni aspetto della vita culturale e sociale. Da questa prospettiva, comprendiamo perché Papa Leone abbia voluto legare la proclamazione di Newman come Dottore della Chiesa al giubileo degli educatori: il suo insegnamento non riguarda solo l’università ma ogni ambiente in cui si formano le coscienze.

Oggi, più che mai, il suo messaggio interpella genitori, insegnanti, sacerdoti e quanti hanno a cuore la crescita delle nuove generazioni. Newman ci invita a credere nella forza della relazione educativa, nel valore della testimonianza personale, nella pazienza di chi sa attendere i frutti dello Spirito. Egli ci insegna che l’educazione non è un mestiere, ma una vocazione; non un compito amministrativo ma un atto di fede nella possibilità di ogni persona di diventare ciò che Dio sogna per lei.

Così la sua figura, al tempo stesso classica e contemporanea, ci appare come quella di un vero “dottore della vita cristiana”: un maestro che continua a parlare a chiunque desideri educare e lasciarsi educare alla libertà dei figli di Dio.

La proclamazione di John Henry Newman come Dottore della Chiesa, proprio nel contesto del Giubileo degli educatori, appare come un gesto di grande coerenza e, al tempo stesso, di profonda attualità. Papa Leone ha voluto così riconoscere non soltanto la statura teologica e spirituale del cardinale inglese ma anche la portata culturale della sua riflessione sull’educazione. Newman, infatti, non fu solo un pensatore della fede ma anche un interprete acuto della condizione contemporanea, capace di leggere le trasformazioni del sapere e dell’università in un’epoca di crisi di senso.

Attribuirgli oggi il titolo di Dottore della Chiesa significa riconoscere il valore profetico del suo pensiero: un pensiero che, pur nato nel cuore del XIX secolo, parla con lucidità al nostro tempo, segnato da frammentazione e tecnicismo. Newman aveva compreso che l’educazione, se vuole essere autentica, deve tenere insieme conoscenza e sapienza, ragione e coscienza, mente e cuore. Il suo ideale non era la produzione di specialisti, ma la formazione di persone intere, capaci di giudizio, di interiorità, di responsabilità.

In questa prospettiva, l’educatore non è un semplice trasmettitore di contenuti, ma un testimone. La sua autorità nasce dalla coerenza della vita, dalla forza dell’esempio, dalla capacità di far crescere la libertà dell’altro. Newman aveva intuito che l’influenza personale è la via privilegiata attraverso cui si comunica la verità. Nessun metodo, nessuna tecnologia, nessuna riforma istituzionale può sostituire l’incontro tra due persone che cercano insieme la luce della verità.

Il riconoscimento pontificio invita dunque a riscoprire Newman come maestro di pensiero e di vita, capace di unire profondità teologica e sensibilità educativa, spiritualità e cultura. La sua eredità intellettuale ci richiama alla responsabilità di coltivare un sapere che non separi la mente dalla coscienza, ma che le tenga in dialogo costante, nell’orizzonte di una verità che si fa persona.

Nell’epoca della conoscenza immediata e della comunicazione frammentata, la lezione di Newman rimane di sorprendente attualità: solo l’educazione che nasce dal rapporto vivo tra maestri e discepoli può trasformarsi in cultura viva e diventare fermento di umanità.


L'Osservatore Romano, 30 ottobre 2025

domenica, ottobre 26, 2025

Una madre

M’avevano detto che era vedova di guerra e in guerra aveva perduto l’unico figlio; che da principio aveva gridato, maledetta la vita, ma si era poi rassegnata e trascorreva le sue giornate tra il lavoro e l’Altare.

Nel vicolo dove abita, il sole arriva a stento e se ne va presto, sì che i suoi poveri occhi stanchi di guardare il male, sciupati dal pianto, si dilatano sul cucito.

