Le preferenze personali non possono nascondere il senso elementare dei risultati della consultazione referendaria svoltosi nell’ultimo fine settimana. Vediamone alcuni aspetti.
1. Il "no" ha vinto in modo inequivoco. Rispetto alle modifiche introdotte dal centrodestra nella passata legislatura, una larga maggioranza di elettori ha preferito la Costituzione del 1948 così com’è. La legittimità di questo esito è confortata dal netto superamento di un quorum non richiesto e non previsto. L’esperto potrà sempre dire che in nessuna grande democrazia il primo ministro è così debole come in Italia, e persino calcolare quanto questo ci costi in termini spesa pubblica improduttiva. Ma questa osservazione si risolve in un giudizio ancor più duro sull’incapacità dei riformisti del centrodestra di elaborare una proposta capace di adeguato consenso. Il fatto poi che il "sì" abbia vinto in due delle regioni più avanzate del Paese non può essere un alibi, ma solo una parte del problema: per l’Unione, e magari per quella porzione di "cattolicesimo impegnato" che proprio in quelle regioni ha alcune delle sue radici più importanti e che in quelle aree più si è speso per il "no".
2. Questo risultato carica di responsabilità politica quell’area che ha sostenuto il "no" dicendosi intenzionata ad aprire una via alle riforme diversa e migliore. Si capirà subito se questo era solo uno slogan, se costoro sono minoranza nel centrosinistra o ne hanno la leadership. Si capirà subito se coloro che hanno sostenuto un "no per" lo hanno fatto per mancanza di coraggio o per la convinzione di poter realisticamente proporre al Paese riforme migliori. Certamente, costoro oggi si trovano dentro un centrosinistra con un programma istituzionale meno riformista di quello del 1996 e dentro una coalizione in cui i conservatori (esteticamente "estremisti") sono maggioranza.
3. Come abbiamo visto, una parte del significato politico di questo risultato elettorale è costituito dalla straordinaria partecipaz ione registratasi: il 53,7%. Finire 60 a 40 con il 53% dei votanti è una cosa, mentre finire 60/40 con il 25% dei votanti sarebbe stata ben altra cosa. L’osservazione non è peregrina perché del 25% fu all’incirca la partecipazione al voto nel referendum sulla "fecondazione assistita" (legge 40). Per di più, quel modesto risultato fu ottenuto dopo una campagna elettorale lunga e vivacissima, con interventi ed appelli di tutti i tipi, e non al termine di una campagna spenta e rassegnata ad una bassa affluenza alle urne. Ottenere il 53% senza spingere e fermarsi al 25% dopo aver mobilitato di tutto e di più un significato l’avrà, o no? Probabilmente, molto dell’astensionismo dello scorso anno, per cui tante istanze cattoliche si erano spese, aveva motivi forti e dipendeva da scelte vere, così come molta della reale anche se non richiesta partecipazione al voto di due giorni fa. Il risultato di ieri aumenta ulteriormente il peso specifico di quello di un anno fa: se gli elettori volevano, potevano andare a votare come questa volta hanno fatto. Insomma, l’opinione pubblica italiana ha idee e passioni. Condivisibili o meno, che si vorrebbe combinare in un modo invece che in un altro. Per una opinione pubblica di questo genere, oltre che istituzioni democratiche efficienti, serve una offerta politica insieme più seria e più umile.
Luca Diotallevi
Avvenire, 28 giugno 2006
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