Bentornati
a casa, cari amici. Il Coronavirus è passato o forse no, forse si è
chiusa solo la prima parte della sceneggiata, forse era tutto quasi un bluff (con
parecchi morti, però), forse ci sarà la seconda ondata, forse il peggio
deva ancora venire. Intanto ci si prepara a un’estate magra di turisti e
di proventi, ricca in cambio di polemiche: con l’autunno arriveranno
anche nuove elezioni e sono in molti a prepararsi. La domanda che
parecchi politici sembrano farsi è non già come uscire dalla crisi, ma
quali slogans trovare per avvantaggiarsi elettoralmente dalla situazione o far sì che ne sia svantaggiato l’avversario.
Si cerca di forgiarsi armi nuove e si riaffilano le vecchie. Xenofobia e antislamismo in primo piano: quelle sono roba evergreen. Un
caro amico, illustre studioso, giorni fa è caduto perfino lui nella
trappola del gatto arrostito e mangiato da un ivoriano in quel di
Campiglia Marittima: e ci sono caduto anch’io. Entrambi gattofili
indignati, abbiamo poi appreso che trattavasi di bufala: meno male, in
fondo. Non è una bufala invece l’eroico golpe antimusulmano di
sindaco e giunta comunale di Pisa, nuovi paladini di Carlomagno in lotta
contro i nuovi saraceni. La comunità musulmana di Pisa (formata, si
badi bene, anche da migranti ed extracomunitari, ma alla quale
appartengono anche cittadini italiani la libertà di culto dei quali è
garantita dalla Costituzione) aveva comprato tempo fa un terreno
fabbricabile per erigerci la sua moschea: aveva pagato tutto
regolarmente, si era procurata le licenze necessarie e si apprestava a
dare il via ai lavori. Ma Orlando Sindaco e Oliviero e Turpino Paladini
Assessori hanno deciso che quella era Roncisvalle: e hanno bloccato
l’avanzata saracena (e il godimento dei diritti civili di alcuni
cittadini italiani musulmani) con un’ordinanza che ha destinato l’area a
un parcheggio. Ed ecco la sacrosanta motivazione, degna del Carmen in victoria Pisanorum (“Viva il Popolo di Pisa – per la vita e per la morte!”): La città di Pisa ha più bisogno di parcheggi che di moschee.
Ma il diavolo, alleato dei musulmani (lo dice anche l’Orlando Furioso), ci ha messo la coda: e il diabolico TAR è intervenuto dando ragione agli infedeli (…ma dove andremo a finire?).
Per
ora le cose sono ferme a questo punto. Ma sapete la valanga di voti che
quest’eroico assalto alle mura saracene frutterà al centrodestra pisano
e quindi toscano il 20 settembre prossimo? Del resto a Sesto San
Giovanni in quel di Milano, l’ex Stalingrado d’Italia, è accaduto
qualcosa di simile: da Stalingrado a Roncisvalle.
Ma che strano… lo
sapete che al tempo delle crociate, quelle vere, il Comune di Pisa
stipendiava regolarmente una cancelleria dove c’erano traduttori di
documenti pubblici dall’arabo in latino e dal latino in arabo? E che nel
porto di Genova, imbarcandoci dal quale c’era una buona probabilità,
giunti all’altezza della Corsica, di cader prigionieri dei corsari
barbareschi e di finir la vita remando sulle galee di Tripoli o di
Algeri, funzionava regolarmente una moschea per i mercanti saraceni che
vi pregavano indisturbati, così come a Gerusalemme, nella moschea di
al-Aqsa e sotto la protezione dei Templari, c’era un oratorio a
disposizione di chi volesse pregare Allah? E tutto si faceva alla luce
del sole, ogni tanto sbudellandosi nel nome della crociata o del jihad,
ma anche commerciando e scambiandosi trattati di filosofia, di medicina
e di matematica; e né Francesco d’Assisi, né il Saladino, né Federico
di Svevia, né Raimondo Lullo hanno mai ritenuto disdicevole parlare di
Dio tra seguaci del Vangelo e fedeli del Corano. Oggi, a Siviglia e a
Cordoba si prega il Dio cristiano in chiese che sono state moschee; al
Cairo e a Damasco in moschee che sono state chiese. Lo si fa da tempo. E
allora?
Eppure, c’è chi s’indigna o si preoccupa per quel ch’è
successo a Istanbul, che una volta si chiamava Costantinopoli. Ebbene,
parliamone: che cos’è veramente successo?
Cominciamo dal principio.
