Antefatto di una conversione ·
L’amore di Chesterton per il poeta americano
«Tutta la mia giovinezza è stata pervasa, come da un’aurora, dall’ardore fiducioso di Walt Whitman. (...) Mi emozionavo nell’udire il racconto di qualcuno che riferiva di averlo incontrato per strada; era quasi come se Cristo fosse redivivo». A ricordarlo è il cinquantacinquenne Gilbert K. Chesterton in uno dei saggi che aprono The Thing: Why I am a Catholic. L’incontro con il padre della poesia americana ha tutto il sapore di una conversione, un’autentica svolta che rivoluzionò gli anni della sua giovinezza e ne indirizzò la vita su altri cammini. «Senti, m’informò l’anima, / Scriviamo per il corpo (siamo infatti una cosa)»... l’incipit di Foglie d’erba dovette piombare come una folgore sul dinoccolato diciottenne inglese, smarrito nelle torpide brume dello spiritualismo vittoriano.
È l’estate del 1892, e Chesterton si trova in vacanza a West Kensington, nella camera del suo compagno di studi Lucian Oldershaw, che stringe tra le mani l’edizione ridotta di Leaves of Grass, curata da Ernest Rhys per la popolare collana Canterbury Poets. Cupo e silenzioso, prigioniero di un’introversione immaginativa chiusa a doppia mandata dagli autori decadenti in voga alla Slade School of Fine Arts, il giovane Chesterton aveva fatto preoccupare i propri amici.
«Non potrò mai dimenticare mentre glielo leggevo», annoterà poi il fedele Oldershaw. «La seduta durò da due a tre ore e fummo inebriati dall’entusiasmo della scoperta». Nella sua Autobiografia lo stesso Chesterton riconoscerà che a restituirgli la sanità mentale furono «quei pochi autori di moda che non erano pessimisti» ovvero Walt Whitman, Robert Browning e Robert Luis Stevenson. D’altronde, per lo stesso Stevenson l’incontro con Whitman aveva messo il mondo sottosopra, facendo «esplodere nello spazio mille ragnatele di illusioni signorili ed etiche, e — scosso il mio tabernacolo di menzogne — mi riportò sul solido fondamento di tutte le virtù originarie e virili» (L’arte della scrittura). Proprio questi tre autori riaccesero in Chesterton il caldo falò di un «mistico minimum di gratitudine» verso tutto ciò che di concreto c’è e che, pur con mille imperfezioni, è perfettamente superiore all’inesistenza.
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