La fidanzata del dottore Nastasi - che allora non era ancora dottore ma studente in veterinaria - era fascista fanatica, Giovane Italiana, e in continuazione lo rimproverava perche' non s'era ancora arruolato. Il povero Nastasi resiste' per un po', alla fine "Ma insomma? Veterinario! - penso' fra se' e se' - Che gli possono fare a un veterinario? Mica lo mandano alla baionetta". E infatti. Il tempo di fare il corso e ricevere le stellette, ed ecco il sottotenente Nastasi, volontario universitario classe ventuno, che arranca sulla neve dalle parti dell'Ucraina, veterinario di muli, divisione Julia. Ruvolo e Alfano, invece, erano stati in Grecia e in Albania e dopo in Africa, entrambi in fanteria ed entrambi feriti; poi c'era mio padre; e infine l'altro Nastasi, l'unico fascista - ma brav'uomo - dei cinque amici, che erano gli unici cinque sopravvissuti - nel piccolo paesino siciliano da cui venivano - di quelli che avevano sedici anni nel trentasei. "Mangia! -
faceva mia nonna - E non fare i capricci! Tempo di guerra, anche le bucce di patata bisognava mangiare!". Poi c'erano le grotte in collina in cui noi bambini giocavamo a nascondino e che - spiegava la zia Alba - erano quelle in cui dieci anni fa si nascondeva la gente sotto i bombardamenti.
Poi c'era la zia Carmelina che a volte improvvisamente scoppiava in lacrime ed era, dicevano, per suo figlio - mio cugino in seconda - che io non ho mai conosciuto. Poi c'era - in fondo a un cassetto - la foto di tutti i colleghi del battaglione di mio padre, accosciati o in piedi come una squadra di calcio, i piu' con grandi baffi tipo l'esercito di Saddam; spavaldi e un po' impacciati sorridevano, e accando a quasi ognuno di loro c'era una crocetta a penna con una parola sbiadita: Al Qattara, Alamein, Bir-El-Gobi. Poi... C'erano un sacco di cose cosi', a quei tempi. La guerra era ancora vicina e tutti la conoscevano di persona. Quella generazione, che ormai sta chiusa in casa e ha ottant'anni, parlo' l'ultima volta dieci anni fa, quando scoppio' la prima guerra iraqena e improvvisamente, da tutti i supermercati d'Italia, sparirono tutte le lattine di carne e le scatolette. "C'e' la guerra!".
Ed era una guerra lontana, da televisione; ma essi istintivamente sapevano che la guerra non si sa mai quanto cresce e dove para, e percio' provvedevano in tempo a presidiare la casa con caffe', carne in scatola, zucchero e tutto il resto.
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Sono pochissime, le parole serie, in tempo di guerra. "Signor tenente", "in licenza", "imboscato", "colpito a morte". La guerra e' l'unica cosa che non viene valutata e decisa - a lungo andare - dai generali e dai capi, ma dal semplice soldato. E' lui, e non quelli che parlano, che alla fine da' il giudizio. La guerra di mio padre, che lui e i suoi amici si fecero con dignita' e senza paura, rimase una guerra sbagliata: non sono gli storici a dirlo, sono quelli che l'hanno fatta. I tedeschi erano bestie, gl'inglesi non ci avevano fatto niente, Mussolini era un buffone e i russi povera gente. Ciascuna di queste frasi non viene dai bei discorsi, ma da infiniti passi sulla neve, da su e giu' per le piste, da raccogliere morti e da silenzi cupi. Alla fine, la sentenza era quella, e non comportava disprezzo per i "fessi" (anzi) ne' minore orgoglio per i propri compagni (anzi) e per il dovere che s'era fatto.
Significava semplicemente "Mussolini era un buffone", lui e tutti quelli che gli avevano dato mano, che avevano preso dei giovani e li avevano portati a morire perche' lui si facesse bello con l'alleato, per conquistare greci, francesi e russi che non ci avevano fatto niente.
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Cosi', ci e' davvero difficile, oggi, scrivere di *questa* guerra. L'unica cosa certa, e' che e' una guerra; non e' un'altra cosa. Non e' una cosa in cui le parole dei politici, e persino dei predicatori come me, contino molto. Qui, l'unica parola che conta e' quella di chi davvero la paga: il soldato, la sua famiglia, il "nemico" - russo o iraqeno - del soldato.
Se vale la pena o no, lo sanno soltanto loro. I giovani di quella guerra, in Russia e in Africa, crebbero molto. Impararono la cosa piu' amara e piu' difficile, non fidarsi dei "grandi" che ti sorridono e fanno grandi parole ma poi in realta' hanno in testa altre cose.
Impararono a giudicare con la propria testa, perche' non c'era nessun altro che lo facesse al posto loro. Sei tu, e nessun altro, che devi decidere se quell'inglese era veramente tuo nemico, se quel tedesco era veramente tuo alleato. E questa non e' politica, ma semplicemente la vita.
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Non so che altro dire. Le parole di questi giorni, quasi tutte, sono parole politiche. Lo sono quelle che ricordano via Tolemaide (che qui, nella vita d'ora, non c'entra affatto), e lo sono quelle di chi parla di orgoglio e dice "non siamo piu' il paese delle mamme". I politici, in questi giorni, si sono contenuti abbastanza. Si sono sforzati di non dir cose troppo stridenti, di non gridar troppo forte, sentendo - istintivamente - che c'era dell'altro di piu' importante. E' stata una
cosa buona; ma non puo' durare. Prima o poi, anche questi giorni di guerra verranno riafferrati dai politici e reinseriti nella macchina, nel solito meccanismo decisionale di vip, di presidenti, di politici - per lo piu' in buona fede - di entrambe le parti. Invece questo e' un punto di svolta, il punto in cui c'e' da decidere che cosa, oggi nel duemila, e' bene e che cosa e' male, che cosa considereremo bene o male per le prossime due o tre generazioni. Non e' una decisione delegabile.
Non puoi affidarla a nessun altro che a te stesso.
Riccardo Orioles
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