Quella
che in italiano siamo abituati a chiamare “Santa Sòfia” (per piacere,
mettete almeno l’accento sulla “o”…) è un capolavoro dell’architettura
imperiale romana del IV-V secolo d.C., cui s’ispirarono in tanti fra i
quali, a quanto pare, nel XVI secolo il grande architetto ottomano
Sinan, il “Michelangelo dei turchi”. E non c’è dubbio che sia uno dei
monumenti-documenti più splendidi dell’architettura religiosa e di
quella tout court di tutti i tempi. I veneziani del XIII
secolo, che durante la “quarta crociata” del 1204 l’avevano saccheggiata
e depredata, vi s’ispirarono per la loro mirabile cattedrale di San
Marco; ma non c’è dubbio che, già da prima, essa era stata il modello di
Giustiniano per San Vitale di Ravenna e degli architetti greci al
servizio del califfo umayyade di Damasco, nell’VIII secolo, per la
“Moschea della Roccia” di Gerusalemme. Insomma, l’asse della storia
eurasiomediterranea passa per quella che i greci chiamano Hagia Sofia – foneticamente resa dai turchi con Ayasofia – e per noi Santa Sofia.
Sofia, vale a dire Sòphia,
la Sapienza divina, la “Seconda Persona” della Trinità, il Figlio. È la
cattedrale dedicata alla “Santa Sapienza” divina, vale a dire per la
tradizione ortodossa al Cristo in quanto Logos, Sapienza e Verità eterna, la Seconda Persona della Trinità. Ma i cittadini grecofoni della Nèa Ryme, la “Nuova Roma”, la chiamavano semplicemente Megàle Ekklesìa, “la grande chiesa”; ed era considerata la Mater Ecclesiarum e
il luogo più santo della Cristianità. Sognata e avviata da Costantino,
era stata inaugurata nel 360 dall’imperatore Costanzo II. Ricca di
strutture lignee, fu incendiata nel 404. Ricostruita e quindi incendiata
di nuovo durante la cosiddetta “rivolta della Nika” del 532,
spettò a Giustiniano il ricostruirla. Il grande imperatore non badò a
spese e fece arrivare da tutti gli angoli dell’impero i marmi più
pregiati; il progetto dell’immensa cupola fu probabilmente costruito
sulla base dei calcoli di Erone d’Alessandria. L’imperatore e il
patriarca Eutichio inaugurarono la nuova basilica il 27 dicembre 537,
festa dell’evangelista Giovanni. Da allora il tempio divenne il luogo
più sacro della Cristianità, illustrato anche dalle reliquie della
passione del Cristo che l’imperatrice Elena madre di Costantino aveva
inviato a Costantinopoli verso il 330.
Poiché i sovrani cristiani
sono “figura del Cristo sulla terra”, quella cattedrale dedicata al
Cristo dall’imperatore Costantino era edificio imperiale per eccellenza e
le molteplici cupole che la coronano simboli delle sfere celesti
dell’universo. Ben lo sapeva il doge Dandolo, le insegne del cui potere
riproducevano quelle imperiali bizantine, e che dopo averla conquistata a
spogliata volle farvisi seppellire. Ben lo sapeva quel khan turcomongolo che gli occidentali chiamavano col generico termine di “sultano”, Mehmed II, che dopo aver conquistato la Nèa Ryme (la
“Nuova Roma”: tale il nome ufficiale di Costantinopoli) e averla
ridenominata Istanbul – un’espressione greca foneticamente turchizzata
che significa solo “Nella Città” – volle prendere il titolo d’origine
persiana di Padishah, derivato dal latino Caesar, per
sottolineare di aver conquistato l’impero romano. Ben lo sapeva il suo
successore del Cinquecento, il grande Solimano, che noi chiamiamo
“Solimano il Conquistatore”, ma che nel mondo musulmano è noto come Suleiman al Qanuni, “Solimano il restauratore del Canon”, che altro non è se non il Corpus Iuris giustinianeo che, nell’impero ottomano, fungeva da legge civile per quanto corretta dalla Sharia coranica. Ben lo sapevano gli zar della stirpe dei Romanov (Zar, come Padishah, deriva dal latino Caesar),
che contendevano agli ottomani il vanto di potersi dire eredi
dell’impero romano: questi per diritto di conquista dopo il 1453; quelli
per diritto di fede, essendo cristiani ortodossi, e di sangue,
discendendo da una principessa del casato dei Paleologi, gli ultimi basileis bizantini
(e volendo occupare militarmente il Bosforo e l’accesso al
Mediterraneo). E ben lo sapeva infine un imperatore forse taroccato, ma
che si prendeva dannatamente sul serio: Napoleone, secondo il quale
quando il mondo fosse stato abbastanza saggio da unificarsi, altra
capitale non avrebbe potuto scegliere se non Costantinopoli. Se c’è
qualcosa che non vi è ancora chiaro, rileggetevi Chateaubriand, Gérard
de Nerval e Loti: capirete tutto.
