Da Il Riformista del 25 ottobre.
Il pranzo del presidente del Consiglio Berlusconi coi neo-cardinali italiani in cui il premier, vantando i risultati del voto della Camera sul divorzio, avrebbe sostenuto che «il matrimonio è una cosa sacra» segna la solenne affermazione di una nuova soggettività politica, il «clericalismo ateo». Era certo un'anomalia, rispetto agli altri sistemi politici europei, anche la regola passata per cui nella Dc i dirigenti politici in situazione familiare «irregolare» non potessero ambire alle cariche più elevate (per ultimo ne fu colpito Silvio Lega, a inizio anni '90). Ma dietro quella convenzione sbagliata si nascondeva comunque un'intuizione giusta: come può essere credibile nel proporre norme obbliganti per gli altri chi non testimonia liberamente quei valori nelle proprie scelte personali? Il proibizionismo legislativo può essere più o meno giusto, ma non può credibilmente accompagnarsi a comportamenti personali di segno opposto. Sta qui il vulnus profondo che introduce il «clericalismo ateo» nel rapporto tra coscienza civile e coscienza religiosa. Berlusconi non è il Gabrio Lombardi del referendum sul divorzio né il Carlo Casini di quello sull'aborto. Qualche ecclesiastico molto pragmatico potrebbe certo replicare che, pur moralmente criticabile rispetto alla coerenza di Lombardi e Casini, il clericalismo ateo porta però dei risultati positivi. E' però un'illusione ottica: sul medio periodo si tratta di una tigre di carta, non sposta nulla nel paese reale che non può essere convinto da una schizofrenia di tal genere e prima o poi in democrazia i voti si contano. La logica concordataria di vertice con governanti autoritari (a cui la Chiesa ricorreva anche per ridurre i danni) era un'altra cosa: alla fine i cittadini non votavano. Nessuna spregiudicatezza lobbystica di vertice in una società democratica può affermarsi sul lungo periodo contro il senso comune dei cittadini, anche di quelli cattolici. La dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa ha un inizio chiarissimo che oggi è consapevolezza diffusa: «Nell'epoca attuale gli uomini divengono sempre più consapevoli della dignità della persona umana e cresce il numero di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà, guidati dalla coscienza del dovere e non oppressi da misure coercitive». E ancor prima Jacques Maritain ne L'Uomo e lo Stato, a partire da alcune citazioni modernissime di San Tommaso, aveva posto le premesse di quel nuovo atteggiamento, sottolineando che la cura del bene comune in una società democratica porta con sé «da un lato un rispetto particolare per il mondo interiore e la coscienza del soggetto umano, e dall'altro una cura particolare di non imporsi, con forza di legge, regole troppo pesanti per la capacità morale di larghi gruppi della popolazione».
Questa è la «saggezza politica del legislatore» che tutto può fare tranne imporre agli altri ciò che lui in prima persona non è in grado di decidere. L'autorità politica è credibile nell'indirizzare verso il bene comune se lo fa «non in forma meccanica o dispotica, ma prima di tutto come forza morale che si appoggia sulla libertà e sulla coscienza del dovere e del compito assunto», come ricorda un altro documento conciliare, la Gaudium et Spes che invita poi specificamente i cattolici impegnati in politica ad avere «attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero», assumendo però «la propria responsabilità» senza richiedere ai pastori la «soluzione concreta» ai vari problemi. Ma che cosa si può sensatamente opporre oggi in positivo al clericalismo ateo, per far capire sin d'ora che si tratta di una tigre di carta? L'Ulivo, al di là delle recriminazioni, rischia di avere simultaneamente due reazioni entrambe sbagliate e subalterne: da un lato tra i cattolici voti in dissenso a supporto del clericalismo ateo (nel peggiore dei casi solo per la preoccupazione di essere additato come cattolico incoerente, nel migliore perché espressione di generazioni anziane che non hanno colto la reale profondità di alcuni mutamenti culturali), dall'altro tra i laici fughe in avanti personali di cultura radicale, scindendo libertà e responsabilità. L'Ulivo dovrebbe anche essere più spesso, in modo regolato, incontro tra laici non laicisti e cattolici non clericali fino a renderli indistinguibili nel loro ruolo di legislatori perché in grado di proporre sintesi condivise e di alto profilo. Finché non ci arriviamo in modo sistematico il clericalismo ateo può almeno sul breve periodo sembrare ad alcuni, compresi forse i neo-cardinali, il male minore.
Stefano Ceccanti
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