Una scala stretta, ripida, umida: un senso di gelo, di sordido. Se non fosse la statuetta della Madonna issata sulle rampe, dove una mano pia — la sua? — dispone in un vasetto di coccio le rose di maggio, mi sentirei stringere il cuore. S’ha un bel dire che la miseria è santa...

Al rumore dei passi la Signora Bianca solleva il capo d’argento e mi guarda di sopra agli occhiali. Le spiego il motivo della visita.

— Ah, lei è giornalista?

Mi pare che nella domanda affiori un senso di diffidenza. Ci sono abituato: incerti del mestiere ciò che troppi faciloni e superficiali riducono a pettegolezzo di comari.

— Capisco: anche mio figlio ambiva a scrivere sui giornali; anzi, aveva mandato dall’Africa qualche corrispondenza ai quotidiani. Per me non è giornalista chi offende la verità, ecco, come purtroppo avviene oggi...

— D’accordo, signora: vuole dunque dirmi cosa ne pensa?...

— È semplice. Troppa gente vuole occuparsi e preoccuparsi dell’uomo, e in particolare del giovane: chi lo vuole educare di qua, chi lo vuole preparare di là: la scuola, la palestra, l’Esercito, il capo ufficio o officina, il Partito (bella roba!). Ce lo contendono, lo strappano alla famiglia — si può dire — che s’è staccato appena dal seno materno, coi bei risultati che vediamo tutti. E ognuno con uno scopo: servirsene. Farebbero molto meglio, invece, a lasciarlo di più alle madri, specialmente quando sono in grado di farlo.

— Ma lei comprende, signora, che non tutte...

— L’ho detto: e del resto, meglio una madre ignorante che un professore maligno; voglio dire, non in grazia di Dio. Perché han voglia a rigirarla: c’è solo un uomo capace di ammaestrare: il sacerdote di Cristo.

— D’altra parte, nella famiglia il giovane non può trovar tutto.

— Quel ch’è fuori delle pareti domestiche e cristiane è marcio, creda a me. Sa cosa Le dico? Sarà fissazione la mia, ma sono convinta che quanto più l’uomo s’allontana dalla madre, tanto più rapidamente cammina verso il male, la corruzione, l’odio, la guerra. Le dica, le dica queste verità sul Suo giornale: e Lei, che è anche uomo di governo, le commenti anche, da par Suo. Io non so farlo, ma Le assicuro che l’istinto d’una madre è infallibile. È inutile che «grandi» e piccoli si radunino per cercare di ridare un volto all’umanità. Abbiamo accumulato nei cuori secoli di menzogne di egoismi di colpe. Cosa vuol che esca da un consiglio di volpi? Una strage di galline, vero? Lei mi capisce. …

Commenti? Ci mancherebbe altro! Mi allontano con due pupille sbarrate dentro, mentre la Signora Bianca mi segue con un triste sorriso, guardandomi di sopra agli occhiali.

Un trattato di filosofia non mi farebbe meditare così.

Benigno

30 maggio 1948

domenica, ottobre 19, 2025

L'appuntamento della carità

Torre di Pordenone, aprile 1948

Egregio e caro dottor P.,        
oso rivolgermi a Lei per una grande carità. Ho una parrocchia operaia disgraziata dove mi ritrovo dal maggio 1947. L’80 per cento degli uomini e dei giovani non assiste alla S. Messa festiva e il 50 per cento delle donne! È una desolazione. Mi sento accasciato. Non vorrei che venisse giorno festivo. La massima parte degli operai è comunista. Dal 1903 al 1925 sono stato parroco qui e ci sono ritornato perché invitato da tutti.

