Giovanni Duprè, commemorando Michelangelo, descrisse mirabilmente la sua maniera di scolpire e ce lo presentò così vivo da far pensare ad un'aggressione creativa: «... compiuto il bozzetto, se lo poneva davanti, accanto al blocco di marmo e al modello vivo, cercando gli estremi limiti; e, trovatili, guardava pensosamente, profondamente, quel marmo che gli nascondeva la statua; poi, segnate le prime linee di contorno col carbone, s'avventava sul blocco, e colla subbia lo saettava con forza, colpo su colpo, togliendo il soperchio; le scaglie saltavano sonanti come grossa gragnuola sbattuta dal vento, la sabbia sul marmo mandava scintille, e i colpi s'avvicendavano ai colpi con lena affannata; dopo breve sosta, un riguardare continuo, celere e da tutti i lati del bozzetto e del marmo. Il respiro spesso e caldo dell'artista pareva che infondesse i primi aliti di vita nella dura materia, e, a misura che il marmo si foggiava a somiglianza del pensiero di lui, cresceva il suo ardore, e il pensiero stesso brillava di più viva luce».
La
stessa prepotente maniera Michelangelo usava nel trattare con quanti non
s'arrendevano alla sua volontà. Fu scontroso con lo stesso Papa che saliva
spesso sulle impalcature della Sistina per ammirare gl'immortali dipinti. È
rimasto celebre l'episodio avvenuto in Bologna, quando quel vescovo,
ripresentando Michelangelo contrito a Papa Giulio II, intese facilitare
l'incontro alludendo all'ignoranza dei «grandi» considerati fuori della loro
arte. «Ignorante sei tu, che gli dì villania che non gli diciamo noi», scattò
il Buonarroti incollerito.
Ma
tutta l'indole sua, tutta la innata superbia che ce lo rende scottante, è
racchiusa in una lettera del 1542 in cui egli intese chiarire il dissidio con
Papa Giulio: «Tutte le discordie che nacquero tra Papa Giulio e me — scriveva —
fu la invidia del Bramante e di Raffaello di Urbino per rovinarmi; e aveva ben
ragione Raffaello, che ciò che aveva dell’arte, l’aveva da me».
Evidentemente
il titano esagerava, ché, fra l'altro, di tutt’altra luce e bellezza fu l’arte
di Raffaello.
Ma chi non è disposto a perdonare l’orgoglio smisurato — che può considerarsi
consapevolezza piena — all’autore del Mosè, del Davide, del Giudizio
Universale, della Cupola, del Palazzo Farnese?
Pensavo
alle sue ribellioni aperte ed occulte giorni addietro in San Pietro in Vincoli,
e, di fronte al miracolo del Mosè, rimasi ancora una volta così profondamente
assorto, da guardarmi poi alle spalle pressoché smarrito.
Gli è che dinanzi a quel marmo così vivo e parlante i pochi fedeli mi si
muovevano intorno opachi e freddi nella nostra precaria umanità, tanto da
sembrare fantasmi.
E che dire dei 50.000 pellegrini che, fissi lo sguardo alla Cupola, riportarono
in patria, scolpita nell’anima, l’immagine possente della Città Eterna?
C’è
da credere che la sincerità del genio è tale da non saper simulare il proprio
pensiero, al punto che l’orgoglio diventa per lui una colpa inconsapevole.
Ma
gliela perdoniamo volentieri perché in pochi come in Michelangelo c’è
l’impronta di Dio.
BENIGNO
19
ottobre 1947
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