Le vicende storiche dell’illustre
monumento sono ben note e dal canto mio le ho già qui richiamate. Ci
torno sopra con qualche particolare in più. L’imperatore e legislatore
Giustiniano affidò agli architetti Isidoro di Mileto e Antemio di Tralle
un complesso lavoro di totale ristrutturazione che durò solo cinque
anni in quanto sostenuto da un finanziamento colossale. La sua immensa
cupola, di circa 30 metri di diametro, crollò nel 555-556 e venne
sostituita da un edificio di ridotte dimensioni che tuttavia, con i suoi
61 metri di altezza, 77 di lunghezza e 71 di larghezza, era comunque il
più straordinario monumento dell’impero. Marmi e metalli preziosi
furono impiegati a profusione per l’edificio, completamente rivestito
all’interno di mosaici. Le pietre e le colonne che erano state
utilizzate per costruirlo provenivano, a quanto si diceva, da diversi
luoghi dell’impero, a cominciare dal saccheggio del grande tempio di
Artemide a Efeso.
A partire dal VII secolo l’impero romano d’Oriente,
che siamo soliti chiamare Bisanzio, fu scosso dalla crisi iconoclasta;
diversi imperatori aderirono al movimento contrario alle immagini sacre,
fino a quando il lungo periodo di contese si concluse sotto il regno
del basileus Michele allorché una cerimonia in Aghia Sophia,
tenuta l’11 marzo dell’843, riaffermò solennemente e definitivamente il
dettato del secondo concilio di Nicea, legittimando di nuovo la proskynesis (prostrazione) dinanzi alle immagini: secondo un culto di adorazione per Dio, di venerazione per Maria, gli angeli, i santi.
Simbolo
dell’unità religiosa dell’impero, la chiesa fu gravemente minacciata
nelle fasi preliminari della conquista latina di Costantinopoli, nel
1204: in quell’occasione un gravissimo incidente avvenne mentre Alessio
IV, il giovane principe che i “crociati” avevano rimesso sul trono,
insieme al padre dopo un colpo di stato dello zio, in cambio della
promessa di ingenti ricompense, era fuori dalla città accompagnato da
alcuni dei baroni franchi in una spedizione contro i bulgari. Una banda
di fiamminghi, pisani e veneziani mossero un attacco contro il quartiere
musulmano per depredarlo: i residenti risposero con l’aiuto dei greci.
Le conseguenze furono terribili perché un incendio divampò e il vento
spinse le fiamme in profondità, estendendosi per circa 500 metri e
arrivando a sfiorare Aghia Sophia. Seguirono settimane di
tensione, al culmine delle quali i crociati saccheggiarono e
conquistarono la capitale; preventivamente, i capi della crociata si
erano riuniti per accordarsi sulla suddivisione del bottino e
dell’Impero: al patriarca veneziano andava Aghia Sophia,
convertita dalla confessione greca a quella latina che gli occupanti
volevano imporre a una capitale recalcitrante. Proprio in quella sede,
il 16 maggio del 1204 il conte Baldovino IX delle Fiandre venne
incoronato imperatore di Costantinopoli mentre il veneziano Tommaso
Morosini ne divenne patriarca. Così, quando con l’aiuto dei genovesi,
nemici dei veneziani, i greci riconquistarono la città, o quel che ne
restava dopo le devastazioni, il 13 marzo 1261 fu sempre in Aghia Sophia che Michele VIII fu incoronato basileus. Chi vuol saperne di più può leggere adesso il bel libro di Marina Montesano, Dio lo volle?, Roma, Salerno editore, 2020.
L’impero
bizantino si trascinò stancamente da allora per un paio di secoli, fino
a quando gli ottomani non misero fine all’agonia; tuttavia, non prima
che i cattolici imponessero, in cambio dell’aiuto (che comunque non
arrivò mai) contro il Turco, un passaggio forzato dei greci sotto la
Chiesa di Roma: l’imperatore accettò, mentre buona parte del clero
ortodosso e del popolo costantinopolitano si ribellava, e fu ancora in Aghia Sophia
che il 12 dicembre del 1452 alla presenza del cardinale Isidoro
patriarca latino di Costantinopoli, appositamente giunto da Roma, che si
celebrò la fine dello scisma iniziato nel 1054.