Nel primo periodo ho istituito per gli operai una Unione Coop. di consumo, una Cassa Operaia, un Molino, un Forno: cooperative tuttora fiorenti; poi l’Asilo e scuola di lavoro per ragazze, un Sindacato Cotonieri, una biblioteca circolante; ho costruito un centinaio di case operaie di quattro e sei vani l’una con adiacenza di 600 o 1000 metri: sono così cento e più famiglie divenute piccole proprietarie; mi sono occupato e mi occupo di collocamento in patria e all’estero. Ho dato tutto, anche il mio modesto patrimonio lasciatomi dai genitori, casa, campi e prati. Eppure si vuole essere comunisti. Sono desolato; ho 67 anni, ma sento venir meno le forze, non già per il lavoro, ma per le amarezze. Se avessi saputo di trovare la vecchia parrocchia in questa situazione, non sarei ritornato.

Concludendo: vorrei offrire il Santo Vangelo a tutte le famiglie operaie. Sono circa un migliaio. Ho visto edizioni diverse: Società S. Paolo, Salani, Servi della Sapienza ecc. La migliore è quella Vaticana perché porta anche gli Atti degli Apostoli e preghiere. Sono certo che il libro verrebbe gradito e letto. Farei la festa del Vangelo con triduo... Ma come far fronte a tanta spesa?

Si degni Lei d’intercedere grazie presso le Opere di Religione o presso la S. Girolamo o qualche benefattore. Io posso concorrere con la congrua che incasserò in questi giorni: circa 15.000 lire. Per vivere si fa come si può: ci sono tanti modi per campare.

Mi faccia questa carità. Lei è tanto stimato e ha tante conoscenze.           

Obbl.mo

sac. GIUSEPPE LOSER

 

Chissà cosa dirà, reverendo, a veder messe in piazza tante spirituali apprensioni. Ma il dott. P. ci ha passato la Sua emersa fra una montagna di lettere che minacciano di soffocarlo e noi abbiamo pensato di rivolgerci al buon cuore di chi legge affinché possa prendere contatti diretti con Lei (Enti, Istituti, Opere — particolarmente Mons. Baldelli, Presidente della Pontificia Commissione Assistenza e dell’O.N.A.R.M.O. — nonché Case editrici e privati) e cerchi di aiutarla a ritrovare il suo gregge. Perché dalla sua lettera trapela una sola preoccupazione, un’ansia sola: riportare il gregge all’ovile. Della diserzione tanto soffrì il Buon Pastore che per una pecorella smarrita piantò in asso tutte le altre; figuriamoci Lei, Padre carissimo! Ma non è il solo, creda, a donare tutto per ricevere solo amarezze. Nei duemila anni della sua vita la Chiesa non ha fatto che profondere tesori spirituali e materiali. Se ne potrebbe ricavare un trattato che sarebbe il più voluminoso fino ad oggi apparso: il Trattato dell’ingratitudine. Basterebbe darne un... assaggio: il pontificato del Vicario regnante. Se gli uomini sapessero! Se n’è avuta una pallida idea durante la recente... ferina campagna elettorale.

A proposito, che ne pensano dei risultati quelli del suo gregge che disertarono le vie del Signore? Sarà bene che meditino le parole del Cristo: «Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno giammai contro di essa». Padronissimi dunque di schierarsi con Satana; ma si ricordino: Satana è un capitano che conosce solo sconfitte o vittorie... di Pirro. Mi faccia conoscere, reverendo, l’esito di questo appuntamento.

dev. BENIGNO

23 maggio 1948

 


domenica, ottobre 12, 2025

Appuntamento della carità

Caro A. B., reduce da Mauthausen

« Non è volontà del Signore che tu nasconda agli occhi degli uomini il bene che fai, temendo di essere veduto. Se temi di avere spettatori, non avrai imitatori. Devi dunque lasciare che vedano; ma non devi operare allo scopo di essere veduto. Non in questo deve consistere il colmo della tua contentezza, non in questo la tua supremazia gioia. Sentendoti lodare, disprezza te stesso e lascia che la lode risalga a colui che ti dà la grazia per farlo. Da te viene il far male, da Dio il far bene ».

