La vicenda tragica di Pina Orlando, la mamma trentottenne di Agnone, che si è buttata nel Tevere all’alba di giovedì scorso, insieme alle figliolette di quattro mesi, ha scosso molti, soprattutto perché non è davvero cosa usuale che una donna uccida il frutto del proprio grembo: ogni volta che succede di neonati abbandonati, ad esempio, si solleva un coro di sdegno e pietà, sempre pervaso da un fitto sgomento.
I dettagli della vicenda sono usciti stentati sulle varie testate: si è parlato di depressione post parto, poi si è detto che la donna stava a Roma perché doveva seguire le bambine in terapia intensiva neonatale, vista la loro nascita prematura, ed infatti erano state dimesse da poco. Infine si è parlato di un lutto pregresso: le bambine sarebbero state tre, ma una è deceduta subito alla nascita.
Solo dopo quattro giorni sono emersi finalmente particolari significativi: su Leggo.it Emilio Orlando scrive:
Inoltre una delle due gemelline era nata completamente cieca e non avrebbe riacquistato la vista. L’altra avrebbe avuto per tutta la vita deficit deambulatori. Da qui probabilmente la decisione di farla finita. Gli scompensi ormonali dovuti ai farmaci utilizzati per la fecondazione assistita hanno fatto il resto.
Il dolore per questa morte si acuisce non poco, di fronte alla definizione di un quadro più crudele che tragico: abbiamo una coppia senza figli non più giovanissima che si lascia ingannare dal canto delle sirene della fecondazione assistita e tenta la via della stimolazione ormonale. Pina avrà ascoltato tante promesse allettanti, di quelle che sanno formulare con abilità i buoni commerciali che devono vendere un prodotto. Chissà se qualcuno le avrà prospettato anche i rischi delle tecniche di manipolazione per la fertilità, come i parti plurigemellari, le malformazioni congenite, i parti prematuri, i danni alla sua salute fisica e psichica per gli scompensi ormonali.
Tutto il peggio che poteva capitare, è infine capitato: il sogno che si spezza, deteriorandosi un passo per volta, come i petali di una margherita che cadono a terra secchi. Una gemellina muore subito, le altre due iniziano il loro calvario in TIN, un posto che Dante avrebbe senz’altro copiato per descrivere qualche girone dell’inferno, dove anche le menti più solide subiscono colpi non facilmente guaribili.
La terapia intensiva neonatale è un posto orribile, dove piccolissimi fagotti inermi sono tenuti in incubatrici, avvolti in fili e tubicini che ne occupano quasi tutta la poca superficie di pelle disponibile, attaccati a monitor dai loro bip inquietanti. I genitori sono sacchi di patate abbandonati su sedie scomode, accanto a questi giacigli inaccessibili, impotenti: allungano una mano dentro la culla, fanno una carezza, sussurrano parole nella speranza di essere uditi, soffrono e piangono.
Il tempo trascorre di una lentezza pachidermica, nell’inattività, nell’attesa di una parola del medico, del giro di visite, del risultato rivelatore di un esame. Spesso arrivano brutte notizie, perché in questo reparto la vita è precaria e i medici, che lo sanno, non vogliono alimentare false speranze, quindi, piuttosto che dire una parola in più, ne dicono una in meno. Hanno sempre espressioni perplesse, enigmatiche. Cercano di non farsi fagocitare dal bisogno lancinante di empatia di queste neomadri, squassate dalla gravidanza, dal parto e dalla difficoltà di gestire emotivamente la situazione critica dei figli.
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