Dopo la conquista
ottomana del 1453, il sultano Mehmet II convertì la chiesa in moschea:
come dicono molti cronisti dell’epoca, fra i quali il fiorentino
Cristoforo Buondelmonti, al momento della conquista l’edificio si
trovava in uno stato fatiscente; i restauri e gli abbellimenti
continuarono sotto i successori del conquistatore; gli ultimi lavori
importanti, realizzati verso la metà dell’Ottocento, furono affidati ad
architetti italiani.
Dopo lo smantellamento dell’impero ottomano e la
rivoluzione nazionalista di Mustafa Kemal Atatürk, nel 1935 si volle
trasformare Ayasofya in un “tempio laico”, cioè in un museo, in
linea con la politica del governo e a lode della nazione turca rinata a
nuova vita, che considerava Santa Sofia un po’ come il suo Partenone.
In anni recenti il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha permesso, se non
favorito, il ritorno di diversi edifici del paese a luoghi di culto: in
Istanbul Chora, un’altra chiesa bizantina di Istanbul che pure era
diventata una moschea e poi un museo; e fuori dalla capitale edifici
simili a Iznik e Trabzon. Da un paio d’anni a questa parte il presidente
promette (o minaccia: secondo i punti di vista) di fare lo stesso con Ayasofya,
che tornerebbe al suo ruolo di luogo di culto. Va detto ch’esso è stato
tale – cristiano latino, cristiano greco o musulmano – per oltre 1500
anni. Evidentemente Erdoğan intende con ciò ottenere ulteriore consenso
da parte della base tradizionalista (se non proprio fondamentalista) del
suo partito, cercando di distogliere l’attenzione da una gestione
politica non sempre cristallina: ma questa è una questione interna alla
Turchia odierna, rispetto alla quale l’Occidente ha ben poco da dire. Di
per sé, il suo ritorno alla funzione sacra originaria non deve destare
inquietudine: soprattutto alla luce del fatto che, come capitale di due
imperi, quello romano e quello ottomano, Aghia Sophia/Ayasofya non
è mai stata un simbolo neutro. Lo “strappo” vero, più che nel 1204
quanto il santuario passò dai greci ai latini o nel 1453 quando passò
dai cristiani ai musulmani, avvenne durante il regime laicista di Kemal,
in tempi nei quali perfino il nominare il nome di Dio in parlamento era
considerato un crimine. Oggi, un ritorno parziale al culto – in giorni
speciali o attraverso l’organizzazione di uno spazio interno a “sala di
preghiera” – non appare cosa che possa davvero urtare o scandalizzare
qualcuno.
A meno che… Ma qui bisognerebbe intendersi su molte cose, a
cominciare dal valore della tolleranza. Se oggi si profilasse la
necessità o l’opportunità di trasformare una chiesa in museo – cosa del
resto già accaduta più volte –, è molto probabile che chi vi si
opponesse si vedrebbe accusato di oscurantismo e d’intolleranza. Stesse
accuse che verrebbero lanciate contro chi intendesse restituire al culto
religioso un monumento ormai usato come spazio civico o culturale.
Dietro a questi due atteggiamenti c’è un pensiero “a senso unico” che
per quanto è in me non ho alcuna intenzione di avallare. Esistono le
case di Dio, le case “della nazione” – sacra e una “religione civica” – e
le case “della cultura”. Sono dimore che possono anche esser simili; e
ce ne sono che, nel tempo, hanno coperto tutte le tre funzioni. In tempo
di pluralismo, è opportuno ritenere in linea di massima legittime tutte
le opzioni e decidere secondo opportunità, caso per caso. Come
credente, posso anche accettare che in alcuni casi un edificio sacro
possa essere anche adibito ad altro uso. Ma che addirittura il metro di
giudizio si ribalti fino a giungere al paradosso di dichiarare che un
edificio riportato alle sue originarie funzioni religiose possa essere
accusato di costituire una “profanazione” della “laicità”, questo poi
no. La “laicità”, per sua natura, è già “profana” e non può essere se
non “profana”. Come credente, posso anche rispettare la laicità. Ma
“sacralizzarla”, poi, questo mi dispiace ma non si può. “Per la
contraddizion che nol consente”: pericope dantesca da assumersi in
questo caso alla lettera.
domenica, luglio 12, 2020
La casa di Dio, la casa della nazione, la casa della cultura
Questo articolo è stato pubblicato in MC
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