Se io dunque mi permisi di lodare il tuo gesto quando mandasti al giornale il tuo obolo in occasione del S. Natale, perché fosse devoluto a favore di un tedesco bisognoso, con l’intenzione di perdonare, non solo, ma aiutare chi, forse, ti fece del male (sono un reduce anch’io e ti comprendo), non pigliartela con me, ma con Sant’Agostino. Il mirabile passo sopra citato si trova a pagina 386-387 di « Vita Cristiana » — Società Editrice Internazionale.

Tu dici che ho fatto male perché non si deve mai lodare (il gesto o la persona? e quest’ultimo caso, chi ti riconosce attraverso la sigla?) e che in fine dei conti tante altre persone, sia nel chiostro sia nella vita civile, cristianamente fanno di più senza che nessuno lo sappia. A chi lo racconti, amico mio? E chi andrebbe mai a sollevare i veli della carità alle soglie dei monasteri o di certe case cristiane? C’è odore di santità. Io so, anche se siamo in pochi a crederlo. Ma non senti che a quelle soglie le belve scatenate fanno ressa, azzannando sbarre e gelosie?

Non sai che per un disgraziato, che la stessa Chiesa ha affidato alla giustizia, hanno tentato di trascinare nel fango la stessa Sede di Pietro, lo stesso Vicario di Cristo, quasi non bastasse aver ereditato l’odio dei farisei che seminano a piene mani nei cuori dei pavidi, degli ingenui, degli indifferenti e — diciamolo pure — di quanti non hanno una fede incrollabile, una coscienza solida?

Eh, no, amico mio, non bisogna nascondere gesti come i tuoi, specie se sublimati dall’anonimato, « poiché quale augurio si può fare agli uomini migliore di questo, che trovino simpatiche le virtù che debbono imitare? Piuttosto rettifica le lodi umane, riferendo tutto a gloria di Dio, dal quale ti viene ogni cosa che in te si loda senz’ab­baglio del lodatore ».

È sempre un atleta di Cristo che parla e che mi prega di concludere per tua tranquillità:

« Per il virtuoso è gran virtù disprezzare la gloria; perché quel disprezzo si concepisce alla presenza di Dio, senza lasciarlo trapelare allo sguardo degli uomini. Checché egli faccia dinanzi agli occhi degli uomini per mostrare il suo disprezzo della gloria, qualora si pensi che lo faccia per riscuotere maggior lode, cioè maggior gloria, non gli resta più alcun mezzo per far vedere ai sospettanti che egli è ben diverso da quello che si sospetta di lui. Ma chi non cura giudizi di lodatori, non cura nemmeno sospetti temerari ».

Ora sai che pensare nel caso che qualche sospettante ci fosse.

Mentre per le strade infuria la bufera, è bello fare di quest’angolo un’oasi di bontà da cui aliti ogni tanto un profumo di gigli.

BENIGNO

N. B. — L’obolo precedente e questi 25 marchi sono stati rimessi a Don Carlo Boyer: P. C. A., Piazza Benedetto Cairoli, 117, Roma.

D. Lo. C. (Palazzo Adriano) — Lei sfonda le porte aperte, amico mio. Non è vero che per la Chiesa esistono soltanto diritti dei genitori e doveri dei figli; è vero invece che i doveri dei genitori precedono quelli dei figli. E se lei ha sentito sacerdoti interpretare il IV comandamento in senso... reazionario, io posso affermare — e far nomi — che le mie orecchie rintronano ancora degli ammonimenti gridati dai pulpiti a genitori incoscienti. Riguardo al matrimonio, non è un preciso dovere (e diritto!) dei genitori aprire gli occhi a tanti ingenui che confondono l’Amore con la passione che accieca, e si preparano troppo spesso una vita d’inferno? Questo ha voluto, mi pare, considerare il nostro Coluccio, senza escludere che nel caso Ciaravella i responsabili dell’efferatezza siano da ricercarsi vicino e lontano.

Quanto a quelle tali famiglie cui ella accenna, sono cristiane soltanto di nome; se l’amore è santo davvero, per la Chiesa non esistono differenze sociali e non si è mai sognata di ammonire il figlio del professionista che sposa la figlia dell’operaio. Quando la donna è onesta, l’operaia vale la principessa, anzi, vale di più, assai di più se la condotta di costei... lascia a desiderare.

M. F., Ospedale al Mare (Venezia) — I cinque abbonamenti offerti da Gennaro Silveri ad altrettanti tubercolotici, in memoria del figliuolo, erano — ahimè! — esauriti prima dell’arrivo. Un’anima buona, un padre, offre tuttavia a lei un abbonamento in memoria della figliuola. Spero che l’esempio valga a scuotere tutti quei dormienti che possono praticare la carità di una sana lettura a chi si macera nell’inerzia forzata, guadagnando suffragi alle anime dei loro cari.

E ricordi Agostino: « Signore, mettimi nella fornace della tribolazione in modo che il vaso ne venga cotto e non rotto ».

BENIGNO

9 maggio 1948

domenica, ottobre 05, 2025

Appuntamento della carità

Al Sig. Direttore de « L’Osservatore Romano della Domenica » ricordo che l’arrivo del settimanale era per mio figlio una festa. Se lo divorava letteralmente. La « Poesia d’angolo » – il « Crivello » – « Legittima difesa », i commenti del Vangelo, le « ultime » vaticane, il bel paginone denso di commoventi racconti, di succose interviste, di interessanti foto, formavano il suo più gustoso passatempo, la sua gioia più pura: sì, pura, perché mai una nota stonata vi colse con la sua squisita sensibilità acuita dal male.

Una volta che un disguido (o un furtarello?) lo privarono della preziosa lettura, mi guardò con i dolci occhi pieni di una muta preghiera. Capii. Fuori infuriava il maltempo. M’intabarrai e feci per uscire. «Perdonami, babbo — disse — ma Puf... sai... m’aveva promesso... In questo numero dev’esserci di sicuro la sua risposta per le rime... ».

Gli aveva mandato pochi versi a Puf e non disperava di vederli pubblicati perché... sa... era un poeta — c’è da vergognarsi forse? — un poeta che se non aveva ancora trovato la forma d’arte per tradurre quel che gli premeva dentro lo era certo nell’anima innamorata, nella bontà indulgente, nel desiderio di fanciullo: un poeta. Le assicuro, Sig. Direttore, che avrebbe un giorno trovato la sua espressione e per il quale — chissà! — Ella stessa avrebbe forse fatto eccezione alla dura regola di non pubblicare versi.

Tornai quel giorno dal più vicino centro col giornale che egli accolse come un grande amico. La risposta di Puf c’era, ma si schermiva e... differiva la sospirata pubblicazione. Rimase un po’ male, lì per lì, ma poi si riprese subito e... « Sarà per un’altra volta — disse — certo Puf non sa che io ho fretta e non conviene dirglielo... La Poesia non vive di carità, ma la pratica ».

Capiva — il mio povero ragazzo — che di vita non ne aveva di spendere e la sete di bellezza che lo consumava la saziò tutta in Cristo, ch’è la più alta Poesia elargita agli uomini dalla divina misericordia.

Può quindi comprendere, Sig. Direttore, con quale trepido cuore io offra a nome del mio povero figliuolo morto cinque abbonamenti che vorrà destinare ad altrettanti tubercolosi...

GENNARO SILVERI

Che ve ne pare? Non sarà il caso di raccogliere un giorno tutti questi « appuntamenti » in un volumetto?

Vogliamo intanto credere che la lettera del Silveri ispiri i buoni. La carità è una pianta, sempre più rara, ma siamo fermamente convinti che fiorirà sempre sulla terra finché vi palpiti un cuore d’uomo, quell’uomo di cui il Verbo assunse la natura.

BENIGNO

4 aprile 1948